Connettiti con Renovato 21

Pensiero

Due parole sulla psiche di Zelens’kyj. E di chi gli sta intorno

Pubblicato

il

Della presunta follia di Putin, giornali e politici di tutto il mondo ci hanno edotto in abbondanza.

 

Con buona pace della Goldwater Rule – la regola istituita tra gli psichiatri americani per non profilare patologicamente i candidati alla presidenza – sull’uomo del Cremlino hanno detto di tutto: è pazzo, ha il Long COVID, anzi no sono i segni dell’isolamento prolungato.

 

Come riportato da Renovatio 21, è entrato poi in gioco un Lord inglese, che ha parlato di steroidi. I giornali italiani, che hanno tradotto con Google, hanno quindi iniziato a parlare di «Rabbia di Roid», come se Roid fosse il dottor Roid e non il diminutivo inglese per, appunto, gli steroidi.

 

Nessuna di queste diagnosi a distanza ci pare convincente, ma è inevitabile: pensate alla quantità di profiling psicologico fatto sullo Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale, dove si annunciava che le nevrosi sessuali del Fuehrer, titillate nel modo giusto, avrebbero portato gli alleati alla vittoria  – peraltro diamo una notizia, lo Hitlerro sì che si faceva di steroidi, e di una quantità di anfetamine e altre droghe da stendere un cavallo: lui e la Germania tutta, come ha dimostrato il libro Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista.

 

Meno noto era il fatto che anche dalle parti dell’asse partivano psicoanalisi moleste del nemico: di Churchill, per esempio, stigmatizzavano la passione per i sigari…

 

La psichiatrizzazione del leader, nel momento della tensione è inevitabile.

 

Proprio per questo, è davvero misteriosa la mancanza totale di interesse psico-scientifico per una figura speciale come quella dello Zelens’kyj.

 

E sì che le discipline psicologiche ne avrebbero già di dire parecchie: un attore – un uomo, quindi, con un’architettura dell’io bella specifica – che diventa presidente, anzi, un attore che interpreta il presidente che realmente diventa il presidente-attore. Siamo molto al di là di Grillo, o di Ronald Reagan (il quale aveva comunque una lunghissima storia di politico in ambo i partiti USA, e una bella gavetta da governatore della California).

 

Invece, niente.

 

Eppure non crediamo sia solo una nostra impressione: il ragazzo non dà prova di equilibrio.

 

Certamente, chi lo segue dai giornali occidentali, o dai parlamenti, occidentali, si è fatto un’altra idea. Lo Zelensko è Batman. È il mio eroe, ha detto in una excusatio filoucraina di default qualche sera fa in qualche programma l’oramai mitico prof. Orsini, quello che hanno scelto per far vedere in TV come potreste essere linciati se osate pensarla diversamente. Di più: da pagliaccio comico che faceva sketch ignudo in cui suonava il pianforte con il pene (2016: l’altro ieri), il nostro stava per passare per direttissima alla notte degli Oscar, e l’abbiamo scampata per un soffio (in compenso, lo Sean Penna ora distruggerà le sue statuette).

 

Eppure se andiamo a prendere le sue dichiarazioni, qualcosa non torna. Sono contraddittorie. Sono bipolari. Con ogni evidenza.

 

Dice che vuole i negoziati, ma nella stessa dichiarazione parla di Terza Guerra Mondiale – che come noto è l’unica possibilità di salvezza che ha. Anche questo, fenomeno psicologico interessante: trascinare il mondo in una guerra annientatrice, per salvare la propria pelle. Come potremmo chiamare questo meccanismo di difesa, in termini psichiatrici?

 

Qualche giorno fa il Corriere ha riportato entusiasta un altro virgolettato, in cui si parlava, in una dissonanza cognitiva bella evidente, di pace ma anche di vittoria.

 

«Ci stiamo avvicinando alla pace, ci stiamo avvicinando alla vittoria». Eh?

 

Quindi, sembra far capire l’attore-presidente, sta andando verso il tavolo della pace da vincitore? La guerra la sta vincendo lui?

 

Parrebbe, da quello che dice.

 

«Se la Russia avesse saputo cosa li attendeva, sarebbe stata terrorizzata dal venire qui». Parole bellicose. DI uno che ha davvero la pace in tasca, perché ha effettivamente vinto.

 

È vero? Neanche per sogno.

