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Ecco papa Leone XIV

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Il nuovo papa è Robert Francis Prevost che ha scelto di chiamarsi Leone XIV.

 

Il Prevost nato a Chicago il 14 settembre 1955. Il padre è di origini francesi e italiana, la madre ha invece origini spagnuole. Ha due fratelli. Era considerato un influente prelato vicino a papa Francesco, con una lunga esperienza missionaria in Perù e due mandati come priore generale degli Agostiniani.

 

Entrato nell’Ordine di Sant’Agostino nel 1977, ha conseguito una laurea in Matematica alla Villanova University, un Master in Teologia a Chicago e un dottorato in Diritto Canonico a Roma, con una tesi intitolata «Il ruolo del priore locale nell’Ordine di Sant’Agostino».

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Ordinato sacerdote nel 1982, ha servito in Perù come cancelliere della Prelatura di Chulucanas, direttore del seminario di Trujillo, insegnante di diritto canonico e vicario giudiziale. Negli Stati Uniti, è stato priore provinciale a Chicago (1999-2001) prima di guidare gli Agostiniani come priore generale (2001-2013). Nel 2014, Papa Francesco lo ha nominato amministratore apostolico di Chiclayo, poi vescovo nel 2015, e nel 2023 prefetto del Dicastero per i Vescovi, ruolo ricoperto fino alla morte il 21 aprile 2025. È stato creato cardinale nel settembre 2023.

 

Prevost condivideva la visione di Francesco su ambiente, povertà e migranti, sostenendo una pastorale inclusiva, come l’accesso alla Comunione per i divorziati risposati, pur mantenendo una posizione moderata su questioni come Fiducia Supplicans, il documento sulle benedizioni alle coppie omofile, su cui la sua posizione non è chiarissima.

 

Discreto con i media – non è noto per la loquacità, in ispecie sui temi fondamentali – è stato apprezzato per la sua capacità di ascolto e sintesi.

 

Si conosce la sua opposizione all’ordinazione dei diaconi donna, mentre non si hanno informazioni riguardo ad altre questioni come il celibato sacerdotale e l’accordo segreto sino-vaticano. Non è noto nemmeno se è favorevole alle limitazioni della messa tradizionale.

 

È conosciuto, tuttavia, il suo favore alla promozione della «Chiesa sinodale».

 

È stato creato vescovo da Bergoglio nel 2023. L’anno scorso ha dichiarato che «il vescovo non dovrebbe essere un piccolo principe seduto nel suo regno». Inoltre è noto per la passione sportiva: «mi considero un tennista dilettante», ha detto, sottolineando che «da quando ho lasciato il Perù ho avuto poche occasioni per allenarmi, quindi non vedo l’ora di tornare in campo».

 

 

La sua carriera è stata anche segnata da controversie legate alla gestione di casi di abusi sessuali, da cui tuttavia è uscito senza condanne di sorta, venendo sempre difeso. A Chicago, un prete condannato risiedette in un priorato vicino a una scuola, ma Prevost non avrebbe autorizzato tale situazione. A Chiclayo, è stato accusato di aver gestito male denunce di abusi, ma la diocesi ha difeso il suo operato, sottolineando il rispetto delle procedure canoniche e l’assistenza alle vittime.

 

Nel 2025, accuse di pagamenti da 150.000 dollari per silenziare tre ragazze presunte vittime di sacerdoti hanno riacceso le critiche. Le accuse, secondo il sito InfoVaticana, sarebbero state evidenziate in un servizio televisivo nazionale con un’intervista alle ragazze lo scorso autunno, definito come «il sasso nella scarpa del cardinale Prevost». Lo stesso sito tre giorni fa titolava che Prevost sarebbe il «candidato di James Martin», il gesuita americano filoomosessualista che Bergoglio portava in un palmo di mano.

 

Considerato in questi giorni un possibile candidato di compromesso per il Conclave del 2025, il suo profilo missionario lo rendeva un candidato «universale», ma la sua recente nomina a cardinale, la giovane età e le controversie ne limitavano le possibilità. Membro di sette dicasteri vaticani, godeva della fiducia di Francesco per le sue doti amministrative.

