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I misteri del nuovo Yom Kippur. Cui prodest?

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Il 6 ottobre 1973, cioè esattamente mezzo secolo fa, gli eserciti di Egitto e Siria attaccarono di sorpresa Israele, avanzando, nelle prime fasi della guerra, tra le difficoltà israeliane. La chiamano la guerra dello Yom Kippur, perché cadeva esattamente nella festività giudaica dell’espiazione.

 

Le truppe dello Stato ebraico riuscirono a passare alla controffensiva, ma in pochissimo tempo la guerra si spense con il cessate il fuoco chiesto da USA e URSS. Nessun vero avanzamento sul campo, per le parti in lotta, ma una cascata di caos per il resto del mondo, sconvolto dalla decisione dei Paesi arabi OPEC di aumentare il prezzo del petrolio per sostenere Il Cairo e Damasco. Gli effetti della crisi petrolifera si propagarono per tutto il decennio.

 

La scelta di Hamas di far partire l’operazione «Tempesta di al-Aqsa» nell’anniversario del Kippur potrebbe non essere casuale. Vi sono però molte differente: qui l’attacco non è perpetrato da uno Stato-Nazione, né da un esercito, ma da un’organizzazione ritenute «terrorista» da USA, UE etc. – pur con un sostegno straniero che è stato pure rivendicato da qualche portavoce.

 

A differenza del nuovo Kippur, l’incipit non è uno scontro militare, ma un massacro di civili con rapimenti di massa mai visti – un vero ratto collettivo, come solo avevamo letto nei libri di storia antica.

 

Tuttavia con la guerra del Kippur c’è una similitudine impressionante: anche stavolta, i vertici israeliani sono stati presi di sorpresa. Un po’ troppo, forse.

 

Sabato sera il New York Times iniziava il suo pezzo proprio con lo stupore riguardo il fallimento assoluto dell’Intelligence di Tel Aviv: il Mossad è uno dei più potenti e temuti servizi, molto ben finanziato, e, come noto, con infiltrati in tutti i gruppi nemici, pure ad alto livello – qualche anno fa emerse che gli israeliani avevano piazzato una spia vicino ai vertici di Hezbollah.

 

Possibile che si siano fatti prendere di sorpresa? La domanda rimbalza in rete, dove quantità di utenti con passato nell’esercito e nell’Intelligence militare israeliana dicono che una cosa del genere è impossibile. Una giovane dice di aver passato le notti sui sistemi di sorveglianza sul muro, e se passava un uccello, lo trovavi e ne discutevi con i superiori.

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Ora, l’infiltrazione più spettacolare l’hanno fatta con i parapendii motorizzati, di cui ora Hamas ha diffuso un video trionfalistico di alta qualità, girato presumibilmente nei giorni scorsi.

 

Nessuno che prevedesse la cosa? Nessuno che avesse sentore del più grande attacco in mezzo secolo?

 

Israele possiede la tremenda Unità 7200, probabilmente uno dei gruppi di hacker più potenti al mondo. Essa è preposta, sin dagli anni Settanta, alla sorveglianza elettronica delle comunicazioni nemiche. I malware spionistici per telefonini – i trojan più efficaci – derivano in genere da personale che è appartenuto all’Unità.

 

Nemmeno loro sapevano nulla? A quanto pare, no. Altrimenti ci saremmo risparmiati le centinaia di morti ai raid, le famiglie rapite, il cadavere della ragazza tedesca portata in parata per le strade di Gaza con la folla esaltata e «Allahu Akbar» a ripetizione, e pure gli sputi.

 

È un bel mistero. La catastrofe più grande è in agguato, e non la sai prevedere. Come Pearl Harbor, o, evento più consonante qui, l’11 settembre.

 

A questo punto, possiamo solo cercare di figurarci cosa può succedere d’ora in avanti. Così da cercare di rispondere a quella che è la domanda fondamentale, sempre: cui prodest? A chi giova?

 

Innanzitutto, va specificato che, per effetto di questo massacro, le proteste contro Netanyahu sono levate. Ricordate? Migliaia e migliaia di cittadini in protesta contro l’eterno premier per la sua riforma della giustizia, membri dell’esercito e pure del Mossad che si pronunciano contro Bibi, e strali lanciati su giornali internazionali dal filosofo del World Economic Forum Yuval Harari.

