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C’era una volta una Costituzione

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C’era una volta una Costituzione, quella italiana, per definizione democratica, figlia di compromessi politici di varia natura, ma elaborata da galantuomini con buoni studi alle spalle e buone intenzioni.

 

Fra i principi fondamentali, all’articolo 27, si legge ancora «la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla sentenza definitiva».

 

Proposizione meno roboante di quella della CEDU, dove l’articolo 48 recita: «l’imputato è presunto innocente fino alla sentenza definitiva», che meno si accorda, ad esempio, con le pur necessarie restrizioni della libertà personale quando si verificano determinati presupposti.

 

Il senso del principio costituzionale è evidentemente quello di garantire l’imputato da trattamenti vessatori, di evitare anticipazioni di giudizio profano e mediatico capaci di turbare la oggettività delle indagini e la serenità del giudice, di salvaguardare sotto ogni aspetto la dignità umana e in particolare quella di un soggetto la cui innocenza potrebbe essere provata, etc.

 

Norma dunque dettata da esigenze di garanzia, in una concezione evoluta della legge penale e processuale, dei rapporti tra cittadino e Stato, della fondamentale inviolabilità morale e materiale della persona.

 

Si tratta insomma di una norma di civiltà che ha ascendenze lontane nella Magna Charta, ma diventata nel tempo anche uno dei fiori all’occhiello delle moderne legislazioni nate sotto la cupola dei proclamati diritti dell’uomo che devono essere universalmente riconosciuti.

 

Tuttavia, gli uomini, si sa, hanno la memoria corta, e in certe condizioni sono anche affetti dall’analfabetismo di ritorno, senza contare come le generazioni siano portate a dissipare i patrimoni di famiglia. Della dissipazione culturale da cui è afflitto l’Occidente europeo non vale la pena di parlare, perché è tutta compendiata nelle imprese politiche e legislative dell’Unione Europea e dalla intelligenza dei suoi rappresentanti di spicco.

 

Ma guardando all’Italia, vediamo come l’accelerazione del fenomeno, oltre al caso macroscopico della Chiesa cattolica, abbia investito tutti i poteri dello Stato e la rappresentanza repubblicana, nonché le masse manipolate da altri poteri sostitutivi e più potenti dei primi. I poteri che spingono gli individui liberati dalla difesa immunitaria della retta ragione nel recinto, accogliente ma ormai sovraffollato, in cui alberga una follia ben organizzata.

 

Peccato che manchi oggi un Hieronymus Bosch capace di rendere le fattezze moralmente deformate di questi abitatori. Intanto però i più significativi vanno in televisione, rilasciano interessanti interviste, organizzano eventi pubblici laici e religiosi. Occupano le menti avide dei correligionari e sollevano momentaneamente i governanti e i rappresentanti dello Stato repubblicano e del cattolicesimo dall’onere di dare conto della propria perniciosa inutilità.

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Così, nella perdita di ogni decoro individuale e collettivo, morale, intellettuale e culturale, nella ignoranza di ogni principio di convivenza civile tanto faticosamente conquistato, soprattutto in Italia, attraverso il pensiero di grandi filosofi e giuristi, da Vico a Beccaria, da Pagano a Carrara, fino agli estensori della Costituzione repubblicana, assistiamo, a furore di popolo laico e chierico, alla esecuzione del presunto ma non accertato autore di un delitto di sangue come altri, per mano dello sceriffo collettivo con tanto di stella appuntata sul gilet di pelle, visibilmente ansioso di frustare il cavallo sotto il malcapitato appeso all’albero.

 

Tutto come si conviene nella saga western, in cui il povero diavolo non è difeso neppure dal segreto istruttorio dalla canea pronta al linciaggio e reclutata a scopo educativo anche fra gli adolescenti scolarizzati e culturalmente inermi.

 

Se qualcuno ci ha rimesso la pelle, in circostanze ancora misteriose, «certo le cose non sono andate come era stato deciso» ha accennato la sibilla dionisiaca della bassa padana che interpreta a meraviglia lo Zeitgeist di cui si fa portavoce e rappresentante. In attesa di sapere cosa era stato deciso, l’importante è che ci sia un colpevole in carne e ossa sia stato subito individuato quale incarnazione di un colpevole universale, mostro con infinite teste, anche se la responsabilità, per essere personale come scritto nella Costituzione, non può essere né di genere, né di specie.

 

Ma tutta la scenografia si è materializzata dans l’éspace d’un matin, anzi da un momento all’altro. Il tempo di proiettare la pellicola già montata. Strano film con strani protagonisti e stranissimi coproduttori.

 

Invece l’accertamento di «come sono andate le cose» dovrebbe spettare ancora, in quello che viene chiamato a destra e a manca, uno «Stato di diritto», teoricamente in senso kantiano, alla Magistratura, e non al cinema e alla canea in estasi orgiastica davanti alle orgiastiche telecamere in unione di amorosi sensi, e non sensi, con le più alte cariche del suddetto Stato.

 

Anche perché, come sa chi ha letto Edgar Allan Poe, e in particolare nei Delitti della rue Morgue, qualche volta l’autore può non avere neppure fattezze umane. Oppure potrebbe risultare un altro, come insegna il povero Scarantino che si è fatto da innocente vent’anni di carcere dopo avere confessato, a suon di botte e di promesse, di avere ucciso Paolo Borsellino. Uno tanto spericolato, quest’ultimo, da tenere una agenda su cui annotava cose molto compromettenti per i potentissimi tenutari del potere politico ed economico.

 

Insomma, c’è un cinema all’aperto nel quale ogni persona perbene, degna di tale nome, si dovrebbe vergognare di entrare. Per non doversi vergognare più tardi, quando tutto questo spettacolo diventerà uno squallidissimo pornofilm d’archivio, che è stato capace però di corrompere ulteriormente la fibra già estenuata di una società in disarmo morale e cognitivo.

 

PS: Nel «Nuovo Cinema di Genere» si proietterà, tra sorrisi e canzoni, anche il Grande Funerale di Stato che, in tempi di crisi politica ed economica, non si nega a nessuno. Venghino signori venghino, ci sono posti anche in piedi.

