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Ex analista della CIA: l’Occidente si prepara al colpo di Stato militare contro Zelens’kyj

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Il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj sarebbe ormai in pericolo, mentre l’élite occidentale sembra cercare qualcun altro per prendere il suo posto, ha detto Larry Johnson, ufficiale in pensione della CIA e funzionario del Dipartimento di Stato durante il podcast New Rules della testata governativa russa Sputnik.

 

Johnson dice che segni di una lotta dietro le quinte in Ucraina si sarebbero recentemente manifestati nella reazione del comandante in capo generale Valery Zaluzhny ai piani di guerra senza sosta di Zelens’kyj, a cui si aggiunge la misteriosa morte di uno stretto collaboratore di Zaluzhny tramite granate in un regalo di compleanno, nonché l’aperto rifiuto del presidente ucraino di tenere le elezioni l’anno prossimo.

 

Il veterano della CIA Larry Johnson ritiene che la «mano invisibile» dell’Occidente stia orchestrando ciò che potrebbe portare a un cambio di regime in Ucraina.

 

Secondo lui, la lunga intervista di Zaluzhny all’Economist in cui si parlava della guerra in «stallo» – che ha suscitato l’ira della presidenza – non è stata affatto una coincidenza.

 

«È sempre importante prestare molta attenzione a ciò che accade nei media perché queste storie non appaiono dal nulla», ha detto l’ex spia statunitense a Sputnik.

 

«Non è come se qualche intrepido reporter dell’Economist dicesse: “Ehi, sai, penso che sarebbe una bella idea se potessi andare a intervistare il generale Zaluzhny”. Perché penso che l’intero accordo sia stato reso possibile grazie all’intervento dell’MI6 per far aumentare la visibilità di Zaluzhny in Occidente. E ricordate che in quella rivista Economist, è stato intervistato, poi ha scritto un editoriale e gli hanno dato un pezzo più lungo online» continua Johnson. «Così Zaluzhny (…) è visto come colui che mina il messaggio che viene dall’Ucraina».

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Allo stesso modo, la morte di Gennady Chastyakov, assistente del comandante in capo, secondo l’ex analista della CIA, puzza di un potenziale sabotaggio da parte dei servizi di sicurezza ucraini.

 

«Questa granata che è esplosa… ho visto in un paio di resoconti diversi che qualcuno gli ha dato una granata viva e poi suo figlio ci stava giocando e ha accidentalmente tirato la sicura ed è esplosa. Ma sicuramente sembra un sabotaggio. E Zelens’kyj ha ancora il sostegno all’interno del Servizio di sicurezza». Per Zelens’kyj, accusa Johnson, non è del tutto fuori dal mondo «pensare che sia una buona idea inviare un messaggio come questo per cercare di intimidire Zaluzhny».

 

L’ex ufficiale della CIA ha attirato l’attenzione sul fatto che, inoltre, NBC News ha diffuso il 4 novembre la notizia per cui funzionari statunitensi ed europei avrebbero iniziato a «parlare tranquillamente» con il regime di Kiev di possibili «negoziati di pace con la Russia» per porre fine allo stallo.

 

Sembra che i decisori occidentali non abbiano alcuna illusione su Zelens’kyj: sanno che non aveva alcuna qualifica per assumere la presidenza, ma era «un comico noto per la sua capacità di usare i suoi genitali per suonare il piano», ricorda l’ex uomo CIA.

 

Da parte sua, Zaluzhny sembra essere qualcuno «che potrebbe negoziare con la Russia, perché Zaluzhny all’epoca almeno aveva contatti e si era addestrato con membri dell’esercito russo prima della scissione, quando l’Ucraina andò nella sua direzione» ha sottolineato Johnson.