 

Nel suo affaccio a San Pietro è parso visibilmente emozionato, con l’occhio lucido evidente. Si è presentato con la mozzetta sulle spalle, un segno di continuità con la tradizione ma di discontinuità rispetto a Bergoglio, che invece l’aveva rifiutata. Tuttavia, nel suo discorso, ha tenuto a ricordare ben due volte il predecessore, ponendosi in linea con lui.

 

Nel discorso ha parlato, oltre che italiano e latino, anche in spagnuolo: ha voluto ricordare la diocesi peruviana dove è stato mandato come vescovo.

 

Il presidente Trump ha già espresso su Truth social le sue congratulazioni per «il primo papa americano», dicendo di non vedere l’ora di incontrarlo.

 

 

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«Congratulazioni al Cardinale Robert Francis Prevost, appena nominato Papa. È un grande onore sapere che è il primo Papa americano. Che emozione, e che grande onore per il nostro Paese. Non vedo l’ora di incontrare Papa Leone XIV. Sarà un momento davvero significativo!» scrive Trump, ripreso dai canali social ufficiali della Casa Bianca.

 

Resta da capire quale sarà il rapporto tra i due connazionali, vista l’opposizione che su molti temi – migrazioni massive, ambiente, etc. – il papato bergogliano muoveva contro la prima e la seconda amministrazione Trump.

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Immagine screenshot da YouTube

 

 

Spirito

«Siamo stati creati per la gloria»: omelia nella festa di Ognissanti di mons. Viganò

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Renovatio 21 pubblica l’omelia nella festa di Ognissanti dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò

Vos, purpurati martyres, Vos candidati præmio Confessionis, exsules Vocate nos in patriam.

Rabano Mauro Inno Placare, Christe

  Dopo la solenne celebrazione della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, nell’ultima Domenica di Ottobre, il primo Novembre è dedicato a coloro che con Cristo hanno combattuto il bonum certamen, meritando di trionfare con Lui nella vittoria sfolgorante sul demonio.   Il giorno seguente, 2 Novembre, viene ricordato un altro sterminato esercito di anime sante: quelle di coloro che il fuoco del Purgatorio purifica, come l’oro nel crogiuolo, per renderle degne di essere ammesse alla gloria della contemplazione della Maestà divina.

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Il Re, i Suoi più valorosi compagni d’arme, i Suoi soldati, e un’infinità di Santi sconosciuti. Profeti, Apostoli, Martiri, Confessori, Vergini e Vedove; Papi, Vescovi e Abati; Re e Sovrane. E la Regina di tutti costoro, la Condottiera delle Milizie, la Beatissima Semprevergine Maria. E le schiere angeliche: Serafini, Cherubini, Troni; Dominazioni, Virtù, Potestà; Principati, Arcangeli e Angeli. Miriadi di anime illuminate come un mistico firmamento dalla luce sfolgorante del Sol Justitiæ, Nostro Signore Gesù Cristo, Re e Pontefice.    Tibi omnes angeli, tibi cœli et universae potestates: tibi cherubim et seraphim, incessabili voce proclamant: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt cœli et terra majestatis gloriæ tuæ. Te gloriosus Apostolorum chorus, te Prophetarum laudabilis numerus, te Martyrum candidatus laudat exercitus.   A questo sterminato consesso di Santi manchiamo solo noi, che in questa valle di lacrime peregriniamo verso la Patria celeste che troppo spesso crediamo lontana.   Una Patria da cui siamo exsules, esuli cacciati dalla Giustizia divina in quanto figli di Adamo ed Eva, riammessi per Grazia alla presenza beatifica della Santissima Trinità grazie alla Redenzione del Nuovo Adamo e alla Corredenzione della Nuova Eva. Con noi abbiamo molti compagni di viaggio, altri ci hanno preceduti, altri li incontreremo per via.   I nostri genitori, una volta lasciata questa vita passeggera, continueranno a pregare per noi nell’eternità e li ritroveremo ad attenderci quando suonerà la nostra ora. I nostri figli, i nostri nipoti perderanno anche noi, un giorno, e benediremo la volta che abbiamo loro insegnato a recitare un De profundis, perché la loro preghiera allevierà le nostre sofferenze purificatrici e ci avvicinerà a quel locus refrigerii, lucis et pacis cui tanto aneliamo.   Anche noi pregheremo per loro, dal Purgatorio e dal Paradiso, affinché con l’aiuto della Grazia riescano ad espiare le loro colpe su questa terra, con la penitenza, il digiuno, la preghiera; con la Carità, che copre una moltitudine di peccati (1 Pt 4, 8). La Carità: l’unica Virtù che non verrà mai meno, perché consustanziale al Dio Uno e Trino. La Virtù il cui fuoco arde di un tale amore per Dio, da consumare le nostre infedeltà.