 

Patrizia Fermani

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie terrestri (1480-1490), Madrid, Museo del Prado; dettaglio.

Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

 

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Dugin: la guerra per il nuovo ordine è dinanzi a noi

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Renovatio 21 pubblica questo scritto di Aleksandr Dugin apparso su Arktos.   Il nuovo ordine mondiale multipolare non è scolpito nella pietra ed è improbabile che venga accettato pacificamente, ma è destinato a prendere forma attraverso un conflitto intensificato, ricordando come i cambiamenti storici siano decisi dall’imprevedibile svolgimento della guerra.   Un cambiamento nell’ordine mondiale avviene solitamente attraverso la guerra. Molto raramente coloro che detengono il potere globale sono disposti a rinunciarvi volontariamente. Resistono fino alla fine, finché non vengono distrutti e ridotti in rovina. Lo stesso vale senza dubbio oggi.   Naturalmente, nella storia accadono diversi colpi di scena. Pertanto, si potrebbe solo ipoteticamente aspettarsi, sperare o almeno desiderare che i leader occidentali rinuncino volontariamente alla loro egemonia. Ma qualcosa mi dice che è improbabile che ciò accada. E se non accade, allora ci sarà la guerra. Questa guerra è già in corso: la guerra in Ucraina, le guerre in Medio Oriente. Ma non è ancora in pieno svolgimento. Finora, è solo un presagio dell’enorme, fondamentale guerra che sarà combattuta per la ridistribuzione della sovranità reale tra le forze che oggi vengono demarcate.

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Oggigiorno diciamo spesso: guardate, il mondo multipolare è qui, il mondo non è più unipolare, ci sono i BRICS, c’è una «grande umanità», e così via. Tuttavia, possiamo vedere che l’egemonia del sistema unipolare è ancora forte. Questo nonostante il fatto che sia in declino, e nonostante la sua colossale crisi interna, l’implosione piuttosto che l’esplosione della società occidentale e dell’intera civiltà occidentale, sia chiaramente in fermento. Ma, in un certo senso, nonostante il vettore di questa onda discendente, l’egemonia occidentale è ancora più forte del multipolarismo.   Siamo onesti: è ancora in grado, ad esempio, di rimodellare la situazione e l’equilibrio di potere nello spazio post-sovietico. Sappiamo che i globalisti operano in Ucraina, Moldavia, nel Caucaso meridionale e in Asia centrale da tre decenni. Ma glielo abbiamo permesso. E ora, nonostante la divisione dell’Occidente in due o addirittura tre forze – i globalisti, l’UE, Trump e il MAGA – sono comunque riusciti a imporre la forza alle elezioni in Romania, sostituendo candidati sgraditi ai globalisti, uccidendo diverse decine di candidati di Alternativa per la Germania, insabbiando il tutto come «incidenti» e, infine, sono riusciti a imporre la forza alle elezioni in Moldavia. Allo stesso tempo, la guerra in Ucraina è in corso. L’Occidente non si ritira ed è molto difficile per noi ottenere una vittoria decisiva.   È troppo presto per dire che il mondo unipolare occidentale non esiste più. Esiste, anche se in agonia.   E, naturalmente, è molto probabile che se il mondo unipolare non crollerà semplicemente nel prossimo futuro, tutto questo sfocerà in una grande guerra.   Non sono sicuro di dove si svolgerà questa guerra , se nell’Oceano Pacifico contro la Cina o contro l’India, in Medio Oriente, o se ci coinvolgerà direttamente.   È del tutto possibile che tutto inizi da noi. Pertanto, ciò che sta accadendo in Ucraina potrebbe essere l’inizio di una guerra più grande e temibile.   Con le nostre armi nucleari, i nostri territori, la nostra identità storica e la nostra capacità di concettualizzare i processi mondiali, la Russia è qualche passo avanti alla Cina. La Cina sta diventando solo ora una vera potenza globale. Questa è una nuova qualità, un nuovo stato per lei. Non c’è garanzia che i cinesi gestiranno questa situazione. Eravamo una grande potenza mondiale nel XX secolo (una delle due) e nel XIX secolo (una delle tante). La grandezza della Cina risale all’antichità. Senza dubbio, la Cina è oggi uno degli Stati di primo ordine più importanti, uno dei due o tre che governano il mondo. Ma questa è un’esperienza nuova per la Cina contemporanea. Deve ancora prepararsi a questo, e qui si possono commettere molti errori. Abbiamo un’esperienza molto viva in questo campo, ed è per questo che la Russia è il principale ostacolo per i globalisti e il loro principale nemico. Pertanto, noi, e nessun altro, siamo i principali partecipanti a questa guerra, i principali conduttori del raggio luminoso della storia mondiale. Siamo noi che costruiamo il mondo multipolare.   Se una Terza Guerra Mondiale possa essere evitata in queste circostanze è un grande interrogativo. Per ora, l’unica opzione proposta per evitarla è la capitolazione, ovvero la deliberata cessazione anticipata della guerra, alzando bandiera bianca e arrendendosi alla mercé dei vincitori. Ma il riconoscimento deliberato della sconfitta non significa la fine della guerra. Siamo ancora pieni di volontà e di forza, e ci stiamo dirigendo verso la Vittoria, non verso la sconfitta.   Pertanto, se una grande guerra può essere evitata solo con la sconfitta, allora questo non è il nostro caso, e in tal caso la guerra non può essere evitata. Ma se ci sarà o meno la guerra non dipende da noi. Dipende da come il mondo unipolare che la sta organizzando sceglierà il nuovo livello di escalation.

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Nel complesso, concordo con l’analisi secondo cui non possiamo evitare una grande guerra mondiale. Una guerra del genere coinvolgerà la Cina, e molto probabilmente l’India, l’intero Medio Oriente, il mondo islamico. Allo stesso tempo, naturalmente, avrà ripercussioni in Africa e in America Latina, dove si stanno formando due coalizioni: quella dei sostenitori dell’unipolarismo e quella dei sostenitori del multipolarismo.   Pertanto, prove mostruose attendono l’umanità. Stanno già accadendo, noi siamo già dentro di esse. Ciò che abbiamo ora sembrerà un gioco da ragazzi rispetto a ciò che ci aspetta. Naturalmente, come ogni persona normale, non me ne compiaccio né mi rallegro. Ma le guerre scoppiano praticamente sempre quando le persone dicono di non volere la guerra.   Le guerre non dipendono dal fatto che le persone le vogliano o meno. C’è una certa logica nella storia a cui è praticamente impossibile eludere.

