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Due secoli di obbligo vaccinale in Italia

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Sbaglia chi crede che l’obbligo vaccinale sia una novità introdotta dalle leggi liberticide degli ultimi governi.

 

In realtà è la libertà vaccinale ad essere un’eccezione nella penisola, anche prima dell’unificazione politica agita dalla massoneria (cioè, il «Risorgimento»), che come scritto di recente da Renovatio 21, ha dimostrato sempre una fortissima inclinazione verso la vaccinazione dell’intera popolazione.

 

L’obbligo vaccinale si diffonde con una velocità impressionante in tutta Europa già nel primissimo Ottocento, a poco più di una manciata di anni dagli esperimenti disumani di Jenner.

L’obbligo vaccinale si diffonde con una velocità impressionante in tutta Europa già nel primissimo Ottocento, a poco più di una manciata di anni dagli esperimenti disumani di Jenner.

 

Nel 1805 Napoleone stabilì la necessita per le sue reclute di ricevere il vaccino contro il vaiolo. Già da primo console, nel 1800, lo aveva istituzionalizzato. Bonaparte obbligò anche le popolazioni finite sotto l’amministrazione francese.

 

Nel 1806 è registrato forse il primo obbligo in terra italiana, quello del principato di Piombino e Lucca per la vaccinazione anti-vaiolosa estesa ai neonati nei primi due mesi di vita. Era altresì ordinata la vaccinazione di tutta la popolazione che non avesse già contrato il morbo.

 

Seguì nel 1812 il Regno delle due Sicilie. Già introdotta sotto i Borboni, la vaccinazione non si interruppe durante il regno del cognato di Napoleone Gioacchino Murat, Re di Napoli e delle due Sicilie nonché Supremo Consiglio di Napoli (detto delle Due Sicilie) del Rito Scozzese Antico e Accettato della Massoneria, di cui fu il primo Sovrano Gran Commendatore fino al 1815.

 

La legge Crispi-Pagliani prevedeva che i Comuni avessero l’obbligo di segnalare le malattie infettive. Era inoltre previsto, quindi, l’obbligo vaccinale per tutti i nuovi nati

Da Sud al Nord: nel 1859 l’obbligo dell’anti-vaiolosa fu stabilito nel Regno di Sardegna, che seguiva di pochi anni l’obbligo introdotto dal suo grande fiancheggiatore e finanziatore nell’impresa unitaria, Londa: la Gran Bretagna fu obbligata al vaccino dal 1853, con la partenza delle sanzioni per gli inadempienti dal 1867. La Prussia avrebbe poi obbligato i suoi militari al vaccino nel 1870. La Prussia e il Regno di Sardegna avevano di fatto già avuto un obbligo vaccinale per i soldati nel 1834: ciascun militare era tenuto ad avere con sé un libretto che attestasse l’avvenuta immunizzazione.

 

Nel 1888 il Regno d’Italia promulgo la prima legge del sistema sanitario nazionale, la legge Crispi-Pagliani. Entrambi i personaggi erano massoni di alto livello.

 

Crispi, presidente successore dell’ultimo governo del massone trasformista Depretis, fu il cerimoniere che assegnò a Garibaldi in un rito nella Loggia di Palermo tutti i gradi dal 4° al 33°; Pagliani, medico, era particolarmente interessato anche ad un altro tema assai caro alla massoneria, la cremazione: nel 1883 fondava Società di cremazione, per poi divenirne presidente per tre decenni dal 1902 al 1932; scrisse il libello La cremazione dei cadaveri quale costumanza civile, economica, igienica e religiosa (1904); quindi inserì la cremazione nella legge sanitaria firmata col «fratello» libero muratore Crispi.

 

La Crispi-Pagliani spostava il concetto di malattia da una questione di polizia  ad una questione sanitaria. Fu questa legge ad introdurre nei Comuni i medici condotti, dottori pagati dagli enti che seguissero la salute nelle varie zone del Regno. Veniva inoltre ordinata la provvista di acque potabili e la creazione di statistiche sanitarie vere e proprie.