 

«Quindi chiaramente l’unica voce che diceva “L’Ucraina sta vincendo, la Russia sta perdendo, Putin sta morendo, Putin è morto, l’economia è nel caos e l’esercito russo è incompetente”, tutta quell’operazione informativa, ora è stata messa da parte» sostiene Johnson. «La nuova operazione d’informazione è “L’Ucraina non ha la manodopera per sopravvivere, l’Ucraina deve trovare una via d’uscita negoziata”. E penso che Zelens’kyj non sia un partecipante disponibile a tutto questo».

 

Secondo l’ex agente CIA, il presidente ucraino «sta lottando per resistere e cercare di sopravvivere. E questo potrebbe essere dovuto al fatto che teme che questo movimento ultra neonazista che ha contribuito a creare, lo ucciderebbero se lo vedessero fare qualsiasi tipo di gesto per cercare di essere conciliante con la Russia».

 

Come riportato da Renovatio 21, i nazionalisti integralisti ucraini, appena dopo le elezioni, dissero pubblicamente che, nel caso avesse retrocesso di un centimetro i confini ucraini, il presidente sarebbe stato impiccato ad un albero del Khreshatyk, il vialone di Kiev che porta a piazza Maidan. Secondo alcuni, la cintura di protezione personale dell’ex attore è ora composta di elementi neonazisti.

 

Questo potrebbe essere, in ultima analisi, uno dei motivi del fallimento degli accordi di Minsk: l’allora presidente Petro Poroshenko firmava, per poi tornare in patria e trovarsi sotto la minaccia dei neonazisti, oltre che delle forze occidentali che li comandano dopo averli nutriti e addestrati per anni.

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In un’intervista al Corriere della Sera, la scorsa primavera Poroshenko ha ammesso, pure vantandosi, che gli accordi di Minsk hanno permesso di guadagnare tempo per riarmare l’Ucraina.

 

Come riportato da Renovatio 21, la versione  di Poroshenko era già stata sostanzialmente confermata dagli ex presidenti tedesco e francese Angela Merkel e François Hollande, che avevano a poca distanza l’una dall’altro affermato pubblicamente che gli accordi avevano lo scopo di guadagnare tempo per Kiev.

 

L’inadempienza boriosa rispetto a trattati internazionali è probabilmente dietro alle parole del discorso che Putin fece la sera dell’inizio dell’Operazione Militare Speciale, quando parlò dell’Occidente come «Impero della menzogna».

 

«Possiamo affermare con sicurezza che l’intero cosiddetto blocco occidentale, formato dagli Stati Uniti a propria immagine e somiglianza, è tutto un vero “impero della menzogna”» disse il presidente russo. «In risposta alle nostre proposte, ci siamo trovati costantemente di fronte a cinici inganni e menzogne, o a tentativi di pressioni e ricatti».

 

Gli stessi leader del blocco avversario, di fatto, hanno mostrato se avesse ragione o meno.

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Il Congresso USA pubblica la prima serie di file su Epstein

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La Commissione per la vigilanza e la riforma del governo della Camera USA ha pubblicato più di 33.000 pagine di documenti relativi al finanziere caduto in disgrazia e condannato per reati sessuali Jeffrey Epstein.   Martedì sera la commissione del Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato sul suo sito web un link alle 33.295 pagine.   Il presidente James Comer ha citato in giudizio il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti il ​​mese scorso, dopo che un’indagine del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI aveva concluso che Epstein non aveva tenuto alcuna «lista dei clienti». La rivelazione ha spinto i Democratici e alcuni Repubblicani ad accusare il Presidente Donald Trump di insabbiamento.   Parlando ai giornalisti martedì, Comer ha promesso la massima trasparenza e si è impegnato a pubblicare il resto dei documenti il ​​prima possibile. «Continueremo a seguire i fatti e a chiedere giustizia per questi sopravvissuti», ha dichiarato il Comitato di Vigilanza.  