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  Immagine della Diocesi di Ekaterinodar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
 
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La società del ricatto, della censura e della schedatura di massa. Renovatio 21 intervista Marcello Foa

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Renovatio 21 ha incontrato in margine ad una conferenza ad Assisi Marcello Foa, giornalista che ha mosso i primi passi della sua carriera professionale ne Il Giornale diretto da Indro Montanelli. Foa è una figura che da anni opera nel mainstream massmediatico, già presidente della Rai Dal 26 settembre 2018 al 16 luglio 2021, quando fu nominato dall’allora governo gialloverde, per concludere il suo mandato con il governo tecnico di Mario Draghi.

 

Dottor Foa, partirei dal presente. La trasmissione in onda su Rai Radio Uno Giù la maschera, che la vedeva nella veste di conduttore insieme ad altri suoi colleghi, ha subìto uno stop improvviso. Questa chiusura l’ha colta di sorpresa o in un certo qual modo se lo aspettava?

È molto semplice. C’è stato un cambio alla direzione di Rai Radio Uno, il nuovo direttore è entrato in funzione e in Rai, essendo stato presidente, so cosa significa. Bisogna affrontare l’assalto dei partiti, ed è sempre così quando ci sono delle nomine. Davo quasi per certa una riconferma della mia trasmissione, perché aveva molta visibilità, avevamo molto equilibrio nell’approcciare gli argomenti e con me c’erano giornalisti e intellettuali di diverso orientamento politico che garantivano un pluralismo: Peter Gomez, Alessandra Ghisleri, Giorgio Gandola e all’inizio anche Luca Ricolfi.

 

Il nuovo direttore Nicola Rao, che conosco da tempo, mi telefona e mi dice: «Ti chiamo tra quindici giorni e poi facciamo il punto della situazione». Sparito [ride]! Nel frattempo ho capito che tirava una brutta aria e ho cercato di capire e sensibilizzare la questione, ma ho incontrato un muro di gomma. Nessuna interlocuzione costruttiva, nessun tipo di spiegazione. Finché arrivo a fine agosto quando iniziano ad arrivare segnali molto netti che non ero in palinsesto. Un po’, a quel punto, lo avevo intuito. Mi aspettavo però che perlomeno avessero la cortesia di giustificare la decisione. A quel punto ho deciso di uscire pubblicamente, rompendo gli schemi dell’establishment romano, perché di solito uno non esce così, ma ho ritenuto giusto farlo. 

 

Il «protocollo Rai» non prevede questo tipo di comunicazione?

No, ma diciamo così: può entrare nella logica dello scambio o del ricatto [ride], parafrasando il mio ultimo libro… ma io questa logica la rifiuto e sono uscito con un video nei miei social dove non mi sono messo a inveire, ma ho usato toni pacati, ma molto oggettivo perché ho descritto quello che accadeva. Il messaggio che viene mandato all’opinione pubblica è sbagliato per il centrodestra. Vengono premiate le voci di partito, mentre le voci libere, che interpretano altre sensibilità e che di certo non erano strumentalizzabili né dall’opposizione, né dal governo, anziché essere valorizzate a testimonianza del buon servizio pubblico, vengono punite.

 

Purtroppo questa è la morale di questa storia e mi auguro che qualcuno faccia delle opportune riflessioni, anche se non so se accadrà [ride]. 

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Questa decisione di chiudere il suo programma appare quantomeno strana per un governo di centro destra dove è presente una forza politica come la Lega che all’epoca di quel governo giallo verde, da tutti etichettato come sovranista e di certo apparentemente voltato verso destra, la portò a essere nominato Presidente della Rai.

Le spiego come andò. Fu molto semplice. A quel tempo io lavoravo in Svizzera, avevo un mio blog su Ilgiornale.it, continuavo a svolgere il mio ruolo di opinionista ed ero stimatissimo sia da Gianroberto Casaleggio del Movimento Cinque Stelle, sia da Matteo Salvini. A un certo punto erano in un empasse per trovare un nome per il nuovo presidente. A quell’epoca il M5S e Lega — sembra un tempo lontanissimo – erano entrambi intenzionati e desiderosi di dare una ventata di vero cambiamento. In questa misteriosa alchimia individuano in me la persona giusta per dare un segnale forte di cambiamento, benché il ruolo di presidente non sia quello di amministratore delegato.

 

La Rai la gestisce l’amministratore delegato. Il presidente ha un ruolo di rappresentanza molto forte, ma ha pochi poteri reali. Fatto sta che mi chiamarono, non perché ero l’espressione di una logica di partito, ma perché rappresentavo un intellettuale che era fuori dall’establishment. Oggi tutto si ricollega e sembra un ritorno alle origini [ride].

 

Quando lei venne nominato presidente, qualcuno lamenta che poco dopo il suo insediamento il suo nome sparì dalle cronache.

Questo lo spiegai alla fine. Il mio nome scomparve per una ragione che all’epoca io stesso non avendo avuto nessuna esperienza istituzionale, avevo sottovalutato. Retrospettivamente avrei dovuto spiegarla subito, cosa che poi ho fatto a fine mandato: quando tu sei presidente della Rai, parli sempre a nome della Rai, qualunque cosa tu dica. Ricoprire quel ruolo, per me sono stati tre anni di sofferenza e mi rendevo conto che qualsiasi cosa dicessi – a parte che veniva strumentalizzata in maniera incredibile – veniva interpretata che era la Rai a parlare e non Marcello Foa. Ruolo delicatissimo. Periodo complesso perché sono partito con il governo gialloverde, poi Salvini rompe e diventa un governo giallorosso e quindi Conte diventa un presidente di opposizione, tra virgolette

 

Con i Cinquestelle devo dire che ho avuto sempre rapporti discreti, il PD mi vedeva come fumo negli occhi. Poi alla fine del mio mandato c’è stato addirittura il governo di Mario Draghi. In tutto questo c’è stata anche la crisi del COVID.