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Chi tra voi è ancora giovane, e pensa di aver dinanzi a sé ancora molto tempo prima del Giudizio particolare, forse non riesce a comprendere perché nelle persone più mature si renda via via più percepibile quella sorta di «nostalgia» per la gloria del Cielo che ci fa quasi desiderare la morte per prima raggiungere il Padre Celeste e i santi del Paradiso. Noi anziani sentiamo questo desiderium patriæ che ce la fa anelare più della luce del sole [Patria me major quam lucis sidera deerat, cfr. Ovidio, Tristia, I, 3].   Un desiderio che non ci viene dal ricordo di qualcosa che abbiamo lasciato – non essendo mai stati ammessi al Paradiso – quanto da quell’impronta che portiamo impressa nella nostra natura e che ci ricorda di essere opera della mano sapiente del Creatore, fatti a immagine e somiglianza della Santissima Trinità, trinitari anche noi nelle nostre facoltà – memoria, intelletto, volontà. La memoria del Padre, l’intelletto del Figlio, la volontà del Paraclito.    Potremmo dire che il ricordo ancestrale del Paradiso perduto si sia trasmesso, insieme alle conseguenze del peccato originale – la morte, la malattia, il dolore… – proprio come il figliuol prodigo prova nostalgia della casa del Padre, del quale ha dilapidato l’eredità. Quel richiamo struggente ci ricorda da dove veniamo, ma soprattutto ci indica la Patria a cui siamo destinati.   Il pellegrinaggio del popolo eletto nel deserto verso la Terra Promessa è figura del pellegrinaggio della Chiesa verso il ritorno nella gloria del proprio Capo, ma anche immagine del pellegrinaggio di ciascuno di noi verso la Nuova Gerusalemme.   Siamo stati creati per la gloria. Siamo stati voluti e quindi amati per essere partecipi della gloria del Dio Creatore, Redentore e Santificatore. Siamo stirpe di Re, figli ed eredi di Dio, coeredi di Cristo. E la nostra eredità inizia qui, cari fratelli. Inizia con la scala crucis che vediamo raffigurata in un’immagine medievale, in cui il Salvatore sale i pioli di una scala che conduce alla Croce. La nostra eredità eterna inizia con la volontaria accettazione della croce che la Provvidenza ci ha destinato, e che è l’unica che siamo in grado di portare, l’unica su cui possiamo serenamente salire, su cui possiamo con fiducia aprire le braccia.   La scala crucis è anche scala paradisi, perché nella sequela del Redentore questa via regia conduce dritto al cospetto della Maestà divina. Una suggestiva immagine di San Giovanni Climaco ci mostra le anime salire verso il Cielo, con gli Angeli che le accompagnano nella salita e i diavoli che cercano di trascinarle giù.   I Santi – quelli che veneriamo sui nostri altari, dei quali incensiamo le Reliquie, sulle spoglie dei quali celebriamo il Santo Sacrificio della Messa e che per noi intercedono in Cielo – non sono l’eccezione in una norma di mediocrità. Non è normale non essere santi. Vi furono epoche in cui la santità era tutt’uno con l’essere Cristiani, perché nella furia della persecuzione uomini e donne, giovani e anziani erano quotidianamente chiamati ad affrontare il Martirio. Molti lo subirono come catecumeni, ancor prima di essere ammessi al Battesimo. Portiamo i loro nomi proprio perché il loro esempio ci sproni ad imitarli sulla stessa via di santità. Professiamo la stessa Fede apostolica, celebriamo gli stessi Misteri, e continuiamo ad avere gli stessi nemici: il mondo, la carne, il diavolo.   Un Cattolico che non vuole essere santo, che non desidera il Paradiso, che non anela a Dio – sicut cervus ad fontes aquarum – e che non sente questa «nostalgia» del Vero e del Bene, non ha capito nulla della nostra santa Religione, né tantomeno del miracolo di infinita Carità che ha spinto la Seconda Persona della Santissima Trinità ad incarnarSi e a patire per noi, senz’altra motivazione se non l’amore divino nei nostri riguardi e la gloria della Trinità stessa. Perché essere santi è un dovere di ciascuno di noi, in obbedienza al precetto: Siate santi come Dio è santo (Lv 19,2; 1Pt 1,16); ma se solo ci lasciamo conquistare da Nostro Signore la santità non è più un obbligo, ma la necessaria, spontanea e riconoscente risposta alla chiamata del Re, sotto i vessilli del Quale è un onore militare. 

