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Pensiero

Hanno ribaltato anche Fantozzi

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Più passano gli anni, più l’immortale capolavoro di Paolo Villaggio – la serie Fantozzi – acquisisce valore. Si tratta oramai di un classico, ben presente nella mente di più di una generazione di italiani.

 

I più anziani hanno visto i film (specialmente i primi due episodi) fino allo sfinimento. Tuttavia se lo riguarderebbero ancora, per quanto bene poteva descrivere alcuni cascami gerarchici, monarchici del lavoro del dopoguerra.

 

I meno anziani lo hanno visto in TV ripetute volte, e ammettono che è una visione che li ha segnati, il vero bildungsroman di una generazione, altro che Dostoevskij, altro che Stendahl, altro che I dolori del giovane Werther.

 

I giovani –perfino talmente giovani da non aver visto le repliche su Italia 1 e Retequattro o da non sapere nemmeno cosa sia un VHS – citano a memoria intere scene del film.

 

Più passano gli anni, più l’immortale capolavoro di Paolo Villaggio – la serie Fantozzi – acquisisce valore

Fantozzi ha fornito una serie infinita di battute, di gag, di topoi che spuntano nella vita quotidiana dell’italiano di ogni censo.

 

«Come è umano lei!» se si viene trattati male da qualche caporione del sistema.

 

«Pekkato tu non pole manciare!» se si prende in giro qualcuno a dieta.

 

«È un bel direttore, un santo, un apostolo!» se si vuole scherzare su qualcuno che ha il titolo, o sul servilismo di qualcuno nei suoi confronti.

 

Riguardo ai direttori, c’è la memorabile serqua di superiori subiti da Fantozzi.

 

C’è l’onorevole Cavaliere Conte Diego Catellani, quello che fa adorare ai sottoposti la statua di sua madre vivente, ed è patito del biliardo – quello che «sabato sera a casa mia. Tutti!».

 

C’è il Direttore Conte Corrado Maria Lobbiam, quello che presiede ai vari della navi, dove troviamo anche l’azionista della megaditta Contessa Pia Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, nobildonna incapace di rompere una bottiglia per inaugurare l’imbarcazione, ma in grado di tranciare di netto il mignolo di un cardinale.

 

C’è il Gr. Ladr. Farabut. di Gr. Croc. Mascalz. Assas. Figl. di Gr. Putt. Marchese Conte Piermatteo Barambani Megalom, vero farabutto appassionato di nautica, il quale è però una figura minore, che turlupina Fantozzi addossandogli le responsabilità di uno scandalo finanziario, avendo promosso il ragioniere a Dott. Ing. Lup. Man. Presidente Natural. Prestanom. Om. Di Pagl. Gran. Test. Di Caz. Rag. Fantozzi.

 

C’è il Megadirettore Clamoroso Duca Conte Pier Carlo ing. Semenzara, che è un assenteista puttaniere sopraffatto dalla superstizione in quanto posseduto dal demone del gioco d’azzardo.

 

C’è il  dottor Ing. Gran Mascalzon di Gran Croc. Visconte Cobram, che ha ruolo di «direttore totale», appassionato di ciclismo e fondatore della cosiddetta Coppa Cobram, che qualche genio ha davvero portato nella vita reale qualche anno fa.

 

E poi c’è lui, il potentissimo Megadirettore Professor Guidobaldo Maria Riccardelli, amante del cinema espressionista tedesco e soprattutto russo.

 

È con il Riccardelli che ne Il secondo tragico Fantozzi, scatta una delle scene più memorabili: la rivolta populista contro la cinefilia intellettualoide delle élite.

 

Conoscerete la storia: il Riccardelli obbliga gli impiegati a vedere pallosissimi film d’autore, che peraltro sono quelli che si studiano ad ogni corso di storia del cinema, e hanno durate non così tremende.

 

 

«In vent’anni Fantozzi ha veduto e riveduto: Dies irae di Carlo Teodoro Dreyer – sei ore –, L’uomo di Aran di Flaherty – nove tempi –, ma soprattutto il più classico dei classici, La corazzata Kotiomkin – diciotto bobine – di cui il professor Riccardelli possedeva una rarissima copia personale». (Non è mai stato chiarito il mispelling de La corazzata Potemkin del regista russo Ejezenstein, che qui è chiamato Einstein: forse questioni di diritti d’autore sovietici?)

 

Come noto, una sera il Riccardelli esagera: durante la partita Italia-Inghilterra, convoca la visione obbligata del film muto russo, e perquisisce i sottoposti che si erano pure ingegnati nel nascondere ovunque (in un gesso, in bocca) le radioline per ascoltare la partita. Parentesi: una cosa del genere è successa davvero (con probabilità senza che fosse un omaggio fantozziano) durante il Festival di Cannes 2021, quando all’anteprima dell’ultimo film del cinefilo Nanni Moretti ritirarono i telefonini a critici e giornalisti – l’ora proiezione coincideva con la finale degli Europei Italia-Inghilterra…

Vessati dall’élitismo intellettuale per l’ultima volta, gli impiegati della megaditta danno vita ad una rivolta sovranista, capitanata da Fantozzi. Il quale dichiara l’immortale formula: «la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!».