 

È stato difficile?

Difficilissimo. Ho cercato di trincerarmi dietro al mio ruolo istituzionale. Vedendo da quella prospettiva il mondo politico, la mia fiducia nei confronti della politica si era molto raffreddata. Ero proprio stufo di farmi strumentalizzare per qualsiasi cosa dicessi o facessi. Finisco i tre anni e non mi dimetto come certe forze politiche avrebbero voluto che io facessi. Mi hanno fatto delle pressioni inimmaginabili. Alla fine ho spiegato il tutto, molti hanno capito, mentre alcuni ancora mi scrivono rimproverandomi che io non sono stato in grado di cambiare la Rai, ma di fatto non ne avevo il potere. Quello che è accaduto adesso dimostra che c’era una coerenza nel mio discorso. 

 

All’epoca del governo gialloverde i grillini si sono presentati come una forza antisistema, ma in un batter di ciglia sono diventati una forza funzionale al sistema.

C’è stata una metamorfosi, ma non mi riguarda. Dovrebbe chiederlo a Conte e a i suoi. 

 

Nel suo libro Gli stregoni della notizia atto II spiega bene il ruolo della comunicazione politica e dello spin doctor. Mi sovviene il caso di Rocco Casalino con Conte durante il COVID, che dirigeva le domande dei giornalisti per il presidente. Se dovesse scrivere l’atto III, come la descriverebbe nel suo libro?

Casalino ha avuto un ruolo molto importante e molto deciso e ha dimostrato quello che ho spiegato nel libro, ovvero che gli spin doctor hanno un ruolo decisivo nel rapporto con la stampa e anche nell’orientarla. Lui, pur non essendo un giornalista, da quel punto di vista ha fatto il suo dovere [ride]. Poi possiamo discuterne se oggi sia giusto comunicare in quel modo o no. Io dico di no, nel senso che, sempre se sia possibile ristabilire un senso di fiducia tra la politica e l’opinione pubblica, questo rapporto va ricostruito su basi di autenticità e non di orientamento.

 

Mi permetta un’osservazione: finché Conte era l’espressione del governo gialloverde era il nemico della stampa. Facevano le pulci al suo curriculum, sulla sua vita privata, eccetera. Quando è diventato presidente del governo giallorosso, quindi di una forza di establishment, graditissima al Quirinale tra le altre cose, ecco che di Conte, almeno nella grande stampa, non si è letto più un articolo critico.

 

A riprova del fatto che la stampa non è oggettiva, cioè la stampa è diventata sempre di più, a parte qualche lodevole eccezione, uno strumento di lotta politica o comunque di accompagnamento di una narrazione ufficiale.

 

In era pandemica la comunicazione e l’informazione, hanno prese delle «strettoie» impensabili fino a poco tempo prima. È stato un momento molto particolare.

È stato un momento terribile. Peraltro come sta emergendo adesso, le decisioni che furono prese – lo vediamo dalla desecretazione delle riunioni del CTS [Comitato Tecnico Scientifico, ndr] – i medici e gli scienziati sono stati del tutto superati dalla politica. Si sono uniformati a decisioni politiche prese da Speranza [ex ministro della salute, ndr] che non ha alcuna competenza medica. Gravissimo. La stessa cosa è accaduta negli Stati Uniti o peggio, perché sappiamo che tra l’amministrazione Biden e Fauci c’è stata una vera e propria operazione di manipolazione dell’opinione pubblica.

 

Oltre a questo c’è stata una violazione sostanziale dei nostri diritti costituzionali. È stata una pagina molto, molto buia. Come già spiegavo nei miei saggi precedenti, oggi si tende a non aprire una vera riflessione, a parte qualche giornale. C’è un meccanismo psicologico ben noto anche agli spin doctor per cui quando tu commetti un grave errore e sei indotto a commetterlo dalla pressione delle istituzioni, è molto difficile che a livello collettivo ci sia una presa di coscienza e una rabbia che si instaura, perché uno tendenzialmente non vuole ammettere che sia stato ingannato in maniera così evidente.

 

Per cui la tendenza è quella di dire: «Si, ma va beh, ma c’era l’emergenza…». Con il passare degli anni la verità verrà fuori, ma quando verrà fuori tra dieci o quindici anni, non avrà più la stessa spinta emotiva. Poi scommetto che ci saranno i giornalisti ai convegni che diranno: «è vero che durante il covid noi siamo stati troppo asserviti… Ma questo non accadrà più!». Possiamo essere certi che al prossimo giro capiterà di nuovo. 

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Troppo spesso osserviamo il «ring» dei talk show più seguiti che legittima di fatto gli ospiti a esperti del tal argomento di attualità, lasciando però fuori le centinaia di altri esperti che non la pensano come loro e che potrebbero alimentare un sano dibattito. Inoltre sono sempre gli stessi personaggi che passano da un salotto televisivo ad un altro a pontificare. È un problema per la pluralità di informazione. 

È un classico. Il talk show equilibrato è un’altra cosa e l’ho dimostrato con Giù la maschera. Il talk show televisivo ha preso un’altra piega ed è quella che il moderatore è un finto equidistante, mentre in realtà ha la sua agenda, le sue convinzioni che lascia trapelare, perché il programma è impostato per avere un certo tipo di approccio ideologico e dunque attirare un certo tipo di pubblico, che lo segue in quanto sanno di trovare ciò che vogliono e desiderano.

 

Tendenzialmente la stampa è di sinistra e la maggior parte dei talk show sono di sinistra. Lo schema è quello classico: tu hai bisogno di qualcuno che faccia da contraltare per avere un dibattito, però non c’è equità nella ripartizione dei ruoli. Di solito hai quattro da una parte e uno dall’altra. Quattro contro uno di solito è difficile difendersi. Sono cose che le vediamo ogni giorno ed è anche una delle ragioni perché i talk show tendono un po’ a stufare il pubblico. 

