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Stato

Garlasco e lo Stato etico

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Il lettore saprà già cosa sta accadendo, quindi non ci soffermiamo, anche perché siamo sbalorditi anche noi: il caso dell’omicidio di Garlasco pare – a quasi due decenni dal fatto! – essersi drammaticamente riaperto.

 

Particolari scioccanti ora sono diramati dai grandi media, gli stessi che – a forze di biciclette e macchie di sangue – ci avevano convinto che Alberto Stasi aveva ucciso la sua fidanzata Chiara Poggi. La situazione è talmente tesa che gli avvocati stanno continuando a querelarsi fra loro.

 

Ma come: c’era il DNA di altri sotto le unghie di Chiara? E i giudici lo sapevano, ma avevano archiviato? Voi lo sapevate?

 

Quindi, state dicendo che Alberto Stasi potrebbe essere innocente, così come a moltissimi era parso da subito, anche solo a guardarlo?

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Di più: ci state dicendo che avrebbe avuto la vita rovinata – con il padre morto durante i processi… e la fidanzata assassinata! – dalla grande macchina congiunta della Giustizia e della Stampa della Repubblica Italiana?

 

La domanda apre abissi paurosi. Perché se la società tutta guardasse dentro quell’abisso non potrebbe non uscirne destabilizzata.

 

In un articolo passato avevamo teorizzato l’idea della «figura incongrua». «Scrivete pure “mona“» ci corresse un lettore sboccato: l’idea è quella che per gli omicidi più ferali, spesse volte, viene preso e condannato (ma la sentenza finale ad un certo punto nemmeno conta più) la persona più improbabile, dall’apparenza perfino ingenua. Pensiamo alla storia, già belluina di suo, del Mostro di Firenze e dei «Compagni di Merende», che fanno ancora il pieno di visualizzazioni per gli «sketch» del processo finiti su YouTube (Vanni: «posso dì ‘na cosa?… Viva i’dduce, il lavoro e la libertà… ritorneremo!»).

 

Hanno mostrificato tante persone che proprio mostri non sembravano. Abbiamo imparato ad accettare ad andare contro le nostre sensazioni: le autorità sembrano aver voluto spiegarci che proprio quelli che sembrano più calmini in verità sono belve – perché lo dice l’autorità statale stessa. Si tratta, a modo suo, di un ulteriore effetto del trionfo del diritto positivo: chi è mostro lo decide la legge, e non badate alle vostre percezioni, alle vostre opinioni. Non badate nemmeno alla realtà che sta sotto i vostri occhi mentitori.

 

Non c’è solo Garlasco. È difficile guardare la recente serie in streaming sul caso di Yara senza rimanere agghiacciati dalla caterva di menzogne (congetture provate false, filmati tarocchi, particolari dimenticati, come la morte non dissimile di un’altra giovane nella zona poco prima) viste in questo caso. Così come è arduo tornare al caso di Erba – quando anche chi ha avuto la famiglia massacrata pare dire che Rosa e Olindo non c’entrano – senza avere la sensazione che i due condannati come assassini stragisti forse potrebbero essere solo quella coppia riservata e non intelligentissima che ci era sembrata al principio.

 

Capite la vertigine: in carcere da venti anni ci sono degli innocenti. Cosa che significa, soprattutto, che fuori invece sono ancora liberi gli assassini

 

All’epoca avevamo parlato con alcune persone della zona, nel pavese, che ci dissero di essere sconvolti dell’arresto di Stasi, e avevano teorie completamente opposte su chi potesse essere stato. Così come ricordiamo alcuni video artigianali, che ora sembrano spariti dalla rete, dove con accento ultra-bergamasco si davano della morte di Yara ricostruzioni che non combaciavano in alcun modo con quella vista poi nella sentenza contro Bossetti.