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Il giornalista Nick Sortor, tuttavia, ha sottolineato che ogni file è formattato come un’immagine individuale, il che rende «molto difficile la consultazione da parte del pubblico». La scelta potrebbe essere dettata o da incompetenza o dalla volontà di rendere difficile la ricerca.   Come riportato da Renovatio 21, l’amministrazione Trump sembra aver tentato di sviare l’attenzione dal caso, con il presidente a dire che «solo gli stupidi si interessano dei file di Epstein». Il presidente aveva pure detto che l’amministrazione mai pubblicherà i video. In seguito alla rivolta dei suoi sostenitori, Trump, che nega l’insabbiamento, aveva ordinato la pubblicazione delle trascrizioni riguardante Epstein.   Si tratta di una grande giravolta – un tradimento – rispetto a quanto promesso in campagna elettorale. Si ritiene che, nel frattempo, sia successo qualcosa: forse qualcuno ha disegnato un particolare al presidente.   Secondo Tucker Carlson l’Intelligence starebbe proteggendo, più che Trump, il network di potere attorno a Epstein. Alcuni speculano sul fatto che la verità sul caso del magnate pedofilo potrebbe in realtà compromettere per sempre i rapporti con lo Stato di Israele, di cui Epstein è accusato di essere una spia.

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Il presidente del Portogallo afferma che Trump è un «asset russo»

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Il presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa ha accusato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump di fingere di agire come mediatore imparziale nel conflitto ucraino, mentre in realtà serve gli interessi di Mosca e funge da «asset russo».

 

Nel gergo dei servizi segreti, un asset, o «risorsa», è una persona, un’organizzazione, una risorsa o un’informazione che viene utilizzata o reclutata da un’agenzia di intelligence per supportare le sue operazioni. In pratica il presidente americano viene accusato ancora una volta di essere un pupazzo di Mosca e delle sue agenzie di spionaggio. Le due presidenze Trump sarebbero quindi delle operazioni clandestine dei servizi russi.

 

La gravità delle parole del presidente lusitano è sconcertante, così come la sua poca originalità.

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Intervenendo mercoledì all’Università estiva del Partito Socialdemocratico a Castelo de Vide, Rebelo de Sousa ha criticato Trump per essersi allontanato dalla politica del suo predecessore di sostegno incondizionato a Kiev.

 

«Il leader della più grande superpotenza mondiale è, oggettivamente, una risorsa sovietica o russa. Funziona come una risorsa», ha affermato Rebelo de Sousa, citato dalla CNN Portogallo.

 

Il presidente portoghese ha inoltre affermato che Trump è più un «arbitro che negozia solo con una delle due squadre che un vero mediatore», sostenendo che Kiev e i suoi sostenitori dell’UE hanno dovuto «farsi strada» per prendere parte ai recenti colloqui a Washington.

 

Le dichiarazioni riecheggiavano la bufala del Russiagate lanciata per la prima volta contro Trump nel 2016, quando i suoi oppositori sostenevano che la sua campagna elettorale avesse colluso con il Cremlino. Questa narrazione ha dominato il suo primo mandato, nonostante l’inchiesta Mueller del 2019 non avesse trovato prove di collusione e il Rapporto Durham del 2023 avesse concluso che la vicenda era stata in gran parte orchestrata da operatori politici.

 

Trump ha definito il Russiagate «il più grande scandalo nella storia americana», sostenendo che fosse stato concepito per sabotare la sua presidenza e giustificare politiche ostili nei confronti di Mosca.

 

Da quando è tornato in carica a gennaio, Trump ha cercato di presentarsi come un mediatore neutrale nel conflitto ucraino, alternando accuse alla Russia e all’Ucraina per la mancanza di progressi, comunicando regolarmente sia con il presidente russo Vladimir Putin che con il leader ucraino Volodymyro Zelens’kyj. A volte ha minacciato Mosca di «sanzioni massicce», mentre in altre occasioni ha accusato Kiev di «mancanza di flessibilità» e di non essere «pronta» per la pace.