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I Santi sono coloro che hanno acclamato e continuano ad acclamare: Regnare Christum volumus! contro il grido blasfemo della scelesta turba. Sono coloro che fanno regnare il loro Signore anzitutto nella propria anima, rendendola degna dimora della Santissima Trinità mediante la vita della Grazia e l’unione con Dio. Sono coloro che nell’umiltà si lasciano guidare dalla mano sapiente del Signore, docili come una penna tra le Sue dita, perché sia chiaro che l’opera che ne esce è interamente divina. Quoniam tu solus Sanctus.   A noi esuli è però concesso uno spiraglio di Paradiso, su questa terra. Uno spiraglio della gloria della Maestà divina che anticipa ciò che ci attende e che rende disponibili le Grazie soprannaturali per affrontare il viaggio fino alla meta finale. Questo angolo di Paradiso lo troviamo nelle nostre chiese, nei nostri Tabernacoli, attorno a ciascuno dei quali si raccolgono adoranti tutti gli Angeli.   Lo troviamo nella Santa Messa, quando il sacerdote fa scendere dal Cielo il Re dei Re, ripetendo in forma incruenta il Sacrificio della Croce. E in questo Paradiso in terra, delimitato dalle colonne e dalle volte di una chiesa come dalle travi di un granaio, noi possiamo comunicarci al Corpo e Sangue di Cristo, presente in Corpo, Sangue, Anima e Divinità esattamente come Egli siede sul Trono dell’Agnello nella gloria del Cielo.    Te per orbem terrarum sancta confitetur Ecclesia, Patrem immensæ maiestatis; venerandum tuum verum et unicum Filium; Sanctum quoque Paraclitum Spiritum.    Forse è proprio dalla sacralità della Messa, dalla solennità dei gesti arcani, dalla profondità dei testi liturgici, dal torrente impetuoso di Grazie che il Santo Sacrificio riversa su di noi, che ci viene quella «nostalgia» per il Cielo, per la presenza dei nostri cari, per la luce della Verità somma, per il calore della perfetta Carità, per la gloria di Dio e dei Suoi Santi. Tu rex gloriæ, Christe. Cum sanctis tuis in æternum, quia pius es.   E così sia.    + Carlo Maria Viganò Arcivescovo   1 Novembre MMXXV In festo Omnium Sanctorum

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Immagine: Fra Angelico (circa 1395–1455), Giudizio finale (circa 1450), Gemäldegalerie, Berlino Immagine di Dosseman via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
   
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Lo stile di Leone XIV: conservare il vero senza rigettare il falso?

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In una Nota sullo stile di Papa Leone XIV del 1° giugno 2025, pubblicata sul suo blog e riproposta da Sandro Magister su Settimo Cielo il 2 giugno, Leonardo Lugaresi, esperto di Padri della Chiesa, si sforza di «cogliere un aspetto dello stile di pensiero e di governo di Papa Leone XIV, che mi sembra emergere chiaramente nei suoi primi discorsi; un tratto che merita la massima attenzione per il suo valore paradigmatico, non solo nei contenuti ma anche, e direi soprattutto, nel metodo».

 

Questo stile, secondo lo studioso italiano, equivale a fare «giusto uso» della tradizione: «raccogliere ciò che c’è di buono in ogni persona, in ogni discorso, in ogni evento, e filtrare ciò che è cattivo».

 

Spiega: «Ma oggi sarebbe altrettanto sbagliato pretendere che spetti al papa compiere una sorta di “controriforma”. Se posso azzardare una previsione, credo che questo comunque non accadrà. Penso invece che da Leone XIV possiamo attenderci non tanto delle correzioni esplicite o delle formali ritrattazioni di certi aspetti ambigui, confusi e in qualche caso problematici del precedente pontificato, quanto un loro “giusto uso” che, se così posso esprimermi, li “rimetta al loro posto”».