 

I tribunali sono più forti delle convinzioni del popolo, anzi possiamo dire che ne sono immuni: giustamente, dite voi, ma è difficile anche non vedere la sinergia con la grande stampa, a cui qualcuno deve pur passare (legalmente?) i documenti – e i filmati, e i dettagli – per lo scoop, così che si forma un’opinione pubblica di un certo tipo…

 

Ricordiamo: fu un bel caos anche l’uccisione di Meredith Kercher, con un colpevole – nero come l’altro che ingiustamente Amanda Knox aveva accusato – saltato fuori dopo settimane mentre scappava in un altro Paese.

 

E quindi, avete anche voi intuito che forse le indagini siano fatte spesso male? Avete anche voi l’impressione che forse ci sia a tutti i costi la frenesia di trovare un colpevole a tutti i costi?

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Analizziamo: trovato un colpevole, la dissonanza cognitiva nella popolazione – il senso di paura e rabbia che sorge dal sapere che c’è un assassino in libertà – si placa, quindi la società torna docile e governabile. Perché se l’autorità non sa risolvere un problema, può arrivare qualcun altro e mettere le cose a posto, di fatto scalzando l’autorità stessa: alcuni raccontano che i talebani in Afghanistan inizialmente presero il potere così, semplicemente risolvendo, in modo forte, il caso di alcuni stupri rimasti impuniti. C’è quindi, senza che ce ne rendiamo bene conto, un fattore politico in tutti i casi di cronaca nera.

 

Secondo: più bassamente, trovato un colpevole lo stipendio è salvo, lo scatto di carriera pure. Non possiamo escludere che molti servitori dello Stato – non quelli che poi invece, a costo della propria carriera riaprono i casi, certo – ragionino così: meglio mettere in ghebba un innocente che perdere credibilità professionale.

 

Trovato un colpevole, anche quello più «incongruo», tutti sono più felici: il popolo respira (e può andare al bar dicendo tipo: «cosa gli farei io se ce lo avessi per le mani»), i guardiani dell’ordine mantengono il posto fisso (che poi: chi glielo tocca) e poi i giornali e le TV, ingranaggi non di poco conto in questa meccanica, continuano a gonfiare l’audience a suon di morbosità dopo morbosità.

 

Non c’è bisogno di ripassare la teoria filosofica sul capro espiatorio di Réné Girard – la violenza del sacrificio di un singolo esorcizza la violenza estesa nell’intera società – per capire come queste cose accadano, e quanto questo meccanismo sia delicato. Tuttavia, viviamo ancora, non sappiamo per quanto, in una società che ha ripulsa dell’innocente punito e della verità negata. Questo adesso per l’autorità può essere un problema enorme.

 

C’è da comprendere bene che sul banco degli imputati a questo punto non c’è Stasi, o Bossetti, o i vicini di Erba: c’è lo Stato stesso.

 

Perché se lo Stato invece che cercare la verità mette in galera l’innocente, difficilmente può continuare a godere di una legittimità da parte della popolazione, già schifata e vessata in tanti, tantissimi altri modi.

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C’è da capire anche, tuttavia, che ciò è nella dinamica naturale dello Stato moderno: ci hanno detto che esso deve operare lontano dallo «Stato etico», cioè un’istituzione statale che vuole il bene universale e quindi agisce secondo una morale. Concetti che non possono piacere alla modernità relativista, per la quale non è possibile dare alla cosa pubblica alcuna morale, perché i cittadini hanno religioni e credenze diverse, e poi la morale universale non può esistere, dicono, dopo quintali di pagine di Nietzsche inflitte su ogni fronte (anche e soprattutto subliminalmente). Ognuno, nel paradiso della modernità, può avere l’etica che vuole, o non averla proprio.

 

La morale non esiste, per cui figurarsi se lo Stato deve essere morale.

 

E quindi: uno Stato non-etico, uno Stato immorale, volete che si dedichi davvero alla ricerca della verità? Ha senso parlare di vero e falso, se non vi è differenza tra bene e male?