 

Vessati dall’élitismo intellettuale per l’ultima volta, gli impiegati della megaditta danno vita ad una rivolta sovranista, capitanata da Fantozzi. Il quale dichiara l’immortale formula:

 

«La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca!».

 

Seguono immagini di una standing ovation trionfale. La voce fuori campo aggiunge le storiche parole: «novantadue minuti di applausi».

 

 

Gli applausi dei colleghi di Fantozzi  per la cultura popolare hanno assunto un significato specifico: quando la collettività non tollera più una finzione, quando un’insofferenza taciuta trova sfogo per il coraggio di qualcuno, quando il bambino improvvisamente grida «il re è nudo» – ed è vero, il re è senza vestiti

Gli applausi dei colleghi di Fantozzi  per la cultura popolare hanno assunto un significato specifico: quando la collettività non tollera più una finzione, quando un’insofferenza taciuta trova sfogo per il coraggio di qualcuno, quando il bambino improvvisamente grida «il re è nudo» – ed è vero, il re è senza vestiti.

 

I 92 minuti di applausi sono l’espressione che, nei discorsi, preludono ad una rivoluzione, quantomeno delle percezioni: è quando un’imposizione illogica, inumana, accettata solo per sottomissione collettiva, d’un tratto crolla.

 

Quindi, non è possibile in alcun modo pensare alla rivolta di Fantozzi contro il potere del megadirettore Guidobaldo Maria Riccardelli, quando leggiamo oggi degli applausi scroscianti verso il discorso del neo-vetero-ex-ri-presidente della Repubblica appena reinsediatosi (dopo essersi deinsediato, con tanto di trasloco, vero o fittizio secondo alcuni, iniziato alla volta della Sicilia).

 

Apprendiamo che il discorso del nuovo già presidente è stato applaudito dai parlamentari 55 volte.

 

I giornali ci stanno facendo i titoli.

 

Il Corriere manda in stampa anche un inedito applausometro presidenziale, spalmato diacronicamente con infografica ricca di icone di manine.

 

Il lettore cerchi di leggere la seguente lista facendo andare nella testa l’enfatica voce del narratore di Fantozzi.

 

Presidente Alessandro Giuseppe Antonio Pertini detto Sandro, 6 applausi.

 

Presidente Francesco Maurizio Cossiga, 9 applausi.

 

Presidente Oscar Luigi Scalfaro, 14 applausi.

 

Presidente Carlo Azeglio Ciampi, 19 applausi.

 

Presidente Giorgio Napolitano primo giro, 29 applausi.

 

Presidente Giorgio Napolitano secondo giro, 32 applausi.

 

Presidente Sergio Mattarella prima elezione, 40 applausi.

 

Presidente Sergio Mattarella seconda elezioni, 40 applausi.

 

Il numero degli applausi cresce aritmeticamente ad ogni elezione, quasi a significare la rotta della Repubblica verso il presidenzialismo o, se volete pensarla male, l’indebolimento del Parlamento – della democrazia rappresentativa – e la conseguente ricerca di una figura forte

Il dato, di per sé, è già interessante: il numero degli applausi cresce aritmeticamente ad ogni elezione, quasi a significare la rotta della Repubblica verso il presidenzialismo o, se volete pensarla male, l’indebolimento del Parlamento – della democrazia rappresentativa – e la conseguente ricerca di una figura forte di riferimento (non vogliamo dire «uomo forte», no).

 

Quello che ci lascia basiti è che il record di applausi ad un presidente che proviene dalla Prima Repubblica (e da un partito perdente alle elezioni) è scattato in un Parlamento dove il primo partito era accusato di essere «populista», e ha preso i voti per dimostrata, sonante allergia a certe balle del potere.

 

Il secondo partito – il cui capo prima  nel 2015 disse che «Mattarella non è il mio presidente» – invece è definito, oltre che populista, sovranista. Ancora peggio. L’Economist poco dopo scrisse che il ragazzo lombardo era «l’uomo più pericoloso d’Europa».

 

Di fatto, Mattarella tentennò quando si trattò di permettere un governo, nel 2018, con questi soggetti.

 

Ricordate? Ad una certa, spuntarono gli incontri, con foto sorridenti, di Mattarella con Cottarelli.

 

La narrazione per cui La corazzata Kotiomkin è un capolavoro deve rimanere in piedi, nonostante gli abusi, le vessazioni, le contraddizioni le offese insopportabili

Ricordate? Il presidente, mentre Lega e 5 stelle scalpitavano, era arrivato a dire «fiducia a governo neutrale o voto entro autunno». Vi sembra un universo parallelo? Vi riportiamo la cronaca che ne fece La Repubblica.