 

Sul lungo il pubblico, o una parte di esso, potrebbe anche intuire che vi è uno squilibrio nel dibattito e di conseguenza non seguire più quel programma. 

Più che altro, secondo me, c’è una disaffezione molto forte tra il pubblico, i media e la politica, per cui questo approccio così strumentale, così prevedibile, interessa meno. 

 

Lei ha anche scritto che i nuovi guardiani dell’informazione sono i social network. Abbiamo avuto la prova provata di ciò in epoca Covid quando hanno dettato una linea di pensiero unidirezionale. Le voci in dissonanza venivano bannate.

C’è stato un cambiamento di paradigma – e la cosa è passato un po’ sottotraccia, perché non ho letto grandi analisi su questo – ma abbiamo assistito a una operazione vergognosa. Oggi, per certi versi, tutti criticano Trump per i suoi modi, però Biden, o meglio chi e per conto di, magari usurpando Biden, ha applicato una censura molto invasiva e non dichiarata sui social media, quindi doppiamente insidiosa. Oggi lo sappiamo e abbiamo visto che Zuckerberg è uscito pubblicamente ammettendo ciò, come Elon Musk quando ha acquisito X.

 

È gravissimo che in democrazia FBI, CIA, Dipartimento del governo americano andassero a convocare i responsabili dei vari social media dicendogli di cancellare certe opinioni, addirittura indicando le personalità da bannare direttamente o facendo lo shadow banning. Tutto questo è stato un vero e proprio attentato ai valori democratici e quelli che dovevano essere i valori imprescindibili della costituzione americana. Il fatto che su questo tema ci sia stato silenzio, a parte poche eccezioni, è gravissimo. Noi viviamo in un mondo virtuale in cui tutti parlano di democrazia, di valori liberaldemocratici e quant’altro, ma poi noi stessi, come occidente, li abbiamo violati questi valori.

 

Oggi i nostri dati più sensibili siamo noi stessi, che tramite le piattaforme social, li affidiamo a coloro che poi ci sorvegliano e ci controllano. Di fatto è il contrario di quello che effettuavano le agenzie di intelligence, come la Stasi ad esempio, nei decenni passati, che cercavano in ogni modo di entrare nella quotidianità dei cittadini per spiarli. Il famoso film Le vite degli altri è esplicativo. La massa pare sia inconsapevole di ciò.

Esatto. Da una parte c’è l’ego, che solleticandolo metti la foto con quel tizio, nel posto tal dei tali, le foto della famiglia, dei viaggi e via dicendo. Ma l’altra cosa che pochi sanno che in realtà, nonostante Snowden abbia rivelato la vicenda della sorveglianza di massa elettronica una decina di anni fa, suscitò un gran clamore, ma non è che poi, forti di quell’esperienza, siamo stati più tutelati.

 

Oggi ci sono le cosiddette back door – ne parlo nel mio libro La società del ricatto – che sono delle porticine di servizio che vengono usate dai servizi di intelligence o chi per loro, per leggere i nostri dati. Le cito una frase dell’ex capo dei servizi segreti svizzeri contenuta in un libro: «Fate attenzione quando voi mandate una mail, quella mail passa – simbolicamente – per Londra e Washington dove viene copiata e archiviata prima che arrivi a destinazione». Di fatto noi siamo scrutinati, archiviati, profilati. Tornando al film Le vite degli altri, praticamente con questo ecosistema digitale, così tanto esaltato ed elogiato, in realtà si sta realizzando il sogno dei servizi di sicurezza di tutti i regimi, ovvero la schedatura di massa.

 

I social network sono anche divulgatori di notizie estremamente sintetiche, si parla per slogan cosicché la gente legge un titolo per conoscere quel tal avvenimento senza un minimo di lettura dei fatti, tantomeno di approfondimento. Recentemente negli Stati Uniti stiamo osservando che molti podcaster stanno raccogliendo numeri di pubblico molto consistenti. È come se una fetta di popolazione nutrisse una sana curiosità di conoscenza dei fatti più strutturata e approfondita. Questo cambiamento lo si intravede anche in Italia secondo lei?

In Italia ci sono le potenzialità perché questo accada. In Italia c’è stata una frammentazione molto più marcata e ci sono siti che hanno avuto e stanno avendo buoni risultati, nonostante manchi il Tucker Carlson o il Joe Rogan della situazione. Io percepisco nettamente, e la mia esperienza me lo ha dimostrato, che c’è una parte importante del pubblico che non va più a votare, non compra più i giornali, guarda sempre meno la televisione e si interroga su ciò che sta accadendo in giro per il mondo e non ottiene più risposte concrete da parte dei media ufficiali. Per cui il fatto che emergano realtà autorevoli e credibili, che poi alcune scadono nel complottismo, che non significa che i complotti non esistano. Esistono e come, la storia è fatta di complotti, però non puoi vedere sempre tutto solo attraverso questo filtro sennò diventi maniacale. La necessità di un approccio davvero credibile, di gente che si interroga, è sempre più necessaria e secondo me sempre più ricercato.

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Ciò mi fa ben sperare per il futuro.

Ma sì.

 

La società del ricatto è il titolo del suo ultimo libro, che mi pare sia un unicum su questo tema. Come le è venuta l’idea di scrivere di questa argomentazione? 

Credo sia il primo saggio in assoluto che parla di questo problema. Mi sono reso conto, osservando la politica, osservando le relazioni internazionali, ma anche frequentemente parlando con amici, editori, manager, professionisti, osservando certe dinamiche della nostra società, che il ricorrere al ricatto è così diffuso che è diventato quasi un malcostume. Ho cominciato a riflettere su queste tematiche: «perché questo accade, c’è un filo comune?». La risposta è sì, c’è un filo comune. In questo libro si arriva fino alle relazioni personali e di come il ricatto emotivo è uno delle ragioni principali per cui le persone vanno in crisi e per cui così in tanti vanno dallo psicologo. Provo a lanciare un sasso nello stagno per dire: «attenzione, sotto questo fenomeno c’è una crisi valoriale molto forte e se vogliono, stiamo dando ragione a Machiavelli quando diceva il “fine giustifica i mezzi”».