 

Volete che lo Stato non-etico si faccia problemi a dimenticarsi delle prove, a mentire, a lasciar marcire in galera un innocente?

 

La questione è più profonda di così, e non riguarda solo quello che leggete sui giornali. Riguarda la vostra stessa vita.

 

Credete che lo Stato non-morale davvero abbia a cuore della vostra sorte? Credete che un’istituzione che non si basa sul bene possa volere il bene vostro e dei vostri figli?

 

La faccenda, di fatto, è tutta qui. Mostri di provincia, guerre internazionali, stragi massive, catastrofi farmaceutiche, possibili massacri termonucleari, escono tutte da questo gigantesco errore di programmazione nel codice primario dello Stato – la mancanza della morale, e cioè della differenza tra il bene e il male, e quindi tra orrore e giustizia.

 

Lo sappiamo: laddove la linea di demarcazione non esiste, il Male può dilagare, ed avere il sopravvento. Dolore e aberrazione seguono. E poi instabilità, devastazione.

 

No, una società immorale non può sopravvivere a se stessa. Dobbiamo comprenderlo, e agire di conseguenza.

 

Roberto Dal Bosco

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Stato

Quasi la metà della popolazione occidentale pensa che la democrazia sia «rotta»

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Quasi il 45% dei cittadini dei Paesi occidentali considera la democrazia nelle proprie nazioni «rotta» secondo i risultati di un’indagine IPSOS. Lo riporta Politico.   La ricerca, diffusa alla testata giornalistica, è stata realizzata a settembre e ha interessato 9.800 votanti di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Italia, Svezia, Croazia, Paesi Bassi e Polonia.   Dallo studio emerge che la popolazione di sette delle nove nazioni analizzate esprime insoddisfazione sul funzionamento della democrazia; Svezia e Polonia sono le uniche due eccezioni in cui la maggioranza degli interpellati nutre fiducia nel proprio modello di autogoverno.   In base all’indagine, circa il 60% dei partecipanti in Francia ha manifestato delusione per lo stato attuale, seguito da Stati Uniti (53%), Regno Unito (51%) e Spagna (51%). Gli intervistati hanno indicato la disinformazione, la corruzione, l’assenza di accountability dei leader politici e l’ascesa dei partiti radicali come le principali insidie al cammino democratico.   Nel Regno Unito e in Croazia, appena il 23% dei sondati ha espresso la convinzione che i rispettivi esecutivi li rappresentino adeguatamente.

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Lo studio rileva inoltre che, salvo la Svezia, una schiacciante maggioranza nei contesti esaminati paventa un aggravamento delle minacce all’autogoverno entro i prossimi cinque anni.   Gideon Skinner, direttore senior per la politica britannica di IPSOS, ha confidato a Politico che «c’è un’ansia diffusa sul funzionamento della democrazia, con i cittadini che si sentono inascoltati, specie da parte dei governi centrali. Nella maggior parte delle nazioni, aleggia un forte anelito a trasformazioni profonde».   L’illusione democratica sta insomma venendo percepita dai cittadini occidentali come, appunto, un’illusione – una simulazione accettata per inerzia e benefizio di salario.   Difficile che non sia così, quando vediamo gli Stati democratici chiedere il bando dei partiti più votati (come AfD in Germania) o quando rammentiamo quanto successe nel biennio pandemico, con tutte le Costituzioni nazionali calpestate e le famose «libertà democratiche» (dal libero pensiero, alla libera circolazione, alla libera associazione, alla libera espressione, all’autonomia del corpo) ridotte a pura barzelletta sotto il tallone di un sistema che aveva installato persino un sistema di apartheid biotico, un razzismo subcellulare con discrimanazioni mai prima vedute.   La popolazione, anche se continua a votare e a non rivoltarsi, sa la verità ultima: non siamo in una democrazia, siamo al massimo in una oligarchia, una plutocrazia dove comandano grandi interessi se non volontà oscure e violente.   No, non viviamo in una democrazia – e tutti lo sanno, e lo hanno accettato. Tuttavia non moltissimi continuano il pensiero: non siamo in una democrazia, ma neppure dovremmo esserci, perché il sistema corrotto può essere risolto solo con una forma di potere monarchico autoritario basato su principi morali condivisi e indistruttibili, con pene tremende per chi, al potere, trasgredisce (Carl Schmitt: tyrannum licet adulari, tyrannum licet decipere, tyrannumm licet occidere)   La democrazia – in ultima analisi concetto angloide imposto al mondo dopo la Seconda Guerra – con la sua dispotica finzione transnazionale, arriverà al capolinea?    