 

All’inizio di questo mese, Trump ha avvertito di essere «molto, molto insoddisfatto» di Putin e ha minacciato di imporre dazi secondari ai partner commerciali della Russia, minaccia che incombe ancora dopo lo storico vertice in Alaska. Il leader portoghese, tuttavia, ha affermato che, a differenza dell’UE, che ha proceduto con le sanzioni, «Washington ha solo lanciato minacce vuote, dando alla Russia il tempo di avanzare sul terreno».

 

Trump ha sostenuto che «tutti sono da biasimare» per il conflitto, che egli insiste non essere «la sua guerra», e ha promesso di prendere una «decisione molto importante» sul futuro della politica statunitense entro poche settimane, a seconda che Mosca e Kiev si impegnino o meno in colloqui di pace.

 

Come testimonia la foto a corredo di questo articolo, il De Sousa e Trump si erano incontrati nello Studio Ovale della Casa Bianca di Washington il 27 giugno 2018, durante la prima presidenza dell’attuale comandante in capo USA.

 

 

Ci chiediamo ora come saranno i prossimi incontri, che, da qui alla scadenza del secondo mandato del presidente portoghese (2026) potrebbero essere inevitabili.

 

Questo è lo stato in cui versano i vertici europei. Russofobia furiosa, forsennata al punto da compromettere i rapporti non solo con Mosca, ma con gli stessi USA.

 

Ciò risulta incredibile solo per chi non ha capito il disegno in atto, e la mediocrità assoluta, malvagia della classe politica continentale.

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L’FBI fa irruzione nella casa di Bolton. È iniziata la purga dello Stato profondo?

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La scorsa settimana l’FBI ha fatto irruzione nell’abitazione e nell’ufficio di John Bolton, ben noto falco della politica estera ed ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.   Il New York Post, che per primo ha diffuso la notizia, ha affermato che le perquisizioni fanno parte di un’indagine di alto profilo sulla gestione di documenti classificati. Il sospetto, o meglio, la speranza, che abbiamo, è che si tratti dell’inizio di una grande purga del sistema americano che colpisca lo Stato profondo di Washington.   Il Bolton è noto per aver sostenuto il cambio di regime come strumento di politica estera degli Stati Uniti, ammettendolo perfino pubblicamente: il golpe internazionale come vanto politico, una fase di sfrontatezza (hybris, per i greci; chuzpah, per gli ebrei) mai veduta prima negli apparati esteri statunitensi.