 

La legge inoltre prevedeva che i Comuni avessero l’obbligo di segnalare le malattie infettive. Era inoltre previsto, quindi, l’obbligo vaccinale per tutti i nuovi nati.

 

Negli anni Sessanta era prevista, con l’obbligatorietà, anche una sanzione penale per i genitori che non vaccinavano i figli: omessa vaccinazione

La Crispi-Pagliani rimase in vigore sino al 1978, cioè all’introduzione della 833/1978 che creò l’Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Le sue funzioni che secondo la Crispi-Pagliani affidava ai Comuni vennero di fatto trasferite alle unità sanitarie locali (USL) poi divenute azienda sanitarie locali (ASL).

 

La politica di vaccinazione obbligatoria tuttavia venne ritoccata varie volte nella storia anche per l’introduzione di nuovi tipi di vaccino.

 

Nel 1929 arrivò la disponibilità del vaccino contro antidifterite, che venne reso obbligatorio di tutti i bambini nel 1939 (decreto legge n. 891) e inoculato in combinazione con quello antivaiolo.

 

Nel 1959 arrivò il vaccino per la polio, prima con la formula di Salk e poi con quella di Sabin: tutti i nuovi nati italiani saranno obbligati a subire questo vaccino dal 1966. I vaccini antipolio sia Salk che Sabin, prodotti con cellule di rene di macaco, infettarono miliardi di esseri umani del virus SV-40, latente e asintomatico nella scimmia ma sospettato di essere alla base dell’insorgenza di tumori (mesoteliomi, osteosarcomi) una volta introdotto negli esseri umani.

 

Nel 1963 arrivò l’obbligo dell’antitetanica per i lavoratori ritenuti a rischio («lavoratori agricoli, pastori, allevatori di bestiame, stallieri, fantini, sorveglianti o addetti al lavori di sistemazione e di preparazione delle piste negli ippodromi, spazzini, cantonieri, stradini, operai e manovali addetti all’edilizia, asfaltisti, straccivendoli, operai addetti alla manipolazione delle immondizie, operai addetti alla fabbricazione della carta e dei cartoni»); nel 1968 l’obbligo venne esteso a tutta la popolazione neonata.

 

Negli anni Sessanta era prevista, con l’obbligatorietà, anche una sanzione penale per i genitori che non vaccinavano i figli: omessa vaccinazione. Le scuole avevano il dovere di verificare lo status vaccinale dell’alunno, pena l’esclusione dalla frequenza scolastica. La depenalizzazione della mancata vaccinazione dei figli sarebbe arrivata solo con la legge 689/1981, che trasformava il reato in illecito amministrativo.

 

Con la legge Lorenzin, l’Italia divenne il primo Paese al mondo a autoinfliggersi la nuova ondata dell’obbligo vaccinale globale. La Francia seguirà a ruota, e così altri Paesi. Dietro vi sono gli sforzi di enti transnazionali come l’OMS o l’ONG semi-privata GAVI, così come altre sigle ancora che hanno tutte in comune il lauto finanziamento (parliamo di miliardi di dollari) della Fondazione Bill & Melinda Gates

La legge 833/1978 (l’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale)  aveva ridotto l’aspetto repressivo della vaccinazione, assicurando che i vaccini introdotti successivamente fossero non obbligatori, ma «raccomandati». Parola che non sempre riesce a convincerci.

 

Nel 1991 vi fu l’entrata in vigore dell’obbligo per il vaccino contro l’epatite B (legge 165/1991), una malattia che contagia per lo più per contatto sessuale ma per la quale si vogliono misteriosamente vaccinare i bambini piccoli. Una scelta, quella del governo, ritenuta da alcuni sospetta: «a prendere questa decisione fu l’allora ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo che, insieme al responsabile del settore farmaceutico del ministero, Duilio Poggiolini, intascò ben 600 milioni di lire dall’azienda Glaxo-SmithKline, unica produttrice del vaccino Engerix B» scrive nel 2013 Yahoo! Finanza. Nonostante questa storia, il vaccino oggi resta obbligatorio per tutti i bimbi italiani.