 

Anche se non steste vedendo che Mariupol sta cadendo, che Odessa sta per cadere, che ci sono file infinite di carri fuori da Kiev,  che depositi di armi e di petrolio sono stati distrutti da missili Kalibr, che praticamente tutti i foreign fighter accorsi da tutto il mondo sono stati disintegrati a Yavarov,  che Karkhov è circondata che con la tenaglia dal Donbass stanno per catturare tutto l’esercito ucraino che era lì installato per attaccare il Lugansk e Donetsk a inizio marzo, ebbene, anche non vedeste nulla di tutto questo e sceglieste di credere ciecamente solo alla propaganda di TV e giornali occidentali, vi chiesiamo: se sta vincendo, perché continua a chiedere armi?

 

Se l’Ucraina sta vincendo, perché Zelens’kyj continua a chiedere la no-fly zone, che costerebbe, come detto dal Cremlino, l’immediata dichiarazione di guerra di Mosca a chiunque oserebbe?

 

Se l’Ucraina sta vincendo, perché continua a chiedere di avere armamenti, i MiG polacchi, etc.?

 

Perché chiede danari?

 

Il titolo del Corriere del 28 marzo, a 9 colonne: «Zelensky scuote l’Occidente». «Vi manca coraggio, dateci armi».

 

L’atteggiamento pare regressivo, infantile. Quattro giorni fa: «Ucraina, Zelensky alla NATO: “Da voi ancora nessuna risposta chiara”».

 

Due giorni fa il capo di gabinetto della presidenza ucraina ha fatto sapere che sono «delusi dalla NATO e dalla UE».

 

Sono tante le sindromi che verrebbero in mente all’esperto di scienza della psiche. Per esempio, qualcuno potrebbe citare il Barone di Munchausen, quello che si inventava storie pazzesche, viaggi sulla luna, e quella volta che riuscì ad uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i piedi. Chiuso in un bunker, non è un’ipotesi remota: pensate allo Hitler che negli ultimi giorni credeva ancora di comandare immensi battaglioni.

 

Qualcuno potrebbe parlare di regressione freudiana, meccanismo di difesa che porta il soggetto ad uno stato precedente dello sviluppo dell’io: datemi gli aerei, chiudete il cielo, datemi fucili, bombe, soldi… mamma, papà, attaccate voi la Russia per conto mio!

 

Qualcuno potrebbe tirar fuori anche qualche trauma psicologico da isolamento, tipo hikikomori. Del resto il presidente sta in un bunker, comunica solo attraverso video girati su green back per fingere che sia ancora in grado di stare a Kiev all’aperto.

 

Qualcuno potrebbe osservare una sindrome maniaco-depressiva, a cui a momenti di tristezza («ammettiamolo, non entreremo mai nella NATO») si alternano esplosioni di vitalità creativa: la vittoria è vicina, ora tirerò dentro tutti in questa guerra, etc.

 

In Russia vi è tuttavia un’altra idea per spiegare il comportamento di Zelens’kyj: la cocaina.

 

A metà marzo alla TV russa Pervij Kanal il deputato ucraino filorusso Ilya Kyva ha lanciato una serie di accuse oltraggiose al governo del suo Paese d’origine, riporta il quotidiano britannico Mirror.

 

Durante una discussione sul canale di Stato, il Kyva ha quindi parlato dello «stato psichiatrico e fisico» del Presidente.« Non è un segreto che sia salito al potere perché è facilmente controllabile. È un tossicodipendente. Cocaina».

 

Kiva ha quindi dichiarato che Zelen’skyj non era più in Ucraina, informazione che sarebbe poi stata, in teoria, smentita. I pubblici ministeri di Kiev hanno annunciato che Kyva è accusato in contumacia di alto tradimento e violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, oltre che di aver preso parte alla propaganda di guerra russa e di possesso illegale di armi.

 

Le vili accuse del deputato fuggito in Russia non sono verificabili, e possono attaccare solo perché, come noto, la polvere bianca, che sembra talco ma non è, e serve a darti l’allegria, è quasi considerabile come uno strumento del mestiere dell’attore, dove il professionista è costantemente sotto la pressione della performance, e del giudizio altrui, da cui la sostanza dà tregua, accordando alla psiche una potente euforica carica elazionale che smolla i freni inibitori.

 

Tuttavia, le accuse potrebbero aver avuto una eco piuttosto importante: Vladimir Putin, che rifiutò l’incontro con i vertici di Kiev parlando di una banda di drogati e neonazisti.

 

Vladimir Vladimirovic non fece nomi. Qualcuno ha pensato addirittura si riferisse a Hunter Biden, il figlio corrotto e depravato di Joe Biden.

 

In verità, in molti nelle Russie hanno inteso il riferimento come piuttosto diretto.

