Pensiero
Dragonballe Z

Bisogna tentare di mantenere la calma, e ricostruire quello che è successo.
Il nostro premier si è scagliato contro il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.
Come noto, Lavrov ha parlato in una trasmissione TV di Mediaset. L’establishment è arrabbiato, sembra un colpaccio, un’esclusiva italiana che non dovremmo permetterci.
Tuttavia chi segue Renovatio 21, sa che in questi giorni il Lavrov – dei cui discorsi pubblici cerchiamo di tenere traccia, perché è importante sapere cosa dice la parte censurata del conflitto – ha rilasciato diverse interviste, dai media arabi a quelli cinesi, passando per una quantità di eventi pubblici nei quali ha offerto la sua analisi della situazione, spesso puntualissima.
Dagospia aveva anticipato che l’intervista aveva fatto saltare i nervi al governo antirusso. Chi è stato a mettere in moto la macchina che ha portato un ministro di Mosca a parlare sulla TV nazionale italiana?
È stato Valentino Valentini, l’ex poliglossico interprete di Berlusconi, testimone diretto degli anni della granitica amicizia italo-russa?
È stato un qualche potente della TV con entrature oltrecortina?
È stato Berlusconi stesso? Ma come, non era a cuccia dentro il governo? Ma come, non era arrabbiato con Putin perché Vladimir adesso gli butta giù il telefono come ad uno scocciatore? Mistero.
La rabbia nel Palazzo, a quel che si diceva, era tanta.
Quindi ecco che in un raro caso di apparizione pubblica, il Draghi post-COVID si spende contro l’apparizione catodica del ministro che insultò il suo amico Giggino, fidato capo della diplomazia italiana, il ministro forse più allineato col Mario premier.
Ecco quindi, che partono le balle del Drago. Le Dragonballe.
«Prima di tutto, parliamo di un Paese, l’Italia, dove c’è libertà di espressione» dice, con sorrisetto in volto il nostro premier per offendere Lavrov e la Russia.
«Questo Paese permette dunque di esprimere le proprio opinioni liberamente».
Eh? Machedaverodavero?
E noi dovremmo stare a sentire una cosa del genere? Il premier ha idea di cosa sia l’Italia – il mondo – nell’Anno Domini 2022?
Ban? Shadowban? Processi alle grandi piattaforme che ti zittiscono… Draghi ne ha mai sentito parlare? Draghi ha idea di come si sente attualmente una larga parte dei cittadini italiani?
Noi, che siamo censurati (e magari pure spiati) ovunque, dovremmo sentirci dire che abbiamo la libertà di esprimerci?
Ma Draghi si è accorto che non esiste una testata in Italia che anche solo mezza cosa fuori dalla narrazione? O meglio: Draghi si è accorto che se ne è accorta una vasta porzione della popolazione?
In Italia c’è la libertà di espressione?
Ci spiega allora perché i siti russi – Rt.com, Sputnik e talvolta pure il sito ufficiale del Cremlino – sono irraggiungibili?
Una balla del genere la deve proprio raccontare ad un popolo che, mentre si esprimeva liberamente in piazza, è stato fatto oggetto di forza ondulatoria fino a che non è stata spenta la protesta nella repressione più triste, tra manganelli, idranti, ondate di agenti in borghese ed in assetto antisommossa?
Le vagonate di celerini per far chiudere una pasticceria, qualcuno le rammenta? E piazza Duomo a Milano?
Ma di cosa stiamo parlando?
Ah, sì, la libertà di espressione.
Draghi, pur essendo un tecnocrate – termine anche troppo nobilitante per dire impiegato di Stato cooptato ad alti livelli – mai nella sua vita si si dovrebbe essere occupato del tema… tuttavia, in effetti di libertà di parola aveva parlato giusto qualche settimana fa.
Ricordate? Era per dire che gli articoli dove si discuteva dell’assassinio di Putin nel nostro Paese si possono scrivere tranquillamente… lui quindi stava dalla parte del giornale denunciato dall’ambasciatore russo. «In Russia non c’è libertà di stampa, solidarietà a Giannini e ai suoi giornalisti».