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L’uomo aveva servito Trump per 18 mesi durante il suo primo mandato, prima di essere licenziato nel settembre 2019. Trump in seguito lo ha definito un «pazzo», un «perdente» e una «persona molto stupida», e ha descritto la sua assunzione come uno dei suoi «più grandi errori», accusandolo di recente di voler sabotare i colloqui con Putin. In passato The Donald aveva pure rivelato di averlo dapprima voluto nella squadra come elemento negoziale: le controparti geopolitiche, dice, vedevano Bolton dietro al presidente e si impaurivano sapendo quanto fosse furiosamente incline alla guerra.   Due anni fa il Boltone aveva sostenuto, lanciando l’allarme, che Trump avrebbe lasciato la NATO qualora rieletto. Bolton negli annisi è spesso scontrato con Trump sulla politica estera. Nel suo primo giorno di ritorno in carica quest’anno, Trump ha revocato le autorizzazioni di sicurezza a oltre 40 ex funzionari dell’Intelligence, tra cui Bolton, e gli ha tolto la scorta.   Il baffuto neocon lasciò l’amministrazione Trump dopo che il presidente richiamò un attacco aereo praticamente già in corso contro l’Iran, come ritorsione per aver colpito un drone americano. È stato riportato che i bombardieri erano a dieci minuti dall’obiettivo furono cancellati da un ordine perentorio di Trump, che si era convinto a fermare l’attacco – che sarebbe costato alcune morti – dopo una telefonata con Tucker Carlson.   Ora Trump – che ricordiamo, subì un raid dell’FBI nella sua magione di expresidente a Mar-a-Lago, anche questa cosa inedita nella storia americana, a cui seguirono incursioni domestiche del Bureau per almeno 35 suoi collaboratori – afferma di non sapere nulla dei raid e di averne appreso la notizia solo dai notiziari televisivi.   Secondo quanto riportato, gli agenti dell’FBI hanno perquisito la casa di Bolton a Bethesda, nel Maryland, e il suo ufficio a Washington, DC, venerdì mattina presto. I filmati circolati online mostrano gli agenti in quello che sembra essere il suo giardino e fuori dal suo ufficio, mentre caricavano oggetti sui veicoli. Bolton sarebbe stato visto nell’atrio del suo ufficio mentre parlava con due individui che indossavano giubbotti antiproiettile dell’FBI.   L’indagine si concentrerebbe sulla possibilità che Bolton possieda ancora documenti classificati risalenti al suo mandato, in particolare quelli legati alle sue memorie del 2020, The Room Where It Happened. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) sotto Trump ha cercato di bloccare la pubblicazione del libro, sostenendo che contenesse materiale secretato. Un giudice federale alla fine ne ha autorizzato la pubblicazione e il dipartimento di Giustizia di Biden ha archiviato sia il caso penale che quello civile nel giugno 2021.   Secondo quanto riportato, Bolton non è stato arrestato né è stato ancora incriminato; né il suo portavoce né la Casa Bianca avrebbero rilasciato dichiarazioni in merito.   Sebbene il Dipartimento di Giustizia non abbia rilasciato una dichiarazione ufficiale, il Procuratore Generale Pam Bondi ha pubblicato su X venerdì mattina: «La sicurezza dell’America non è negoziabile. La giustizia sarà perseguita. Sempre». La Bondi stava rispondendo al messaggio criptico del Direttore dell’FBI Kash Patel: «NESSUNO è al di sopra della legge… @agenti dell’FBI in missione». Anche il Vicedirettore dell’FBI Dan Bongino ha ripubblicato il commento di Patel, aggiungendo: «La corruzione pubblica non sarà tollerata». Patel aveva precedentemente elencato Bolton come parte del «Deep State» statunitense nel suo libro del 2023.   Non è chiaro cosa possa succedere: magari si tratta di una bolla di sapone, una miccetta fatta esplodere a caso – dai Bondi, Patel e Bongino, dopo il fiasco delle mancate rivelazioni di Epstein, è lecito a questo punto aspettarselo.   Tuttavia non è nemmeno sbagliato pensare al fatto che sia in arrivo una grande purga contro i neocon e il Deep State. Azzardiamo: non è escluso che si tratti di una condizione, o di un’offerta, trattata a porte chiuse nell’incontro tra Trump e Putin in Alaska.   Chi segue Putin sa quanto il presidente russo tema quella che, con gentilezza, chiama la «burocrazia» americana. Nella densa intervista a Oliver Stone di anni fa ne aveva parlato quando, sorpreso per la vittoria di Trump nel 2016, sembrò dire che i presidenti cambiano (di fatto, lui ne ha visti già cinque) ma la «burocrazia» (termine che crediamo implicasse non la coda all’ufficio postale, ma le trame del Deep State) rimangono.   Sempre a Stone Putin confidò che la sua opposizione all’Ucraina nella NATO era dovuta proprio al fatto che conosceva le dinamiche di questa «burocrazia», che piano piano avrebbe spinto per l’installazione di missili ad un tiro di schioppo da Mosca.  