 

Sempre il ministro De Lorenzo (medico e figlio dell’ex sottogretario alla Sanità Ferruccio De Lorenzo) nel 1992 varò la legge 210, «Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati»: la famosa legge che sposta sullo Stato i costi del danno da vaccino e da trasfusione, qualora sia provato il nesso causale («ragionevole probabilità scientifica») tra la malattia e il farmaco in assenza di altre cause.

 

La riparazione del danno poteva essere richiesta da «chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica». Anche i non vaccinati, danneggiati dal contatto con i vaccinati, potevano chiedere l’indennizzo; tuttavia esso riguardava esclusivamente i vaccini determinati come «obbligatori» e non quelli «consigliati», che verranno inclusi nelle riparazioni solo con la sentenza 107/2012 della Corte Costituzionale.

 

Nel 1998 si ebbe l’importante pronunciamento della Corte Costituzionale (sentenza 27) la quale stabiliva che «se il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività (art. 32 della Costituzione) giustifica l’imposizione per legge di trattamenti sanitari obbligatori, esso non postula il sacrificio della salute individuale a quella collettiva. Cosicché, ove tali trattamenti obbligatori comportino il rischio di conseguenze negative sulla salute di chi a essi è stato sottoposto, il dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 della Costituzione impone alla collettività, e per essa allo Stato, di predisporre in suo favore i mezzi di una protezione specifica consistente in una equa indennità, fermo restando, ove se ne realizzino i presupposti, il diritto al risarcimento del danno».

 

L’obbligo, come abbiamo visto, non è un’eccezione: è la norma dello Stato moderno.

Forte dell’articolo 34 della Costituzione («La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita»), nel 1999 vide la luce un decreto del Presidente della Repubblica Ciampi (il n.355) che aboliva l’esclusione dalle aule per il bambino non  vaccinato.

 

Nel 2017 si è avuto il decreto legge sull’obbligo vaccinale chiamato per semplicità «decreto vaccini» o «legge Lorenzin». I vaccini obbligatori sono inizialmente 12, ma alla fine ci si accontenta solo di 10: antipolio, antidifterica, antitetanica, anti-epatite B, antipertosse e anti-Haemophilus influenzae tipo B,  antimorbillo, antirosolia, antiparotite e antivaricella.  4 ulteriori sieri vengono quindi «fortemente consigliati» dalle ASL e inoculati a spese del contribuente: anti-meningococco C e B, anti-rotavirus e anti-pneumococco.

 

Il decreto Lorenzin subordina l’ingresso a scuola all’avvenuta vaccinazione. Le scuole per l’infanzia non possono accettare iscrizioni di bambini non-vaccinati, mentre le scuole elementari possono farlo ma con la prospettiva di multa ai genitori. Non sono mancate tensioni di presidi e direttori scolastici che hanno imposto un regime perfino più rigido di quello richiesto dal governo.

 

Come noto, l’avventura dell’obbligo vaccinale per l’infanzia inizia alla Casa Bianca di Obama nel 2014, quando il ministro Lorenzin firmò un protocollo che rendeva l’Italia «designata quale capofila per i prossimi cinque anni delle strategie e campagne vaccinali nel mondo».

 

Il governo della massoneria e della Cultura della Morte, cosa altro poteva produrre se non decenni e secoli di obbligo alla siringa?