Fu una mossa geniale, degna di un grande leader lungimirante: il giorno dopo doveva chiamare Putin per parlare della mancanza di gas che sta facendo chiudere le nostre aziende.
Ci ribolle il sangue, lo vedete. Basterebbero le prime parole del suo discorso per voler chiudere tutto, per nausearci tra bugie e nonsensi.
Draghi dice che ciò che dice il ministro Lavrov è «aberrante». Tuttavia «aberrante», per noi, è avere un premier che non abbiamo votato, un primo ministro privo di partito, fatto piovere dal cielo da chissà chi.
Per noi che crediamo che il nostro voto valga qualcosa, sì, avere un premier del genere è aberrante: nella storia repubblicana si contano pochissimi casi di tecnocrati installati al potere, e tutti in era recente (il primo probabilmente è stato il suo mentore, Ciampi), quando la sovranità italiana era già stata patentemente liquidata, come testimonia il caso del Britannia, panfilo sul quale, come sappiamo, il Draghi diede un discorso di benvenuto caloroso (includendo nei saluti tali «Invisibili Britannici»: invisibili britannici di altro tipo ci sa che operano anche ora in Ucraina e forse pure in Russia…)
Per noi, il Britannia è aberrante.
Per noi è aberrante la «distruzione creativa» dell’economia promossa apertamente dal gruppo dei Trenta capeggiato da Draghi.
Per noi sono aberranti le fake news ministeriali, le dragonballe sui vaccinati che non contagiano, con l’annuncio, un po’ adolfesco, secondo cui «i nostri problemi dipendono dai non vaccinati».
Invece, dobbiamo sentire che «oscena» sarebbe la storia di Hitler di origine ebraica raccontata da Lavrov.
Il Draghi ostenta sicumera: eccerto, lui sta storia non la ha mai sentita, nonostante fino a qualche anno fa degli studi genetici comprovanti svolti da ricercatori belgi ne parlava in tranquillità il Corriere e tutta la stampa possibile, sempre ghiotta di scandali e paradossi sul tema di svastica e stella di David.
Non vogliamo nemmeno entrare nella faccenda. Con evidenza, Lavrov come altri, non si prendono la briga di spiegare cosa sia il zhidobanderismo ucraino, di cui Renovatio 21 ha parlato, ma forse è il caso di fare un articolo a parte: in breve, l’azione di oligarchi ebrei come Igor Kolomojskij, che da una parte crea e lancia il presidente ebreo (russofono) Zelens’kyj e dall’altra imbastisce e finanzia battaglioni nazionalisti pieni di croci uncinate ucronaziste.
Ci limitiamo a ricordare che gli stessi nazisti sono quelli a cui l’Occidente – compresa l’Italia – stanno fornendo armi – armi che in un futuro prossimo sappiamo come possano andare in mano a terroristi. Questo è «osceno», questo è «aberrante», non le storielle sulle origini giudaiche dello Hitler.
Fornire armi significa dare la possibilità di uccidere. Fornire armi ai nazisti significa aiutare stragi naziste. Ce ne rendiamo conto?
Com’è possibile aprire la bocca su Hitler quando si stanno armando personaggi con svastiche e rune?
Infine, ecco che il nostro – incredibile, davvero – si scaglia contro la libertà di stampa, che aveva sostenuto una manciata di secondi prima.
«La televisione trasmette liberamente queste opinioni», cioè, quella di Lavrov, del ministro in carica del Paese con cui siamo materialmente in guerra.
Per Dragonball evidentemente non è accettabile.
«Lei ha parlato di intervista» dice seccato al giornalista che aveva fatto la domanda. «In realtà è stato un comizio».
Il problema, dice il tecnocrate che oltre che di vaccini ne sa anche di giornalismo, è che è stata fatta «senza nessun contraddittorio».