 

Ricordate e manifestazioni oceaniche? Ad una certa, avevano perfino assediato casa Netanyahu, tra tensioni e bandiere israeliane.

 

A noi sembrava in tutto e per tutto una rivoluzione colorata. Netanyahu non si è pigliato con Biden, questo si è capito. E, a dire il vero, neanche con l’altro grande motore delle colored revolutions, George Soros, che non sappiamo qui quanto c’entri, ma il cui odio per Bibi è notissimo, tanto che il giovane figlio del premier israeliano fa meme in rete in cui Soros comanda perfino gli alieni rettiliani – gli hanno dato, immantinente, dell’antisemita, ed è figlio di Netanyahu.

 

In questo momento il golpe colorato contro Netanyahu può dirsi bello che finito: se fanno massacri ai rave, che carneficina può divenire una marcia pubblica?

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Pensate a cosa parlerà nei prossimi mesi l’opinione pubblica israeliana: parlerà di riforme giudiziarie, o delle sorti delle famiglie rapite? Un dramma del genere non si sgonfia facilmente, se si pensa al caso dell’ambasciata USA a Teheran lo si comprende subito. E questo è molto peggio, perché sono persone rapite in casa, sono famiglie, donne e bambini, e una capacità di uccidere già espressa con chiarezza dal nemico.

 

Per cui, fine delle proteste. Adesso si pensa ad altro. Specie se il nemico ha dimostrato di essere così belluino, animato da una feralità è che emerge con forza dai video agghiaccianti.

 

Nessuno sa ora quale sarà la vera risposta di Tel Aviv. I raid aerei scattati immantinente sono in realtà pure reazioni pavloviane. Devastare Gaza, come promesso da Netanyahu è difficile se si considera il numero di ostaggi che Hamas si è portata via. A meno che non si intenda radere al suolo tutto, pronti ad accettare i «danni collaterali» degli ebrei uccisi.

 

Lo stallo quindi potrebbe protrarsi per mesi – anni. L’effetto politico immediato è la polarizzazione partitica, l’esclusione di ogni avvicinamento con la parte araba, e pure il rafforzamento di tecnologie si sorveglianza sempre più stringenti. Come noto, proprio di un uso eccessivo dei software di riconoscimento facciale Israele è stato accusato da Amnesty International.

 

Quei partiti che predicano la radicale separazione tra ebrei e non-ebrei – partiti che Netanyahu ha portato ora al potere – realizzano la loro agenda politica. Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich a inizio anno aveva dichiarato che non esiste alcun popolo palestinese. Il ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che ad un certo punto aveva bandito le bandiere palestinesi in quanto «incoraggiano il terrorismo», trova conferma della sua ideologia: il suo partito deriva dal Kach, il dissolto partito politico fondato dal rabbino american Meir Kahane, che esigeva che tutti gli arabi lasciassero Eretz Israel, la Terra di Israele secondo gli ideali dell’estrema destra israeliana.

 

Si tratta di quelle fazioni che rivendicano lo sputo libero sui pellegrini cristiani, un tema caldo, assieme ad altri attacchi anticristiani e profanazioni, in questi mesi, ma che scomparirà in brevissimo tempo.

 

Questo per quanto riguarda l’interno dello Stato Ebraico.

 

Fuori di esso, il rivolgimento è ancora più contorto. Innanzitutto, l’amministrazione Biden – quella che forse stava sobillando le masse contro Netanyahu – è umiliata. Sotto la sua supervisione è avvenuto il più grande massacro di israeliani del XXI secolo; sotto il suo sguardo ecco che ti scoppia, ufficialmente, un’altra guerra.

 

Circola in rete un video della settimana scorsa in cui Jake Sullivan, il giovane clintoniano advisor per gli Esteri di Biden (a cui forse si deve il North Stream), dice che oggi il Medio Oriente è un posto più sicuro che mai. Eccerto. Si vede proprio.

 

Sullivan, e Biden con lui, sono colpiti nel momento in cui Washington stava aprendo all’Iran, «liberando» per Teheran 5 miliardi di dollari e scambiando ostaggi. Un ritorno all’accordo nucleare dei tempi di Obama, del quale si dice Sullivan fu l’architetto.

 

Come abbiamo visto, le accuse all’Iran come fiancheggiatore dell’attacco sono partite subito, dettagliate in un articolo del Wall Street Journal che cita fonti militari americane e israeliane, ovviamente non felicissime dell’operato di Biden. Da Teheran prima sono arrivate congratulazioni ad Hamas per l’attacco, poi una smentita riguardo gli aiuti nella preparazione.