 

E illustra il suo punto con un esempio: «ad alcuni è dispiaciuto che nel discorso del 19 maggio ai rappresentanti delle altre chiese e di altre religioni papa Leone abbia citato la controversa Dichiarazione di Abu Dhabi».

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«È vero che quel documento contiene il passaggio forse più “problematico” del pontificato di Francesco, perché vi si trova un’affermazione circa la volontà divina che gli uomini aderiscano a religioni diverse dalla fede cristiana che è pressoché impossibile interpretare in modo compatibile con la dottrina cattolica».

 

«Tuttavia, da parte di chi è ben saldo nella certezza (scritturistica e tradizionale!) che tutti gli uomini sono chiamati a convertirsi a Cristo, perché ‘in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati’ (At 4, 12), si può benissimo citare un altro passo, del tutto innocuo, di quello stesso documento, proprio nella logica che ho cercato di descrivere;»

 

«È anche in questo modo, io spero, che si realizzerà una sorta di ‘riassorbimento dell’eccezione bergogliana’ nel corpo vivo della tradizione»

 

«Ah! Con quanta galanteria vengono espresse queste cose!» [Molière, Il Misantropo, Atto I, Scena 2] Le affermazioni eretiche diventano “eccezioni” che devono essere «riassorbite”, diluite in affermazioni “innocenti” per renderle accettabili al «corpo vivo della tradizione»! Con un simile regime, c’è da temere che questo corpo non rimanga vivo a lungo! Ci si può accontentare di «filtrare» l’errore senza rifiutarlo esplicitamente?

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Leone XIV può accontentarsi di aggirare gli errori senza condannarli?

Nelle Res Novæ del 4 agosto, padre Claude Barthe scrive: «Leone XIV, è un fatto, è responsabile dell’eredità di Francesco. Questa eredità, fondamentalmente conciliare, se si escludono la sinodalità, che resiste a qualsiasi tentativo di definizione precisa, e l’impegno ecologico, può essere riassunta in tre testi: Amoris Laetitia e Fiducia Supplicans, sulla morale del matrimonio, e Traditionis Custodes sulla liturgia tradizionale».

 

Sulla moralità del matrimonio, prosegue, «tutta la difficoltà di Amoris Laetitia si concentra nel paragrafo 301, da cui si potrebbe ricavare la seguente proposizione: “Alcuni di coloro che vivono in adulterio, anche se conoscono la norma che stanno trasgredendo, potrebbero non essere in stato di peccato mortale”».

 

«Leone XIV dovrebbe abbracciare questo insegnamento bergogliano, che mina gravemente la santità del matrimonio. Aggirarlo abilmente, indirettamente, non sarà sufficiente per invalidarlo. Dovrà necessariamente approvarlo o annullarlo. La Chiesa, infatti, è custode del contenuto della Rivelazione e della dottrina di fede e morale a cui bisogna aderire per essere salvati. […]»

 

«Non ci si può accontentare, a difesa della fede, di dichiarazioni che mitighino tale eterodossia o la controbilancino con insegnamenti contrari che tuttavia lascino intatta la dottrina difettosa. È necessario, per la salvezza delle anime, sradicare la falsa dottrina».

 

Riguardo alla Messa tradizionale, padre Barthe osserva che «a causa di papa Bergoglio, la questione è diventata molto semplice: tutto l’approccio repressivo di Traditionis Custodes si basa, infatti, sul suo articolo 1: ‘I libri liturgici promulgati dai santi pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità con i decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano (…)»

 

«Secondo Traditionis Custodes, a seguito della riforma conciliare, la liturgia romana precedente a questa riforma ha quindi perso il suo status di lex orandi. […] (Certamente) è estremamente auspicabile che il nuovo papa conceda a questa liturgia, direttamente o indirettamente, maggiore libertà. Ma, nonostante ciò, resta da insegnare nella Chiesa la seguente proposizione: “I libri liturgici in vigore prima della riforma di Paolo VI non esprimono la lex orandi del Rito Romano”»

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«La questione che il Magistero della Chiesa è ora chiamato a risolvere è questa: questa proposizione è vera o falsa? Se è falsa, deve essere condannata, con tutte le conseguenze che ne conseguono».