 

Io invece trovo che alla fine non dobbiamo mai trascendere dai nostri fini che devono essere quelli valoriali più nobili, sapendo che ci sarà sempre un’imperfezione. Questo deve essere un anelito molto forte. La diffusione del ricatto come mezzo per raggiungere i propri scopi, in politica è devastante. In politica internazionale è stato obliquo e silenzioso per trent’anni e poi è diventato esplicito con Trump. Non può essere accettato passivamente.

 

Un ricatto politico importante fu quello all’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel 2011.

Terrificante. 

 

In quel periodo oltretutto Berlusconi si portava appresso una costruzione di odio contro la sua figura che nell’opinione pubblica ha giocato a favore di quel ricatto politico che subì. Silvio Berlusconi è stato il primo grande politico a subire ricatti sul piano personale. Prima di lui si cercava di screditare l’avversario più sui fatti e meno su ciò che era la vita privata.

Abbiamo due situazioni diverse. Una è l’uso della privacy per fare lotta politica e questo è molto diffuso e sistematico. Molti personaggi della vecchia classe politica avevano delle amanti e si sapeva, ma nessuno le usava come elemento per screditare la propria moralità. Secondo me era meglio così. Berlusconi, dal punto di vista dell’immagine, è caduto sul «bunga bunga». Però quello che è successo nel 2011 è molto più grave, perché lì c’è stata una manovra di establishment condotta dall’Unione europea con una lettera, oramai famosa, firmata da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, il presidente della BCE uscente e quello entrante. Questo tanto per sottolineare quanto sia patriota il signor Mario Draghi. 

 

Fu un fatto abbastanza grave.

Molto grave, con la complicità di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Lì vennero esercitate delle pressioni molto forti, palesemente ricattatorie, il cui fine era quello di estromettere Berlusconi dalla politica. Cosa che poi è avvenuta. Fu costretto a cedere.

 

Lo spread fu il grimaldello che fece cadere il governo Berlusconi.

Fu un’operazione vergognosa. Purtroppo oggi la politica si esercita molto attraverso questa forma di ricatto.

 

Sbaglio o una volta lei disse, sempre in quel frangente, che Berlusconi fu ricattato perché in una riunione di capi di Stato europei disse di volere far uscire l’Italia dall’Euro?

Questa fu una testimonianza di due giornalisti francesi che scrissero un libro bellissimo anni fa, descrivendo che cosa accadeva davvero durante i consigli europei. E Berlusconi era l’unico che, col fatto che le decisioni erano già tutte prese, ogni delegazione poteva dire qualcosa per pochi minuti, e Berlusconi non ci stava a questa situazione. Vediamo che poi fu fatto fuori.

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Lei parla anche di una perdita di valori che di fatto poi va poi a incrementare questa società del ricatto. Viviamo in una società che esalta la liberà scelta di ognuno di noi, ma osservandoci macro dimensionalmente risultiamo tutti omologati in molti aspetti della vita e financo nell’informazione. Mi consenta, ma vedo anche una scristianizzazione sempre maggiore, mentre la cristianità, al contrario, dovrebbe essere una tradizione quantomeno da tenerla più in considerazione.

Assolutamente sì! Noi siamo in una società sempre più edonistica in cui l’interesse personale è quello che prevale. Si perde il senso dell’interesse collettivo in cui si proietta l’immagine in cui si è felici se uno possiede solo beni materiali e se hai successo. Questo ha fatto sì che la coltivazione di valori religiosi, culturali e di tradizione venissero sempre più messi sotto il tacco e il risultato è quello di una società dove si percepisce una disperazione esistenziale molto marcata. E fondamentalmente tutto questo avviene e si materializza anche sotto la spinta di ricatti sociali. C’è sempre questo concetto che ritorna, anche solo nella gestione delle nostre vicende personali, economiche e nel mondo del lavoro. Qualsiasi cosa tu faccia, hai sempre paura di perdere qualcosa e di finire ai margini. Per cui quando questo diventa diffuso, il risultato è l’omologazione e la pavidità, pensare al tuo particolare e fregandotene della collettività. 

 

Il ricatto lo abbiamo visto e vissuto in era pandemica, dove molta gente è stata costretta a delle scelte obbligate. 

Se volevi conservare il posto di lavoro dovevi vaccinarti. Ciò è stato di una violenza morale incredibile.

 

Oggi sembra che questa cosa passi quasi in cavalleria, a parte qualche voce che tiene vivo questo dibattitto.

La stampa non ne parla, la politica, a parte qualche medico meritevole, va avanti, sul resto cala il silenzio. Fortunatamente negli Stati Uniti ora c’è Kennedy che sta facendo un lavoro enorme facendo uscire informazioni importanti. Come vede però, qui da noi arriva un eco molto affievolito. 

 

C’è una frase nel suo libro La società del ricatto, che le cito: «Solo una visione dall’alto permette di cogliere connessioni che da vicino, quando si è troppo immersi in un contesto, risulta impossibile notare». Credo sia un concetto che si riverbera anche nella cultura; più riusciamo a spaziare nelle nostre conoscenze, più avremo un quadro più ampio e uno spirito critico maggiore. Oggi nella società in cui viviamo c’è una scolarizzazione che determina se una persona è brava o meno, e dove si tende molto di più a specializzarsi. Forse, così facendo, mi pare manchi quella visione che possa portarci a un sano spirito critico. Molta gente rimane troppo spesso impassibile al ragionamento di fronte a importanti fatti di cronaca. 

Da un lato viviamo l’era della specializzazione, il che si perde una visione dall’alto. Vedi la medicina per esempio: un bravo medico è quello che se tu hai un problema a un ginocchio, tanto per fare un esempio, può essere lo specchio di qualcosa di più profondo. I buoni medici son quelli che vedono queste connessioni. La nostra società è questa.