 

Sia come sia, gli accordi per la rinuclearizzazione dell’Iran ora andranno in stallo: ecco un’altra bella conseguenza immediata su cui riflettere. L’incubo di Netanyahu dell’Iran atomico, quello per il quale si presentò all’ONU con una bomba disegnata su una lavagna, si allontana un pochino – e sai che sospiro di sollievo per chi, non dichiarate, ha qualche centinaia di testate atomiche, magari a Dimona, nel deserto meridionale di Israele.

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A chi giova un altro spezzone della guerra mondiale? Non bastava l’Ucraina, il Nagorno, l’Africa Occidentale, il Kosovo?

 

È difficile dirlo con esattezza. Sia gli USA che la Russia stanno alzando le mani in questo momento: un altro casino forse non vogliono trovarsi a risolvere. Eppure, la situazione potrebbe precipitare: si continua a parlare degli Hezbollah che potrebbero attaccare da Nord.

 

La Siria, che da mesi e mesi è oggetto di raid israeliani – persino di giorno, persino in piena città, persino appena dopo il terremoto – starà a guardare, giusto? Perché alla Siria (che è tornata nella Lega Araba…) è connessa, lì sì, la Russia, che ricordiamo è pure un Paesi di enorme influenza in Israele, visto che il 15% della popolazione è russofona. Gli USA la guerra ad Assad la farebbero subito, ma Mosca si muoverebbe mai a combattere attivamente Israele? Negli ultimi tempi abbiamo visto solo condanne a parole e poco altro.

 

E allora, è tutta una filiera per tirare dentro l’Iran, e organizzare un’altra enorme guerra in Medio Oriente? Potete solo, se volete, speculare.

 

Di certo c’è che il pattern dello shock petrolifero ce lo abbiamo anche stavolta. L’Arabia Saudita, che pochi giorni fa aveva dichiarato di voler «normalizzare» ufficialmente i rapporti con Israele come hanno fatto gli altri Paesi arabi degli Accordi di Abramo, ora ritira tutto.

 

Gli effetti sui prezzi petroliferi sono già stati ipotizzati, e vanno letti all’interno del quadro più ampio della crisi energetica, che era iniziata – tenetelo sempre a mente – prima della guerra ucraina, e che abbiamo pagato sulla nostra pelle con le bollette impazzite.

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Chi è dietro a questo massacro vuole affondare ancora di più l’Occidente nello shock petrolifero, di modo da deindustrializzare completamente il suo tessuto produttivo e piegare definitivamente la sua popolazione, lasciandola in stato di povertà ineludibile?

 

Non è impossibile pensarlo, se cerchiamo di rispondere davvero alla domanda più importante, cui prodest. Su queste pagine abbiamo già avuto modo di veder analizzata la correlazione tra gli shock petroliferi indotti e i piani per il controllo delle nascite.

 

C’è qualcosa che va detto riguardo allo spirito generale che sta animando la situazione – e lasciando perdere per il momento i discorsi sulle origini di Hamas, cioè dei Fratelli Musulmani, e i legami di questi con agenzie di Intelligence occidentali, etc.

 

Né Hamas né i partiti della zeloteria sionista in questo massacro perdono qualcosa – se il loro intento è l’annientamento dell’avversario, la sua distruzione pura e semplice. Israele non deve esistere, dicono gli uni, gli arabi non devono stare in Israele, sostengono gli altri. Non c’è compromesso possibile, quindi non c’è più politica: c’è solo la volontà di devastazione, l’impulso di morte.

 

È la Necrocultura che si fa geopolitica: solo il sacrificio umano dell’altro, non assimilabile, si dà come via da seguire. Si deve, quindi, aumentare la morte, la distruzione, i programmi di annientamento.

 

Non è diverso per chi appartiene a gruppi di decisori che stanno molto più in alto dei personaggi arabi ed israeliani di questa storia. Ve lo stano dicendo da mo’: siete troppi, consumate troppo, andate ridotti, controllati, cancellati, scioccati, braccati, assetati, pervertiti, sterminati. Andate sacrificati.

 

A chi giova, allora? Giova ai signori della morte. E quindi riguarda, anche e soprattutto, voi stessi, e la vostra prole.

 

Roberto Dal Bosco

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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