Certo, come no: vediamo il contraddittorio che esiste in Italia sui giornali nei confronti suoi e del suo governo. Stiamo vedendo una folla infinita di giornalista che stanno chiedendosi se è il caso che a capo delle migliaia di testate atomiche americane ci sia uno in demenza senile. Stiamo vedendo il fior fiore di contraddittori sulla guerra in Ucraina, sulle armi inviate verso il sangue e il caos, sulle fabbriche che chiudono, sul rischio nucleare…
«Non è un granché professionalmente… Fa venire in mente strane idee». Ah bello, adesso ci parla di professionalità, e poi lancia un messaggio subliminale a qualcuno (Berlusconi? Salvini? Chi?), magari sottintendendo una mezza accusa di potenziale intelligenza con il nemico.
Quindi, se il ministro Lavrov non deve parlare in TV, se ogni comunicazione di Mosca deve essere censurata, significa che siamo in guerra con la Russia?
La risposta ve l’abbiamo già data: di fatto, sì, e, a quanto ha scritto nero su bianco il Financial Times, dentro ci ha trascinato proprio Mario Draghi.
Andate a rivedervi l’articolo: Draghi è considerabile come uno degli attori principali di quella che potrebbe essere la prima vera mossa di guerra economica dichiarata della storia umana: il sequestro (cioè, il ladrocinio) di 300 miliardi di dollari dei russi depositati in Banche Centrali estere. Spariti, puf. Mai successo: nemmeno, durante la Seconda Guerra Mondiale, i danari tedeschi depositati alla Banca d’Inghilterra, con i V2 che si mangiavano il 25% di Londra.
Nell’Euroregno dei Draghi, invece, si può.
«In Europa, è stato Draghi a spingere l’idea di sanzionare la Banca Centrale al vertice di emergenza dell’UE la notte dell’invasione. L’Italia, grande importatore di gas russo, in passato era stata spesso titubante riguardo alle sanzioni. Ma il leader italiano ha sostenuto che le scorte di riserve della Russia potrebbero essere utilizzate per attutire il colpo di altre sanzioni, secondo un funzionario dell’UE».
Così il Financial Times, che non ci risulta sia stato smentito.
In Senato, poche settimane prima, Draghi aveva dichiarato un qualcosa che ad oggi non capiamo bene cosa volesse dire – o non dire.
«Era stato tutto premeditato da tanto tempo» aveva dichiarato Draghi riguardo ad un presunto complotto russo che aveva programmato la situazione attuale.
«Le riserve della Banca centrale russa dalla guerra di Crimea ad oggi sono state aumentate sei volte, alcune sono state lasciate in deposito presso altre Banche centrali in giro per il mondo, altre presso banche normali. Non c’è quasi più nulla, è stato portato via tutto, queste cose non si fanno in giorno, in mesi, mesi e mesi. Non ho alcun dubbio che ci fosse molta premeditazione e preparazione».
Ci avete capito qualcosa? Stava già ammettendo il suo ruolo in questo attacco frontale a Mosca, che rende l’Italia bersaglio inevitabile? Oppure si tratta semplicemente di un’altra dragonballa nella guerra contro la Russia, una Dragonballa Z?
Non ci è dato saperlo, tuttavia di una cosa siamo certi: il disallineamento assoluto di Draghi e del suo governo rispetto all’interesse nazionale.
Industrie disintegrate, valanghe di disoccupazione, la fame che può incredibilmente tornare fra noi, la minaccia sempre più viva di uno scontro termonucleare in casa nostra: tutto questo avviene mentre il nostro governo di occupa di armare l’Ucraina e di lamentarsi se il ministro russo parla alla TV italiana.
Tutto questo, dopo aver rubato due anni della nostra vita, e una fetta definitiva della nostra prosperità, con il COVID, lasciando una scia di morti e di mRNA che gridano vendetta al cielo.
Questo sì è «osceno», e «aberrante», e «fa venire in mente strane idee».
In realtà, sappiamo esattamente che idee dobbiamo avere.
Roberto Dal Bosco
Immagine di Attili Filippo via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported (CC BY 3.0); immagine modificata.
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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