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Di più: nella storica intervista a Tucker Carlson l’anno passato, emerse con forza la sua animosità contro la CIA, definita, non si sa con quale grado di amara ironia, «seriosnaja organizatsija», ossia «organizzazione seria». L’uomo che viene dal KGB è abituato, a quanto sembra, a guardare negli occhi la controparte, sapendo benissimo cosa vi è dietro le spalle. Il sentimento di Putin per la CIA potrebbe spiegare anche la non eccessiva simpatia espressa verso Carlson, canzonato dal presidente russo per non essere entrato nei servizi americani, dove probabilmente – questo non è detto, ma potrebbe essere suggerito da dossier del vecchio KGB – aveva trafficato il padre di Tucker, Dick Carlson, che aveva gestito gli apparati di propaganda USA di Voice of America anche da Mosca.   I neocon – che sono per lo più provenienti da famiglie ebree fuggite dallo Zar e per questo riempite di russofobia rabbiosa incurabile – purgati su richiesta di Putin per avere, finalmente, la pace tra Mosca e Washingtone? È un’ipotesi.   Come lo è la possibilità che una simile purga può essere stata offerta allo Zar odierno, o addirittura programmata comunque vadano le cose.   Il disprezzo per i neocon di Trump è uscito diverse volte: come riportato da Renovatio 21, in un messaggio video di due anni fa Trump attaccava direttamente Victoria Nuland, già vicesegretario di Stato e regina dei neocon, come la causa della guerra in corso. Il marito della Nuland, Robert Kagan, in questi anni ha ricambiato l’amore, scrivendo per il Washington Post articoli disperati in cui scriveva che nonostante la sconfitta di Trump contro Biden in società rimanevano tanti, troppi trumpiani (la soluzione, chiediamo quindi, cos’è? Una guerra civile? Oppure una pulizia etnica, come fa l’amato Stato di Israele a Gaza?)   In ultima, abbiamo visto tre mesi fa lo storico discorso anti-neocon tenuto da Trump in Arabia Saudita.     Non si tratta solo del presidente. Robert F. Kennedy jr., il suo segretario alla Salute, è un anti-neocon sfrenato – nonostante l’essersi trovato con un figlio turlupinato ad andare a combattere in Ucraina in una guerra che Kennedy ritiene fomentata dagli stessi USA.   Quando raccontò del suo ingresso nel team Trump – il momento che ha messo fine alla sua campagna presidenziale, lanciandolo come stella del MAGA-MAHA –RFK rivelò pure di essere rimasto colpito dai primi colloqui con Don junior, il primogenito Trump. Il quale, racconta Kennedy, era apertis verbis in opposizione ai neocon, con nomi e cognomi.   Di recente Kennedy ha fatto di sfuggita un’ulteriore rivelazione sul gabinetto Trump: dice che va d’accordo con gli altri segretari, in particolare la Bondi, che è diventata amica sua e di sua moglie, ma quello più simpatico, che fa ridere tutti, dice, è Marco Rubio: qui Kennedy dice che dapprima provava freddezza nei suoi confronti, in quanto riconosciuto come neocon estremista, ma ha avuto una «conversione», mollando completamente il campo dei falchi antirussi.

