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Pensiero

Gli ucraini non pagano il pedaggio in autostrada. E ci comandano

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Gli ucraini non pagano il pedaggio in autostrada. Quando ho letto la notizia ho subito pensato ad una battuta, una cosa tipo Lercio, una barzelletta che finalmente sfotte la situazione di sottanza morale degli italiani verso il popolo di Zelens’kyj.

 

Poi ho controllato il messaggio: la cosa sembrava più seria, non c’era traccia di umorismo. Forse era una nuova trovata, finalmente originale, di micropropaganda Azov, tipo «casellante autostradale italiano lascia passare pullmino di profughi di Leopoli». Ci sta. Anni fa passai per l’Iran in macchina: quando il casellante seppe che eravamo italiani, ci fece passare senza pagare nulla. Fu un momento magico di amicizia fra i popoli.

 

No, non è nemmeno una notizia di colore. Il messaggio su Telegram ha un link. Non è il sito di un giornale, è, per direttissima, un link al sito della Società Autostrade.

 

«Ai sensi e per gli effetti dell’Ordinanza n. 876 del 13 marzo 2022 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile, si comunica l’esenzione dal pagamento del pedaggio autostradale per i transiti effettuati da cittadini ucraini, e/o soggetti comunque provenienti dall’Ucraina, che entrano nel territorio italiano per raggiungere il primo luogo di destinazione o di accoglienza».

 

Proprio così.

 

Gli ucraini non pagano l’autostrada. Tutto vero.

 

Pensavate di aver visto tutto, con la storia degli ucraini – vaccinati neanche al 30%, e chissà con cosa – e l’esenzione dal super green pass?

 

Credevate che con la sostituzione dei sanitari no-vax con lavoratori ucraini si fosse raggiunto il fondo?

 

Maddeché. Hanno appena cominciato.

 

Dovete prepararvi a titoli a decreti pro-Kiev eccezionali: «gli ucraini esentati dalla fila al supermercato», «i rifugiati ucraini possono passare con il rosso», «soffiarsi il naso senza fazzoletto: gli ucraini possono», «gli ucraini possono detenere armi da guerra» – pardon, questa ultima è vera, anche se al momento solo nel loro Paese, e sono armi da guerra che sta regalando il contribuente italiano.

 

Di fatto non c’è nulla di che scherzare.

 

Avevamo già visto, in passato, questo senso di sudditanza psicologica nei confronti di popoli ritenuti «martiri». Come non ricordare il terzomondismo – cioè l’idea che siccome vieni da un Paese povero e corrotto (anche a decenni dalla decolonizzazione) allora ci hai ragione – dei centri sociali, magari con accenti nordafricano-arabeggianti negli anni Novanta e primi Duemila (cioè, prima di capire che ai maghrebini non interessava esattamente il movimentismo comunista). Come dimenticare gli Inti-Illimani, 50 anni di carriera come portatori della sofferenza inflitta al popolo cinese dal golpe di Pinochet. El pueblo unido jamás será vencido. Oriana Fallaci, nella sua fase anti-islamica e filo-israeliana lamentò lo strapotere degli studenti palestinesi nelle università europee: chissà se aveva ragione, però la carta del popolo-martire, ai tempi di Arafatto, funcicava alla grandissima.

 

Possiamo capirlo, è un fenomeno umano. Incontrare nel 1993 una signora che ti dice che viene da Vukovar non poteva non sortire effetto – anche se, di fatto, chi scappava dai Balcani in Italia o in Germania non si comportava esattamente da vittima.

 

Il problema è che l’Ucraina – Paese che qualora entrasse in Europa sarebbe paradossalmente il più grande e di gran il più povero, nonostante la ricchezza di risorse – non si ferma alle autostrade aggratis.

 

Lo vediamo sempre più spesso: l’Ucraina comanda.

 

Lo si vede molto bene in televisione. Un programma di La7 invita con costanza imbarazzante un ragazzo italofono, che crediamo si colleghi dal suo Paese. Definito giornalisti, il giovane per qualche motivo non pare essere al fronte, a meno che non spari con qualche battaglione runico negli orari in cui non è ospite di Giletti.

 

Il ragazzo è partito indossando gli occhiali e cercando di offrire la sua opinione. Ora, senza lenti, si autoinquadra nella telecamerina del PC collegato con la nostra TV nazionale in modo irruento, il volto ossuto e stempiato, le urla a interrompere chiunque, da Franco Cardini (chi ci tocca di difendere!) a Luca Telese.