 

D’altro canto, riguardo appunto il COVID, quando usi, attraverso la propaganda, l’arma della paura, che è letteralmente un’arma, puoi ottenere qualsiasi cosa anche dalle persone più intelligenti. Li spaventi dicendogli che c’è un virus e che se non ti vaccini può portarti alla morte, alimentando il tutto con le immagini di persone che muoiono.

 

Lì non è questione di intelligenza o meno: se tu agiti la paura attivi dei meccanismi istintivi e primordiali nell’uomo, per cui anche persone che nella normalità sono brillanti e intelligenti, possono diventare le più appiattite e terrorizzate nel recepire la propaganda, senza rendersi conto, senza nemmeno chiedersi se quella propaganda, se quel che loro credono è frutto di una analisi corretta o se è frutto di una manipolazione. Da qui il ruolo d’importanza della stampa. La stampa dovrebbe essere quella che tira la campanella e dice «Attenzione!» mentre invece nel novanta percento dei casi accompagna la narrativa. 

 

Come vede il giornalismo oggi e quali sono stati, secondo lei, i cambiamenti più significativi negli ultimi decenni?

Il giornalismo si è appiattito sul potere, perché economicamente i giornali e i media hanno difficoltà a mantenersi, per cui se hai un grosso sponsor o un grosso editore, è lui che «suona la musica». Oppure, altra verità di cui non si parla abbastanza, se tu ricevi i fondi pubblici da un governo, dal USAID, tanto per citarne un cosiddetto ente di aiuto per lo sviluppo, o da mecenati che agiscono per conto terzi o ultramiliardari che usano fondazioni, tu suonerai quella musica.

 

Per cui oggi il giornalismo ufficiale ha questo dilemma: una redazione costa un sacco di soldi e se non hai uno che paga, è finita. È veramente un periodo difficile per la stampa. D’altro canto c’è sempre più bisogno di qualcuno che dica o cerchi la verità. Su questo sentimento si dimostra che nella nostra società c’è una parte importante che non si arrende e che si interroga, che cerca una rappresentanza non politica, ma proprio culturale ed editoriale. È un periodo in rapidissima evoluzione. 

 

Lei insegna da anni all’università. C’è vera libertà d’insegnamento negli atenei italiani?

In teoria sì, ma di fatto si verificano i meccanismi che descrivo ne La società del ricatto, cioè ti adegui alle logiche, agli interessi dominanti del tuo settore. Un professore che vuol far carriera, se il mondo accademico spinge verso certi valori più progressisti, il woke, la relativizzazione e la demonizzazione di certe idee, sarà spinto ad adeguarsi. In più, quel che trova conferma in quello che scrissi ne Il sistema (in)visibile, l’università negli Stati Uniti è finanziata in buona parte – in Europa è statale ed è meno marcato questo fatto – da finanziatori che mettono i soldi, per cui son persone che possono indicarti una cattedra, sponsorizzano programmi di ricerca e se uno dona cinquanta milioni di dollari, il rettore dell’università gli stende il tappeto rosso e naturalmente sarà molto sensibile ai suoi desiderata. Ecco perché le università sono diventate degli strumenti molto importanti di formazione di giovani élite e di lavaggio del cervello costante.

 

Negli Stati Uniti c’è stata una recente polemica che ha visto il presidente Trump scontrarsi con i principali atenei dello stato.

Ha avuto ragione Trump. Sappiamo che il governo americano ha finanziato lautamente molte università. A me fa sorridere quando la gente elogia l’America come la terra delle opportunità, della libera imprenditoria e quant’altro. C’è uno stato che dietro le quinte sponsorizza e sostiene anche le università. E Trump a un certo punto ha detto: «Se voi fate dei programmi a cui io non credo, questo governo non vi sostiene più». 

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Prima di volgere alla conclusione dell’intervista, vorrei rivolgere un’altra domanda. C’è un tremendo conflitto in corso in Medioriente. Lei che idea si è fatto? 

Io sono molto critico nei confronti di Israele.

 

Le chiedo scusa, non vorrei sbagliarmi, una parte della sua famiglia ha origini ebraiche, giusto?

Foa è un cognome di tradizione ebraica, ma io sono cattolico. Tornando al conflitto e premesso che io non ho alcuna simpatia per Hamas, il cui cinismo in questi giorni è allucinante. Trattenendo gli ostaggi stanno esponendo scientemente il popolo palestinese a un massacro. Però chi sta facendo questo massacro sono gli israeliani. Di fatto Netanyahu sta applicando i piani della Grande Israele. Netanyahu è figlio di un estremista e fanatico sionista, il cui obiettivo era quello di creare una grande Israele che ha sempre negato il riconoscimento dei palestinesi come popolo. Per lui era una popolazione, è diverso.

 

Tutto questo sta avvenendo sotto i nostri occhi e il prezzo non lo paga tanto Hamas, ma le decine di migliaia di persone uccise, tra cui molti bambini e molte donne, persone che sono in coda per il cibo e vengono bombardate. Alcuni medici americani che sono andati laggiù all’inizio della crisi, hanno fatto le autopsie e visto i cadaveri dei bambini; molti di questi c’avevano dei proiettili in testa. Vuol dire che dei cecchini gli hanno sparato. Ad uno può anche capitare, magari colpito disgraziatamente da una granata e muore, ma se molti hanno dei proiettili in testa, vuol dire che c’è qualcuno gli ha sparato scientemente a questi bambini. Medici che vengono uccisi, ospedali bombardati, giornalisti uccisi.

 

Il fatto che Israele decide, da sempre, quanto cibo e quanta acqua deve entrare a Gaza, e lo decide in maniera atroce adesso. Tutto questo non è moralmente accettabile da parte di uno stato che alle sue fondamenta voleva anche essere una ragione di riscatto per gli orrori subiti durante l’olocausto. Ciò a cui noi stiamo assistendo è un orrore inaccettabile e non ho dubbi da questo punto di vista, ma è anche un tradimento di quelli che dovevano essere i valori dello stato ebraico. Come dicevo prima, Hamas è l’integralismo islamico peggiore e Israele è governata dalle forze più estreme del suo schieramento politico e quel che sta facendo, a mio giudizio, è inaccettabile.