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In pratica, se c’è una purga da fare, l’amministrazione Trump sa già chi andare a prendere. Il problema, tuttavia, è che potrebbe non bastare.   Perché alla radice della questione neocon, oramai lo hanno capito tutti, ce ne è una più grande, e indicibile: l’influenza di Israele sugli USA. Notiamo che quanto stiamo dicendo ha effetti geopolitici immediati, autoevidenti: la guerra russo-ucraina, fomentata dai neocon, potrebbe finire a breve (o quantomeno, c’è tanto lavoro in corso per la sua cessazione); al contrario, il massacro etnico di Israele non dà cenni – nonostante le urla di Trump a Netanyahu, di cui si è detto – di essere arginato davvero.   Una purga trumpiana anti-israeliana è di là da venire, anche se un accenno vi è stato: tre mesi fa ha licenziato quantità di funzionari ritenuti troppo filo-israeliani.«Il direttore senior del NSC per il Medio Oriente e il Nord Africa Eric Trager e il direttore del NSC per Israele e l’Iran Merav Ceren erano tra coloro che sono stati cacciati via venerdì 23 maggio», ha scritto Times of Israel il 25 maggio, aggiungendo che entrambi erano stati nominati dall’ex consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, il pezzo grosso tolto dallo staff e piazzato all’ONU (promoveatur ac amoveatur) accusato di troppa intimità con Netanyahu.   Non basterà: è di pochi giorni fa l’emersione del caso dell’esperto di cibersicurezza israeliano, impiegato negli uffici stessi del premier dello Stato Ebraico, arrestato a Las Vegas in una retata anti-pedofili. All’uomo, finito in manette per aver adescato quella che credeva essere una minorenne, è stato consentito tornare in Israele con il suo volo, poco dopo: non ha nemmeno visto un giudice, libero subito. Renovatio 21 ne parlerà nei prossimi giorni – ricordando che il celeberrimo caso di sfruttamento seriale di minori ad usum dell’oligarcato, cioè la vicenda Epstein, è anche quella oramai collegata da tantissimi a Israele e ai suoi servizi segreti.   Sappiamo che suo genero Jared Kushner, il marito dell’amatissima figlia Ivanka, non solo è ebreo, ma è figlio di uno dei principali donatori americani di Netanyahu, il quale, si racconta, quando veniva a Nuova York dormiva nella cameretta dello stesso Jared. Il padre, palazzinaro ebreo, venne incarcerato per aver tentato di ricattare suo cognato, facendogli incontrare una prostituta: grazie a Trump, ora Kushner è nominato ambasciatore a Parigi. Ricordiamo pure come Jared – accusato da una parente Trump di essere la talpa FBI dietro al raid di Mar-a-Lago – abbia parlato in questi mesi di conflitto del grande valore immobiliare della riviera di Gaza… Le strambe idee trumpiane sulla costruzione di un paradisiaco resort mediterraneo sulla Striscia potrebbero venire, tragicamente, da qui.   Ciò detto, non tutta la speranza è perduta. Nel suo podcast, lo studioso E. Michael Jones – bollato come ingiustamente antisemita e censurato prima ancora che la cosa fosse materia comune – mesi fa ha fatto una rivelazione: un amico, che conosce Tucker Carlson, dice che questi testimonia come in privato Trump parli a sua volta «come noi». Non capiamo bene cosa significhi, ma detto da Jones, fa un certo effetto.

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Si tratta quindi di un lavorìo lento e dissimulato? Non impossibile: pensiamo all’attacco «simbolico» contro il programma nucleare iraniano. E ai suoi effetti: due giorni fa il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha licenziato il capo dell’agenzia di Intelligence del Pentagono, il tenente generale Jeffery Kruse, poche settimane dopo che la Casa Bianca aveva respinto una revisione che valutava l’impatto degli attacchi americani sull’Iran. Il rapporto insisteva sul fatto che il programma nucleare di Teheran era solo ritardato di pochi mesi, invece che essere stato «annientato» come aveva dichiarato dopo i bombardamenti Trump.   C’è tanto, tantissimo da fare. Steve Bannon, grande fautore della politica del drain the swamp («prosciuga la palude», dove la palude è Washington) ha sostenuto che lo swamp, cioè il Deep State, che è più di ogni cosa un «business model di successo» che arricchisce tantissime, ha bisogno non di pochi anni, ma di almeno due decenni per essere sanificato.   Abbiamo idea che la palude da prosciugare sia più grande di Washington. Si estende per tutto l’Atlantico (con i suoi patti), attraversa il Mediterraneo, per arrivare sulle rive di quel piccolo Stato tanto importante per la storia e la geopolitica mondiale.   Ripetiamo: la grande purga è un lavoro arduo, difficilissimo: ma non impossibile. Il problema è solo sapere se c’è, da qualche parte nascosta sotto coltri di diplomazia e ricatto, la volontà di farlo.   La purga non era solo una promessa della strana religione oracolare QAnon. La grande purificazione è quello che il mondo intero chiede dal profondo del suo cuore.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Gage Skidmore via Flickr pubblicata su licenza CC BY-SA 2.0; immagine modificata  
   
 
 
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