 

Proprio con il genero di Enrico Berlinguer va in onda una prima prepotenza interessante. Il Telese ogni tanto ha avuto dei momenti di lucidità, come quando di recente si è domandato se dopo la balla della strage al teatro di Mariupol’ – quella che, in assenza di corpi da esibire, le stesse  autorità ucraine dovettero smentire – se dobbiamo credere a quel che vediamo (poco dopo gli hanno dato la strage di Bucha, forse avrà cambiato idea, non sappiamo).

 

Ecco quindi che nello spezzone di YouTube, Telese accenna alle svastiche del Battaglione Azov, al quale, si rende incredibilmente conto, «non possiamo dare armi», in quanto sono «milizie nazifasciste… che c’ha le rune della Seconda Guerra Mondiale sulla spallina». La preoccupazione, dice, gli arriva dal «New York Times, non dal Manifesto».

 

 

 

La risposta, sempre gridata: «il New York Times ha scritto tante boiate». Il Battaglione Azov, spiega, in realtà «è un reggimento». Quindi, «come si può dare ad un reggimento della Guardia Nazionale… finanziato dallo Stato… che porta la bandiera Ucraina… dire che sono neonazisti? Ma stiamo scherzando?»

 

Minga è finita. Dulcis in fundo: «non è una svastica! Si informi! È una runa… la smetta con queste SS! Guardi che le rune sono esistite prima delle SS… e la svastica si trova anche per esempio nei templi in India, onnò? Si trovano onnò le svastiche nei templi in India? Si trovano… Voi dite che sono neonazisti… non è vero!»

 

E niente. Glielo lasciano dire, così, tranquilli. Nessuno si dissocia, nessuno si imbarazza. È bellissimo.

 

Pensiamo all’occasione persa per tanti poveri ultras di tutta Europa – potevano andare in curva con le croci uncinate su striscioni, e in caso dire alle forze dell’ordine, ai giudici, ai giornalisti: «embè, la svastica ci stava da prima di Hitler. Non ce l’abbiamo perché abbiamo appena fatto un viaggio in Tamil Nadu, alla ricerca della spiritualità indiana, nei templi induisti tra lingam e scimmiette. ‘Ste rune non c’entrano col Terzo Reich: sono celtiche, anzi etrusche, anzi, guardi che anche il venetico usava una scrittura simile, stiamo per dare in massa l’esame di epigrafia preromana».

 

La voglia di ridere ci passa quando lo Youtubo ci offre un altro video simile. Il solito personaggio ucraino – dicono giornalista – è alle prese con un altro ospite in collegamento, un giornalista russo.

 

L’ucraino gli urla ripetutamente nella lingua di Leone Tolstoj. «Complimenti, mi sta offendendo in russo sulla TV italiana» tenta di abbozzare il moscovita.

 

Ma questo non è nulla: con fare ieratico, l’ucraino riprende la parola, in italiano.

 

«Per tutti coloro, che sono i mandanti, per tutti i propagandisti, e gli esecutori dei crimini contro i civili ucraini, dovete avere paura fino all’ultimo giorno della vostra misera esistenza. Ridi finché puoi, ridi. Poi non riderai più. Abbi paura, fino alla fine dei tuoi giorni. Perché noi vi troveremo tutti. Come ha fatto Israele dopo il ’72, dopo l’attentato, troveremo tutti e li puniremo. E capirete, finalmente la lezione di Dostojevskij, del Delitto e del Castigo»

 

Segue altra espressione in lingua slava.

 

 

Potete guardare il video qui sopra è controllare. Sì, è successa una cosa del genere, sulla TV italiana.

 

Un cittadino ucraino ha lanciato una minaccia – fantastorica, ma dettagliatissima – contro un cittadino italiano. Forse è legale, non sappiamo. Di certo nessuno l’ha interrotto, anche quando chiaramente stava raschiando il fondo della sua fantasia.

 

Fantasia che tuttavia per lo spettatore italiano –quello per il quale Putin sta perdendo la guerra, e le sanzioni sono una idea geniale – può essere scambiata per realtà. In questo universo parallelo, dove si compirà la tremenda vendetta dell’ospite di Gilletti, l’Ucraina vincerà la guerra e manderà dei kidon (le squadre di assassini del Mossad) ad ammazzare maree di russi.