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Economia

La situazione industriale in Italia. Intervista al prof. Pagliaro

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Ad agosto, l’Italia ha registrato l’ennesimo calo della produzione industriale, perdendo quasi il 3% sul corrispondente mese di agosto del 2024. I sindacati parlano apertamente di «più grande crisi produttiva dal dopoguerra». I dazi imposti dagli USA hanno fatto crollare l’export italiano di oltre il 21% solo ad agosto. E ancora peggio a settembre e ad ottobre, facendo crollare l’export, che era l’unica cosa che ancora reggeva dell’economia italiana a fronte di una domanda interna che ormai decresce persino per i consumi alimentari, i quali a settembre, pur aumentando in valore a causa dell’inflazione, si sono ridotti dell’1,8%: un valore enorme per il consumo più anelastico di tutti, quello alimentare.

 

Siamo quindi tornati a sentire il professor Mario Pagliaro per un aggiornamento sulla questione. Lo scienziato italiano da tempo sostiene come la rifondazione dell’IRI sia un’ineludibile necessità. «Il cambiamento è già iniziato», ci aveva detto a marzo.

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Dobbiamo ricordare ancora una vola che Lei è stato fra i primi a parlare del ritorno dello Stato dell’economia, e certamente il primo a darne conto pubblicamente mettendo in evidenza l’insieme dei nuovi investimenti industriali condotti dallo Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti e altri veicoli di investimento. Ce ne sono stati di ulteriori?

Certo. Nel settore energetico Italgas ha acquisito e incorporato 2i Rete Gas divenendo il primo operatore della distribuzione del gas in Europa. In quello commerciale, la società del Tesoro Invitalia ha investito 10 milioni per acquisire una quota significativa del capitale di Coin. Non molti sanno lo Stato nel 2020 ha costituito il Fondo Salvaguardia Imprese, affidandone la gestione ad Invitalia, con cui acquisisce partecipazioni di minoranza nel capitale di imprese in difficoltà per rilanciarle e salvaguardare l’occupazione.

 

Nel settore industriale, a fine 2022 Invitalia era già entrata nel capitale sociale del produttore di treni passeggeri Firema ampliando ulteriormente nel 2024 il suo investimento con altri 17 milioni, quando ha anche contribuito a rilanciare lo storico stabilimento ex Ferrosud di Matera. La dotazione iniziale del Fondo era di 300 milioni di euro, ma è stata ulteriormente incrementata. È sufficiente visitare la pagina web del Fondo per vedere come lo Stato sia persino entrato nel capitale delle Terme di Chianciano. 

 

E Lei pensa che questo schema, che di fatto è esattamente ciò che fece l’IRI quando nacque nel 1933, sia estendibile ad esempio al settore automobilistico? 

Occorre chiedersi, piuttosto, cosa accadrà se lo Stato non interverrà ricreando l’industria automobilistica di Stato. La produzione automobilistica ha costituito il cuore dell’industria manifatturiera italiana dalla metà degli anni Trenta alla fine degli anni Novanta. Oggi, è al suo minimo storico. Nel 2025 la produzione di autoveicoli nei primi 6 mesi, è stata di sole 136.500 unità, in calo del 31,7% rispetto al già anemico dato di quasi 200mila veicoli prodotti nel primo semestre del 2024.