 

«L’Italia ha bisogno di un governo, o appoggiate un esecutivo neutrale ma con pieni poteri pronto a sciogliersi appena nascerà in Parlamento una maggioranza, oppure riportate i cittadini alle urne, ma esponendo a gravi rischi il Paese. Il presidente scioglierà la riserva sul premier incaricato della formazione del governo neutrale entro due giorni, poi si andrà a verificarne la fiducia in Parlamento». (Un qualcosa di simile ad un governo neutrale, con la pandemia, infine è arrivato…)

 

Ricordate? Di Maio parlava di impeachment. In una telefonata TV a Fabio Fazio, il napoletano grillino, riporta ancora sul suo sito Il Fatto Quotidiano, confermava «che i vertici del M5s stavano ragionando della messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica: “Prima attiviamo l’articolo 90 e poi si va alle urne, perché bisogna parlamentarizzare questa crisi”».

Tutto è stato ribaltato, rovesciato, invertito. I sani devono essere curati. I malati, invece, non si curano. Le forze dell’ordine si occupano dei cittadini invece che dei criminali. Il razzismo va combattuto con ogni mezzo, ma è lecito discriminare chi non si è vaccinato – a breve anche chi non si è vaccinato abbastanza

 

L’articolo 90 della Costituzione è qualcosa di pazzesco, di abissale, di completamente inedito per la storia della Repubblica: «il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune [cfr. art. 55 c.2], a maggioranza assoluta dei suoi membri».

 

In pratica, discutevano davvero di impeachment. Non sappiamo dire se poi avrebbero avuto i numeri per farlo. Ma quello era, nella bolgia degli elettori pentastellati aizzati a dovere che su internet si lasciavano andare ad improperi illegali.

 

I rappresentati che facevano questi discorsi ora si spella le mani in Parlamento, davanti alla stessa figura per cui invocavano l’articolo 90.

 

Cosa è successo?

 

Beh, lo sappiamo tutti. Il mondo è cambiato. L’esistenza di tanti eletti grillini pure.

 

È cambiato tutto anche per noi. Tutto è stato ribaltato, rovesciato, invertito.

Solo una cosa: credono che, quando si volgeranno agli elettori, prenderanno gli stessi applausi?

 

I sani devono essere curati. I malati, invece, non si curano.

 

Le forze dell’ordine si occupano dei cittadini invece che dei criminali.

 

Il razzismo va combattuto con ogni mezzo, ma è lecito discriminare chi non si è vaccinato – a breve anche chi non si è vaccinato abbastanza.

 

Credono che faranno loro una Ola quei (tanti, tantissimi) cittadini che a causa della Corazzata Kotiomkin hanno perso diritti costituzionali, i diritti umani, e giù giù fino alla perdita del tetto e del cibo, il primo povero gradino fisiologico della piramide di Maslow…

Ieri ci hanno detto che siamo liberi, hanno riaperto tutto: per comprare i giornali che lo dicono dobbiamo esibire il green pass in edicola, al supermercato non è detto che possiamo comprare il giornale, perché è un «bene non essenziale».

 

Tutto è sottosopra. La democrazia, è sottosopra. In senso letterale: il sotto è completamente soggiogato dal sopra, e in teoria dovrebbe essere il contrario. Anche perché, se invertiamo lo schema della democrazia, sappiamo cosa dobbiamo aspettarci: il totalitarismo, la schiavitù. Malattie metastoriche verso le quali, per decenni, siamo stati vaccinati con dosi multiple, continue. E invece…

 

Così, anche gli applausi rivoluzionari di Fantozzi sono perduti. La carica politica del ragioniere è stata invertita.

 

La narrazione per cui La corazzata Kotiomkin è un capolavoro deve rimanere in piedi, nonostante gli abusi, le vessazioni, le contraddizioni le offese insopportabili.

 

La corazzata Kotiomkin va applaudita: è ad essa, non alla verità, che devono andare i 92 minuti di battimani.

Credono davvero che il popolo si guarderà un’altra volta la Kotiomkin?

 

Solo una cosa: credono che, quando si volgeranno agli elettori, prenderanno gli stessi applausi?

 

Credono che quella parte della popolazione, che ha rigettato La corazzata Kotiomkin sin dai primi mesi del biennio pandemico, riserverà loro cori di approvazione?

 

Credono che faranno loro una ola quei (tanti, tantissimi) cittadini che a causa della Corazzata Kotiomkin hanno perso diritti costituzionali, i diritti umani, e giù giù fino alla perdita del tetto e del cibo, il primo povero gradino fisiologico della piramide di Maslow…

 

Credono davvero che il popolo si guarderà un’altra volta la Kotiomkin?

 

Credono davvero che resteremo schiavi delle loro cagate?

 

 

Roberto Dal Bosco

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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