 

Il rimando diretto è alla vendetta contro i palestinesi ritenuti responsabili della strage delle Olimpiadi di Monaco, la storia, negata da Israele per le patenti violazioni del diritto internazionale – uno, ricorderete, fu ucciso a Roma – divenuta il film di Steven Spielberg Munich. Perfino Spielberg e il suo sceneggiatore, ambedue ebrei, nel film lasciano trapelare qualche dubbio: giusto vendicarsi in giro per il mondo, facendo sparatorie e piazzando bombe in casa d’altri?

 

Per l’ucraino la prospettiva è accettabile. Così come potrebbe esserlo quella del caso del rapimento da parte dei servizi dello Stato Ebraico del nazista Adolf Eichmann per portarlo a processo, e condannarlo a morte,  in Israele. Anche quello un po’ spinosetto, e non esattamente digerito dal diritto internazionale: Ian Shapiro, grande politologo di Yale, apre il suo corso di Filosofia Morale dello Stato indicandone le non piccole contraddizioni.

 

Non importa: ci viene detto che gli ucraini, in termini della futura vendetta, la pensano già come gli israeliani. La qualcosa è una paradossale conferma dell’influenza dell’ideologia Azov sul mainstream ucraino: in un’intervista del 2018, il fondatore del Battaglione Azov Andriy Biletsky ha spiegato di considerare Israele e il Giappone come modelli per lo sviluppo dell’Ucraina. Stati mono-etnici, dove ottenere la cittadinanza, al di fuori di precisi requisiti di razza, è pressoché impossibile. Stati che sono, con il neanche tanto segreto placet americano, armati fino a denti in modo illegale: Israele ci ha 200 e passa testate atomiche non dichiarate, il Giappone è pacifista per Costituzione ma nelle sue «forze di autodifesa» (basta non dire «esercito», una parola anticostituzionale) ha più caccia della Gran Bretagna.

 

Insomma, gli ucraini, sulla TV italiana, comandano. Possono dire qualsiasi cosa. Possono insultare, mentire in modo ridicolo, ingenerare fantasie minacciose.

 

Nessuno li ferma. Sbarra alzata. Casellante arreso. Nessun pedaggio.

 

La cosa non si limita, tuttavia, alla grottesca televisione nazionale dello Stivale.

 

Se ci pensate, la prepotenza è uno dei tratti precipui dell’opera mediatica di Zelens’kyj e dei suoi ministri.

 

In collegamento da un bunker dello Stato più povero e corrotto di Europa, un Paese che ha portato alla distruzione, Zelens’kyj chiede più armi. Costantemente.

 

Zelens’kyj chiede la no-fly zone, perfettamente conscio del fatto che Putin ha detto che a chiunque tenti di istituirla la Russia dichiarerà guerra seduta stante.

 

Zelens’kyj chiede i MiG polacchi.

 

Zelenskyj chiede missili antiaerei S-300 (di fabbricazione russa…)

 

Zelens’kyj chiede più sanzioni.

 

Zelens’kyj chiede che la Russia sia espulsa dal Consiglio di Sicurezza ONU.

 

Zelens’kyj chiede ancora armi.. Anzi, chiede «l’1% dei caccia e dei carrarmati NATO»

 

Ambasciatori e ministri ucraini dicono ai Paesi che usano il gas russo che devono farne a meno, subito. Lo pretendono, lo ordinano. Anzi, non basta solo il gas: gli altri Paesi devono rinunciare a qualsiasi cosa.

 

«Non è solo il gas russo, è petrolio, carbone, metalli, diamanti e altre materie prime. Noi (Ucraina) siamo diventati la più grande vittima di questa relazione perversa. Gli ucraini stanno pagando con la vita questa politica tedesca fallita», ha detto l’ambasciatore ucraino in Germania Andrij Melnyk all’agenzia Reuters poche ore fa.

 

«Questo tipo di ipocrisia con la Russia risale al Nord Stream 1 (gasdotto)», ha affermato Melnyk. «L’enorme dipendenza della Germania dalla Russia, in un momento della peggiore aggressione dalla seconda guerra mondiale, è vergognosa».

 

Notate anche qui, come nel caso del tizio della TV italiana: l’ucraino comanda, e insulta.

 

La cosa bella è che i tedeschi, per motivi psicanalitici che ora non vogliamo nemmeno affrontare, tacciono. Si fanno comandare, e insultare, dall’ucraino. Un po’ come i sanitari italiani, che pagano l’autostrada mentre i profughi ucraini prendono il loro posto di lavoro in ospedale.