Con la Lorenzin, l’Italia divenne il primo Paese al mondo a autoinfliggersi la nuova ondata dell’obbligo vaccinale globale. La Francia seguirà a ruota, e così altri Paesi. Dietro vi sono gli sforzi di enti transnazionali come l’OMS o l’ONG semi-privata Global Alliance for Vaccine Initiative (GAVI), così come altre sigle ancora che hanno tutte in comune il lauto finanziamento (parliamo di miliardi di dollari) della Fondazione Bill & Melinda Gates.

 

Il 2017, amiamo ripetere qui a Renovatio 21, altro non era se non il prodromo del 2021: ecco quindi la legge 44/2021, che introduce l’obbligo vaccinale più draconiano per i sanitari. Poco più in là, obbligheranno gli insegnanti… E ora l’obbligo vaccinale (pardon, di green pass) coinvolge tutte le categorie di lavoratori, praticamente senza eccezione (sì, gli avvocati ne possono fare a meno, per qualche misterioso motivo).

 

La storia tuttavia non è finita.

 

L’obbligo, come abbiamo visto, non è un’eccezione: è la norma dello Stato moderno.

 

Il governo della massoneria e della Cultura della Morte, cosa altro poteva produrre se non decenni e secoli di obbligo alla siringa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine di Wellcome Images via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

Stato

Quasi la metà della popolazione occidentale pensa che la democrazia sia «rotta»

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Quasi il 45% dei cittadini dei Paesi occidentali considera la democrazia nelle proprie nazioni «rotta» secondo i risultati di un’indagine IPSOS. Lo riporta Politico.

 

La ricerca, diffusa alla testata giornalistica, è stata realizzata a settembre e ha interessato 9.800 votanti di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Italia, Svezia, Croazia, Paesi Bassi e Polonia.

 

Dallo studio emerge che la popolazione di sette delle nove nazioni analizzate esprime insoddisfazione sul funzionamento della democrazia; Svezia e Polonia sono le uniche due eccezioni in cui la maggioranza degli interpellati nutre fiducia nel proprio modello di autogoverno.

 

In base all’indagine, circa il 60% dei partecipanti in Francia ha manifestato delusione per lo stato attuale, seguito da Stati Uniti (53%), Regno Unito (51%) e Spagna (51%). Gli intervistati hanno indicato la disinformazione, la corruzione, l’assenza di accountability dei leader politici e l’ascesa dei partiti radicali come le principali insidie al cammino democratico.

 

Nel Regno Unito e in Croazia, appena il 23% dei sondati ha espresso la convinzione che i rispettivi esecutivi li rappresentino adeguatamente.

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Lo studio rileva inoltre che, salvo la Svezia, una schiacciante maggioranza nei contesti esaminati paventa un aggravamento delle minacce all’autogoverno entro i prossimi cinque anni.

 

Gideon Skinner, direttore senior per la politica britannica di IPSOS, ha confidato a Politico che «c’è un’ansia diffusa sul funzionamento della democrazia, con i cittadini che si sentono inascoltati, specie da parte dei governi centrali. Nella maggior parte delle nazioni, aleggia un forte anelito a trasformazioni profonde».

 

L’illusione democratica sta insomma venendo percepita dai cittadini occidentali come, appunto, un’illusione – una simulazione accettata per inerzia e benefizio di salario.

 

Difficile che non sia così, quando vediamo gli Stati democratici chiedere il bando dei partiti più votati (come AfD in Germania) o quando rammentiamo quanto successe nel biennio pandemico, con tutte le Costituzioni nazionali calpestate e le famose «libertà democratiche» (dal libero pensiero, alla libera circolazione, alla libera associazione, alla libera espressione, all’autonomia del corpo) ridotte a pura barzelletta sotto il tallone di un sistema che aveva installato persino un sistema di apartheid biotico, un razzismo subcellulare con discrimanazioni mai prima vedute.

 

La popolazione, anche se continua a votare e a non rivoltarsi, sa la verità ultima: non siamo in una democrazia, siamo al massimo in una oligarchia, una plutocrazia dove comandano grandi interessi se non volontà oscure e violente.