 

A un certo punto ho notato che c’è stata, a distanza di molti mesi dall’inizio delle ostilità israelo-palestinesi, nei media mainstream un’attenzione maggiore per Gaza. Vediamo tanti sedicenti movimenti politici di sinistra o di ONG schierarsi, anche giustamente se vogliamo, per la Palestina. Come la spiega questa questione d’interesse improvviso?

Glielo dico in maniera molto semplice. La sinistra era filopalestinese fino agli anni Novanta, poi è diventata filoisraeliana. Guardi anche come hanno fatto con la Segre erigendola a icona. Quando il 7 ottobre di due anni fa è iniziato tutto, la sinistra era pro-Israele e un po’ tutti lo eravamo, visto l’attacco che ha subito. Quando sono iniziati a uscire i report su quello che stava succedendo nella striscia di Gaza, la sinistra è rimasta silente. Fino a quando con una reazione della società civile, il popolo della sinistra ha visto cosa stava accadendo e ha iniziato a indignarsi.

 

Il cambiamento c’è stato quando i partiti di opposizione hanno capito che su questo terreno il governo Meloni poteva essere messo in difficoltà ed ecco che improvvisamente i vari Conte e Schlein hanno iniziato a schierarsi dalla parte dei palestinesi. È stato un atteggiamento strumentale perché dovevano capitalizzare le difficoltà del governo Meloni e non potevano staccarsi troppo da quello che è il sentimento della loro base. Han detto: «Tanto stiamo all’opposizione, chi se ne frega».

 

Io sono convinto che se loro fossero al governo si comporterebbero esattamente come il governo Meloni. Ci vedo una grande dose di ipocrisia

 

Dottor Foa, la ringrazio.

Grazie a voi!

 

Francesco Rondolini

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Immagine di Medija centar Beograd via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

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Mons. Viganò: l’élite sovversiva ha infiltrato gli Stati

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L’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha partecipato all’appello per la liberazione di Reiner Fuellmich, avvocato tedesco molto attivo durante la catastrofe pandemica.   Sua Eccellenza ha riportato le parole del suo appello, visibile anche in video, in un post su X.   «Una pericolosa élite sovversiva è riuscita a infiltrarsi ai più alti livelli delle istituzioni e dei governi occidentali per attuare il piano criminale dell’Agenda 2030» scrive monsignore.   «In molti Stati autoproclamatisi “democratici”, le voci che denunciano questo colpo di Stato globale vengono messe a tacere attraverso la censura, l’intimidazione, la psichiatrizzazione e persino l’arresto».   «Tra le vittime del regime totalitario che si sta affermando silenziosamente in Europa, Canada, Australia e altre nazioni vassalle delle Nazioni Unite, della NATO, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e del Forum Economico Mondiale (tutte entità private finanziate dagli stessi poteri) c’è l’avvocato Reiner Fuellmich, ingiustamente imprigionato e ancora in attesa di un giusto processo. Il suo crimine è aver osato dire la verità in un mondo di menzogne criminali» dichiara prelato.  

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«Invito i Cattolici e tutte le persone di buona volontà ad alzare la voce in difesa dei perseguitati dal regime globalista. Non è l’avvocato Fuellmich che dovrebbe essere in prigione, ma coloro che hanno commesso il più grande crimine contro l’umanità: Anthony Fauci, Bill Gates, Klaus Schwab, George Soros, Ursula von der Leyen, Albert Bourla, e tutti i loro complici ed emissari, soprattutto quelli che ricoprono cariche istituzionali».   «Liberate Reiner Fuellmich!»   Reiner Fuellmich è un avvocato tedesco, nato nel 1958 a Brema, noto per la sua carriera come specialista in diritto dei consumatori e processuale, con esperienza sia in Germania che in California. Ha studiato legge all’Università di Gottinga e all’Università della California a Los Angeles, ottenendo un dottorato in diritto medico e farmaceutico.   Dal 1985 al 2001 ha lavorato come assistente di ricerca presso il centro di studi sul diritto medico e farmaceutico dell’Università di Gottinga, e ha insegnato in università tedesche ed estoni su temi come il diritto bancario e internazionale privato.   Nel luglio 2020, Fuellmich è diventato uno dei fondatori e portavoce del Comitato Investigativo Corona (Stiftung Corona Ausschuss), un’organizzazione non governativa con sede in Germania, insieme ad altri avvocati. Il comitato ha condotto audizioni con esperti per indagare su «crimini contro l’umanità» legati alla gestione della pandemia, sostenendo che si trattasse di uno «scandalo» orchestrato da governi, OMS e case farmaceutiche.   L’avvocato Fuellmich ha promosso l’idea di un processo stile Norimberga contro figure come Anthony Fauci, Bill Gates e Ursula von der Leyen, raccogliendo fondi e costruendo una rete di oltre 1.000 avvocati a livello internazionale. Fuellmich ha anche guidato un partito politico in Germania, stimato all’8% di consenso in alcuni sondaggi.   Nel settembre 2022, è stato accusato di aver sottratto fondi del comitato attraverso fatturazioni gonfiate per i suoi servizi legali.   Fuellmich ha respinto le accuse come «politicamente motivate» per sabotare il comitato. Un mandato di arresto è stato emesso nel marzo 2023 mentre era in Messico con la moglie; è stato estradato e arrestato all’arrivo a Francoforte il 15 maggio 2023.   Come riportato da Renovatio 21, quattro anni fa Fuellmich aveva intervistato il cardiologo texano Peter McCullough, che aveva accennato a «infertilità e cancro come possibili conseguenze del vaccino». Nel 2021 l’avvocato ricevette dal gruppo Doctors for COVID Ethics una lettera di confutazione all’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) che metteva in guardia rispetto ai vaccini genici sperimentali.   Attualmente Fuellmich, 66 anni, è detenuto in custodia cautelare nel carcere di Rosdorf (Bassa Sassonia), in un penitenziario di massima sicurezza. Il processo per frode e appropriazione indebita è in corso, ma i suoi sostenitori lo descrivono come «prigionia politica» e «persecuzione» per le sue critiche alla gestione pandemica.  

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