 

Va tutto bene: noi intanto continuiamo a trasmettere. Zelens’kyj parla al Parlamento italiano. Zelens’kyj parla al Congresso USA. Zelens’kyj parla ai deputati inglesi. Zelens’kyj parla alla Knesset, il Parlamento israeliano, e paragona la situazione ucraina all’Olocausto: glielo lasciano fare, anche se qualcuno, che magari ha avuto i nonni deportati nei campi dalle truppe ucraine di Stepan Bandera, si è inalberato.

 

Zelens’kyj parla al premio Grammy, anche se agli Oscar, con grande scorno dello Sean Penn, invece non ce lo hanno voluto.

 

Zelens’kyj chiede che la Russia sia «portata alla giustizia».

 

Zelens’ky chiede se l’Occidente non abbia per caso paura della Russia, visto che non gli arriva la quantità di armi necessaria. (Mentre, come riportato da Renovatio 21, alcuni foreign fighter sono scappati perché mandati al fronte senza armi e senza munizioni).

 

È pazzesco. Richieste continue, isteriche, ondivaghe, di un egotismo totale: si rende conto il presidente ucraino che armare l’Ucraina significa portare il mondo a pochi metri dall’abisso termonucleare della Terza Guerra Mondiale?

 

La risposta è: sì. È l’unico modo che ha per sopravvivere, lui e i nazisti che lo circondano. Senza Terza Guerra Mondiale, l’Ucraina – nonostante la propaganda allucinatoria occidentale – verrà spazzata via con tutta la sua élite, e quindi «denazificata». Immaginiamo che succederà quello che successe a Norimberga. Forse no, forse i processi saranno diversi, o non ci saranno.

 

Ad ogni modo, voi capite il perché di questa tracotanza, di questa chuzpah, del mendicante che pretende di scegliere, del poveraccio che strepita e comanda. Alternative non ce ne sono. Urlando imperiosamente, fanno dimenticare al mondo, e forsanche a loro stessi, la loro situazione: un Paese bello e ricco distrutto da decadi di cleptocrazia oligarchica (miliardi di debito internazionale pur partendo con zero debito nel 1992, poche o nessuna infrastruttura creata), con una politica talmente corrotta e idiota da aver portato la guerra per sfinimento della pazienza del Cremlino – il quale ha dimostrato di averne riserve che possono durare anche anni, ma ad una certa, bum. Tutto debitamente annunciato per tempo, peraltro.

 

Ma non disperate: la vittoria finale della bandiera gialloblù e vicina, e quindi lo sarà anche la resa dei conti, su modello «israeliano» o meno che sarà.

 

Tuttavia la a situazione, quando il comico che suona il piano con il pene avrà vinto eroicamente la sua guerra contro Putin, diverrà brutta non solo per i filorussi. Lo sarà anche per certi ucraini, soprattutto quei pochi maschi che – segreto che i giornali non vi dicono – sono riusciti a passare il confine, dove i doganieri di Kiev trattengono gli uomini 18-60 anni per farne carne da cannone.

 

Leggiamo su un canale Telegram che il capo del Consiglio di sicurezza e difesa e nazionale di Kiev avrebbe appena affermato che «Tutti gli uomini che hanno lasciato l’Ucraina dopo l’inizio delle ostilità saranno fermati al ritorno. “Dovranno spiegare dove e come sono riusciti ad attraversare il confine”». Danilov ha sottolineato che tutti gli uomini che hanno lasciato l’Ucraina sono stati registrati.

 

Riuscite a capire con chi abbiamo a che fare? Ricordate cosa è successo al negoziatore?

 

Volete credere alle cose che vi urlano, alle immagini che vi mostrano?

 

Volete ascoltare le storie che vogliono obbligarvi a credere?

 

Davvero: volete prendere ordini da questi?

 

Volete farvi insultare, e nel frattempo distruggere i vostri interessi, perdere il lavoro, passare l’inverno al freddo, esperire per la prima volta in generazioni la fame?

 

Se la risposta è sì abbiamo per voi una buona notizia: abbiamo il governo giusto per procedere in questa generazione direzione.

 

Se la risposta è no, è il caso di dire: diamoci una svegliata.

 

Perché, dopo il COVID, stiamo avendo, a bruciapelo, un altro caso conclamato di «psicosi di formazione di massa».

 

Con la differenza che dall’amore per le molecole di mRNA stiamo passando per ipnosi massiva a quello degli atomi di uranio delle bombe che possono mettere fine alla Civiltà umana.

 

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine di Treleau via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 3.0 Unported (CC BY-NC 3.0)

 

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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