 

Quanti posti di lavoro e quante aziende subfornitrici è possibile mantenere con una produzione annua di 370mila autoveicoli? Erano le stesse domande che si ponevano Beneduce e Menichella quando suggerirono al governo di creare l’IRI.

 

In un quadro evidentemente difficile per l’economia italiana, Lei vede anche fatti positivi?

Certo. L’Italia è tornata a proiettarsi economicamente sul Vicino Oriente e sul Nord Africa. L’industria delle costruzioni italiana, che non casualmente vede lo Stato azionista dell’impresa più grande tramite la Cassa depositi e prestiti, è tornata a lavorare in molti Paesi del Vicino Oriente dove è apprezzata per le sue formidabili capacità. Enormi commesse sono state acquisite in Arabia Saudita. A settembre è stata inaugurata in Etiopia la Grand Ethiopian Renaissance Dam, ovvero la più grande diga ad uso idroelettrico mai realizzata in Africa: un’opera monumentale, interamente progettata e realizzata dall’industria italiana, con una capacità installata di oltre 5.000 MW: pari a quasi 5 centrali nucleari.

 

Ancora, pochi giorni fa a Tripoli Libia e l’Italia hanno firmato oggi il contratto per la realizzazione di un importante lotto dell’autostrada costiera libica, per un valore di circa 700 milioni di euro. A realizzare i lavori del lotto sarà un’altra grande azienda delle costruzioni italiana. Inutile forse sottolineare come tali progetti abbiano grandi ricadute in termini di sviluppo dei Paesi africani o mediorientali in questione, eliminando attraverso lo sviluppo economico le condizioni di sottosviluppo economico che portano all’emigrazione di massa verso l’Europa.

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Ritiene che questo nuovo attivismo italiano nel Mediterraneo possa essere durevole?

Lo sarà certamente. Dai tempi di Roma, la ricchezza dell’Italia è dipesa dalla sua capacità di proiettarsi nel mare di cui è al centro proprio sull’Africa e sul Vicino Oriente.

 

Nel farlo, l’Italia portò in questi Paesi anche la sua civiltà, per la quale è amata ed apprezzata da quei popoli ancora oggi. Si tratta esattamente del progetto «Eurafrica» elaborato dai geniali geopolitici italiani della prima metà del Novecento, che poi sarà fatto proprio dai governi italiani succedutisi fino ai primi anni Novanta .

 

Nel farlo, l’Italia conoscerà una vera e propria rinascita economica e infrastrutturale. Infatti, sono finalmente in costruzione la nuova linea ferrata ad alta capacità fra Napoli e Bari, e quella fra Catania e Palermo, oltre a numerosi cantieri di strade e ferrovie già aperti in Calabria.

 

Ai giovani italiani che emigravano fino a pochi mesi fa oltre le Alpi, suggerisco di unirsi invece alle imprese italiane che si stanno proiettando verso il Vicino Oriente, il Nordafrica e il Corno d’Africa. Molte commesse sono già state acquisite, e molte altre lo saranno: non si tratta solo di grandi opportunità di lavoro e di crescita professionale. Ma di cooperazione per la pace e lo sviluppo comune con popolazioni giovani ed entusiaste: curandone la crescita con grandi lavori pubblici e un nuovo e molto più grande interscambio commerciale, l’Italia uscirà dalla depressione economica e dall’inverno demografico, e farà finalmente fiorire il proprio Mezzogiorno.

 

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Immagine di Axel Bührmann via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

 

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Pensiero

Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia

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In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.   Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.   Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.   Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.

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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.   Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.   Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.   Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.   Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.   Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.   Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.   Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.   E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.   Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.   Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.   Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.   Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».   Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».   Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.

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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.   Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.   E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.   Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.   Patrizia Fermani

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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano Immagine Fondazione Cariplo di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata
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