 

No, non viviamo in una democrazia – e tutti lo sanno, e lo hanno accettato. Tuttavia non moltissimi continuano il pensiero: non siamo in una democrazia, ma neppure dovremmo esserci, perché il sistema corrotto può essere risolto solo con una forma di potere monarchico autoritario basato su principi morali condivisi e indistruttibili, con pene tremende per chi, al potere, trasgredisce (Carl Schmitt: tyrannum licet adulari, tyrannum licet decipere, tyrannumm licet occidere)

 

La democrazia – in ultima analisi concetto angloide imposto al mondo dopo la Seconda Guerra – con la sua dispotica finzione transnazionale, arriverà al capolinea?

 

 

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Economia

La situazione industriale in Italia. Intervista al prof. Pagliaro

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Ad agosto, l’Italia ha registrato l’ennesimo calo della produzione industriale, perdendo quasi il 3% sul corrispondente mese di agosto del 2024. I sindacati parlano apertamente di «più grande crisi produttiva dal dopoguerra». I dazi imposti dagli USA hanno fatto crollare l’export italiano di oltre il 21% solo ad agosto. E ancora peggio a settembre e ad ottobre, facendo crollare l’export, che era l’unica cosa che ancora reggeva dell’economia italiana a fronte di una domanda interna che ormai decresce persino per i consumi alimentari, i quali a settembre, pur aumentando in valore a causa dell’inflazione, si sono ridotti dell’1,8%: un valore enorme per il consumo più anelastico di tutti, quello alimentare.   Siamo quindi tornati a sentire il professor Mario Pagliaro per un aggiornamento sulla questione. Lo scienziato italiano da tempo sostiene come la rifondazione dell’IRI sia un’ineludibile necessità. «Il cambiamento è già iniziato», ci aveva detto a marzo.

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Dobbiamo ricordare ancora una vola che Lei è stato fra i primi a parlare del ritorno dello Stato dell’economia, e certamente il primo a darne conto pubblicamente mettendo in evidenza l’insieme dei nuovi investimenti industriali condotti dallo Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti e altri veicoli di investimento. Ce ne sono stati di ulteriori? Certo. Nel settore energetico Italgas ha acquisito e incorporato 2i Rete Gas divenendo il primo operatore della distribuzione del gas in Europa. In quello commerciale, la società del Tesoro Invitalia ha investito 10 milioni per acquisire una quota significativa del capitale di Coin. Non molti sanno lo Stato nel 2020 ha costituito il Fondo Salvaguardia Imprese, affidandone la gestione ad Invitalia, con cui acquisisce partecipazioni di minoranza nel capitale di imprese in difficoltà per rilanciarle e salvaguardare l’occupazione.   Nel settore industriale, a fine 2022 Invitalia era già entrata nel capitale sociale del produttore di treni passeggeri Firema ampliando ulteriormente nel 2024 il suo investimento con altri 17 milioni, quando ha anche contribuito a rilanciare lo storico stabilimento ex Ferrosud di Matera. La dotazione iniziale del Fondo era di 300 milioni di euro, ma è stata ulteriormente incrementata. È sufficiente visitare la pagina web del Fondo per vedere come lo Stato sia persino entrato nel capitale delle Terme di Chianciano.    E Lei pensa che questo schema, che di fatto è esattamente ciò che fece l’IRI quando nacque nel 1933, sia estendibile ad esempio al settore automobilistico?  Occorre chiedersi, piuttosto, cosa accadrà se lo Stato non interverrà ricreando l’industria automobilistica di Stato. La produzione automobilistica ha costituito il cuore dell’industria manifatturiera italiana dalla metà degli anni Trenta alla fine degli anni Novanta. Oggi, è al suo minimo storico. Nel 2025 la produzione di autoveicoli nei primi 6 mesi, è stata di sole 136.500 unità, in calo del 31,7% rispetto al già anemico dato di quasi 200mila veicoli prodotti nel primo semestre del 2024.   Quanti posti di lavoro e quante aziende subfornitrici è possibile mantenere con una produzione annua di 370mila autoveicoli? Erano le stesse domande che si ponevano Beneduce e Menichella quando suggerirono al governo di creare l’IRI.   In un quadro evidentemente difficile per l’economia italiana, Lei vede anche fatti positivi? Certo. L’Italia è tornata a proiettarsi economicamente sul Vicino Oriente e sul Nord Africa. L’industria delle costruzioni italiana, che non casualmente vede lo Stato azionista dell’impresa più grande tramite la Cassa depositi e prestiti, è tornata a lavorare in molti Paesi del Vicino Oriente dove è apprezzata per le sue formidabili capacità. Enormi commesse sono state acquisite in Arabia Saudita. A settembre è stata inaugurata in Etiopia la Grand Ethiopian Renaissance Dam, ovvero la più grande diga ad uso idroelettrico mai realizzata in Africa: un’opera monumentale, interamente progettata e realizzata dall’industria italiana, con una capacità installata di oltre 5.000 MW: pari a quasi 5 centrali nucleari.   Ancora, pochi giorni fa a Tripoli Libia e l’Italia hanno firmato oggi il contratto per la realizzazione di un importante lotto dell’autostrada costiera libica, per un valore di circa 700 milioni di euro. A realizzare i lavori del lotto sarà un’altra grande azienda delle costruzioni italiana. Inutile forse sottolineare come tali progetti abbiano grandi ricadute in termini di sviluppo dei Paesi africani o mediorientali in questione, eliminando attraverso lo sviluppo economico le condizioni di sottosviluppo economico che portano all’emigrazione di massa verso l’Europa.