 

Pertanto, un uso sapiente della «tradizione vivente» per assorbire le «eccezioni bergogliane» sembra non solo insufficiente, ma soprattutto pericoloso. Anche in questo caso, solo il futuro potrà dirlo. E il futuro appartiene a Dio.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Filippine: le sette evangeliche riscuotono un successo clamoroso

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Sebbene il cattolicesimo rimanga la religione dominante nelle Filippine, un numero crescente di filippini si sta ora rivolgendo alle comunità protestanti, appartenenti al cosiddetto movimento «evangelico». Diverse ragioni spiegano questa crescente disaffezione nei confronti della Chiesa.   Nell’arcipelago filippino, la Chiesa cattolica permea tutti gli aspetti della vita: le arterie urbane, le feste popolari, i dibattiti politici e perfino gli scambi quotidiani spesso rimandano alle grandi devozioni cattoliche.   Il cattolicesimo, vestigia della dominazione spagnola e pilastro dell’unità nazionale, era sembrato fino ad allora incrollabile: ma questo significava dimenticare che anche il colosso a volte ha i piedi d’argilla. Mentre all’inizio degli anni 2000 circa l’82,3% della popolazione si identificava come cattolico, due decenni dopo questa percentuale era scesa al 78,6%.   Allo stesso tempo, le comunità evangeliche hanno conosciuto una crescita spettacolare, con la loro quota aumentata dal 4,1% all’8,2% in tempi record, al punto che si può parlare senza esagerare di una vera e propria ondata evangelica che continua a generare credenti «rinati», coloro che credono, come Nicodemo, di essere nati una seconda volta grazie al loro ingresso in questo nuovo tipo di protestantesimo.

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A questo declino hanno contribuito in larga parte le carenze che hanno scosso la Chiesa cattolica locale: si potrebbe citare il posizionamento politico dei vescovi filippini che, tra il 2016 e il 2022, sono entrati in guerra contro l’allora capo dello Stato, Rodrigo Duterte, in particolare a causa dei metodi rapidi di quest’ultimo contro i narcotrafficanti.   L’uomo forte dell’arcipelago non ha esitato a insultare a sua volta i prelati, contribuendo così a normalizzare gli attacchi contro la gerarchia ecclesiastica. Ma si potrebbero anche menzionare sospetti di irregolarità finanziarie e altri casi di abusi che hanno offuscato la reputazione dell’istituzione.   Il declino del cattolicesimo nella regione – come altrove nel mondo – si spiega anche con il fenomeno della «modernità psicologica», per cui la crescente domanda di autonomia, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, si è spostata dal registro politico a quello intimo, per affermarsi anche nelle scelte spirituali e religiose.   In questo contesto, il credente ritiene che ora spetti a lui trovare le risorse personali che possano autenticare la propria fede ai propri occhi, piuttosto che affidarsi alle credenze prescritte dall’istituzione. Ciò porta a un cambiamento nell’adesione religiosa che mette in risalto la figura del convertito. Il credente tende a presentarsi come un «ritornante», un cristiano rinato che costruisce la propria appartenenza attraverso le proprie scelte.   Questa prospettiva risiede in una decisione personale. Testimoniare la propria conversione significa produrre una narrazione di sé come credente autonomo: significa introdurre l’individuo egocentrico nella mentalità cattolica. A questo si aggiunge la retorica dell’autenticità e dell’autorealizzazione, che spiega perché le sette evangeliche prediligano servizi intrisi di danze e lodi ritmiche, instillando un’atmosfera presumibilmente conviviale e immersiva.   In breve, è la conseguenza logica delle celebrazioni piatte e orizzontali delle animazioni liturgiche apparse sulla scia del Nuovo Ordo Missae.   Ma sarebbe esagerato prevedere la scomparsa del cattolicesimo o il soffocamento delle comunità locali sul suolo filippino: la fede cattolica resta viva, ma dovrà attingere più che mai in futuro alle radici della sua Tradizione per non vedersi rubare definitivamente la pretesa di vitalità e dinamismo.   Articolo previamente apparso su FSSPX.News  

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