 

Gonzalo Lira, eccezionale YouTuber cileno-statunitense che semina perle di saggezza dalla Kharkov sotto le bombe (e sui cui i banderisti hanno messo una taglia), in un suo stream parlava schiettamente del «cokehead of Kiev», il cocainomane di Kiev.

 

Lira, che fino a pochi giorni fa a Kiev ci stava fisicamente, prima di essere cacciato dal direttore del suo albergo 5 stelle dopo che una sua clip di accuse al regime Zelens’kyj era finita sulla TV nazionale russa, racconta di raccogliere varie voci di strada in ucraina.

 

La sua tesi è che di fatto l’oligarcato, cioè in particolare Igor Kolomojskij, a questo punto lo abbiano abbandonato: e noi crediamo di sapere perché – per quanto scaltro possa essere Kolomojskij, il notoriamente controverso miliardario ebreo finanziatore di armate neonazi che ha inventato il fenomeno Zelens’kij sia in TV che in politica,  sa che qui si è passato il segno – s’è incazzato lo Zar. Con quello non si scherza, anche se vivi in Svizzera e in tasca hai il passaporto israeliano e cipriota. Quello, se vuole, ti trova, ovunque, chiunque tu stia pagando per proteggerti.

 

Se Zelens’kyj è stato abbandonato dal suo puparo, chi rimane? Semplice: i neonazi. E, sempre nel nostro pensiero, è facile capire perché: la mentalità del Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei, l’autodistruzione come parte ineludibile del proprio destino di sangue: vi basta guardare Mariupol’, sapendo chi ci stava prima, per capire.

 

Gli ucronazi non hanno nulla da perdere: si giocano il tutto per tutto, in una splendida avventura nibelungica di bombe e tatuaggi. Dal vertice del potere.

 

Lira dice che, «word on the street», Zelens’kyj sia completamente in mano loro ora, e che questi lo tengano «coked up», cocainato ben bene, così da controllarlo. Del resto è un lasciapassare mica da poco, lo Zelensko. Non sarà stato agli Oscar, ma è stato al Congresso USA, al Parlamento italiano, a quello britannico, perfino a quello israeliano – dove però qualcuna delle dissonanze cognitive che ingenera (davvero ha voluto fare il parallelo con l’olocausto, con tutti quei collaborazionisti che hanno dato una mano ai tedeschi?) non hanno trovato troppi applausi.

 

In effetti circolava la voce, qualche settimana fa, che a difenderlo non ci sarebbe stato l’esercito regolare ma formazioni neonazi – che peraltro ora, come noto, sono inquadrate ufficialmente nell’esercito… Una voce che non siamo in grado di verificare.

 

Una foto che circola mostra che, se allarghi l’inquadratura del podio da cui parla, è circondato da uomini col Kalashnikov…

 

 

Vedete a terra dei fogli. Sono i discorsi con cui sta incantando il mondo – cioè, il mondo pagato per farsi incantare, cioè ripetere la sbobba ai Paesi NATO. Una coraggiosa giornalista italiana ha ricordato che quei discorsi sono scritti dai suoi sceneggiatori, e che giù questo è un segnale inquietante.

 

 

«È molto inquietante sapere che dietro i discorsi di Volodymyr Zelens’kyj, già applauditi dai tre parlamenti – come ipnotizzati – di Stati Uniti, Regno Unito e Germania, ci sono gli sceneggiatori della serie TV satirica che lo ha reso famoso. Una squadra affiatata che organizza le giornate di Zelens’kyj e che sa come usare i social per raccogliere consenso, motivare e rimescolare gli equilibri geopolitici. Una squadra bravissima che è riuscita a trasformare un attore in un presidente e in un eroe» ha scritto Tiziana Ferrario.

 

«Volete diventare anche voi attori di questo reality? Io no. Spero neanche il mio parlamento, perché non pare esserci lieto fine in questa storia».

 

No. Al momento pare non esserci. Non con questi personaggi. Ci verrebbe da dire che solo drogandoci potremmo crederlo. E non abbiamo intenzione di farlo.

 

Tenetevi la vostra propaganda tossica. Tanta parte del mondo occidentale, rimasta sana, non si intossicherà.

 

Stateci voi dietro a Zelens’kyj, alla sua mente, a quella dei suoi pupari.

 

 

 

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

Pubblicato

il

Da

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

Sostieni Renovatio 21

Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

Aiuta Renovatio 21

La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

Continua a leggere

Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

Pubblicato

il

Da

Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

Sostieni Renovatio 21

Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

Aiuta Renovatio 21

L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata
Continua a leggere

Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Pubblicato

il

Da

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

Sostieni Renovatio 21

«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

Aiuta Renovatio 21

L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

Continua a leggere

Più popolari