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Ritiene che questo nuovo attivismo italiano nel Mediterraneo possa essere durevole? Lo sarà certamente. Dai tempi di Roma, la ricchezza dell’Italia è dipesa dalla sua capacità di proiettarsi nel mare di cui è al centro proprio sull’Africa e sul Vicino Oriente.   Nel farlo, l’Italia portò in questi Paesi anche la sua civiltà, per la quale è amata ed apprezzata da quei popoli ancora oggi. Si tratta esattamente del progetto «Eurafrica» elaborato dai geniali geopolitici italiani della prima metà del Novecento, che poi sarà fatto proprio dai governi italiani succedutisi fino ai primi anni Novanta .   Nel farlo, l’Italia conoscerà una vera e propria rinascita economica e infrastrutturale. Infatti, sono finalmente in costruzione la nuova linea ferrata ad alta capacità fra Napoli e Bari, e quella fra Catania e Palermo, oltre a numerosi cantieri di strade e ferrovie già aperti in Calabria.   Ai giovani italiani che emigravano fino a pochi mesi fa oltre le Alpi, suggerisco di unirsi invece alle imprese italiane che si stanno proiettando verso il Vicino Oriente, il Nordafrica e il Corno d’Africa. Molte commesse sono già state acquisite, e molte altre lo saranno: non si tratta solo di grandi opportunità di lavoro e di crescita professionale. Ma di cooperazione per la pace e lo sviluppo comune con popolazioni giovani ed entusiaste: curandone la crescita con grandi lavori pubblici e un nuovo e molto più grande interscambio commerciale, l’Italia uscirà dalla depressione economica e dall’inverno demografico, e farà finalmente fiorire il proprio Mezzogiorno.  

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Immagine di Axel Bührmann via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0
 
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Pensiero

Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia

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In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.

 

Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.

 

Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.

 

Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.

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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.

 

Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.

 

Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.

 

Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.

 

Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.

 

Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.

 

Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.

 

Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.

 

E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.

 

Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.

 

Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.

 

Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.

 

Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».

 

Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».

 

Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.

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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.

 

Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.

 

E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.

 

Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.

 

Patrizia Fermani

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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano

Immagine Fondazione Cariplo di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata

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