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Geopolitica

Buddisti attaccano cristiani in Bangladesh. Chiesa distrutta

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews

 

 

Il gruppo di radicali ha danneggiato l’edificio di mattoni e lamiera. Minacciati i 50 fedeli della Bangladesh Tribal Baptist Church perché tornino al buddismo.

 

 

Gli abitanti del villaggio cristiano di Suandrapara, nel distretto collinare di Rangamati, sono fuggiti dopo aver subito due attacchi da parte di radicali buddisti, che hanno colpito anche la loro chiesa. Sono fedeli della locale Bangladesh Tribal Baptist Church. Il luogo sacro è stato costruita con il finanziamento della Bangladesh Bawm Tribal Baptist Church.

 

L’assistente parroco della chiesa di Suandrapara, il rev. Tubel Chakma Poran Adetion, ha detto ad AsiaNews che i fedeli del luogo vivono nella paura dopo l’attacco degli estremisti buddisti.

 

«Eravamo buddisti e abbiamo incontrato Gesù Cristo nel 2005. A gennaio di quest’anno, abbiamo costruito la chiesa. Ogni giorno ci riunivamo e pregavamo, ma alla maggioranza buddista locale non è piaciuto. Ci hanno attaccato e demolito due volte la nostra Chiesa».

 

«Eravamo buddisti e abbiamo incontrato Gesù Cristo nel 2005. A gennaio di quest’anno, abbiamo costruito la chiesa. Ogni giorno ci riunivamo e pregavamo, ma alla maggioranza buddista locale non è piaciuto. Ci hanno attaccato e demolito due volte la nostra Chiesa».

Il rev. Adetion ha aggiunto che il 12 luglio alcuni radicali buddisti, guidati da Joan Chakma, li hanno avvertiti di abbattere la chiesa entro tre giorni. Chakma è un leader dello United People’s Democratic Front (UPDF), un gruppo politico locale.

 

I membri della Chiesa non hanno ceduto e il 15 luglio il gruppo di Chakma ha attaccato i membri della Chiesa: ha rotto il cancello, la croce e alcune parti della chiesa (v. foto).

 

 

I radicali buddisti hanno intimato poi ai cristiani di interrompere ogni tipo di attività della chiesa e di tornare alla loro vecchia religione buddista: hanno dato di sette giorni per farlo.

 

Il 22 luglio, scaduti i termini, hanno attaccato di nuovo i fedeli e demolito il muro, le porte e i tetti di lamiera dell’edificio.

 

Gli aggressori hanno anche avvertito che se qualcuno riferiva la notizia a qualsiasi media o presentava una denuncia alla stazione di polizia, doveva affrontare conseguenze disastrose.

 

I radicali buddisti hanno intimato poi ai cristiani di interrompere ogni tipo di attività della chiesa e di tornare alla loro vecchia religione buddista: hanno dato di sette giorni per farlo. Il 22 luglio, scaduti i termini, hanno attaccato di nuovo i fedeli e demolito il muro, le porte e i tetti di lamiera dell’edificio

Nessun organo di stampa ha coperto l’accaduto; alcune persone hanno pubblicato però la notizia sui social media.

 

Il rev. Adetion ha raccontato: «Non siamo andati alla stazione di polizia per motivi di sicurezza. Siamo una minoranza e i buddisti ci possono fare qualsiasi cosa. Vogliamo la pace parlando con loro». Ma ha detto che se i radicali non li ascolteranno, alla fine presenteranno causa contro di loro.

 

«I radicali ci hanno detto di distruggere la Chiesa, ma non lo faremo. Se bisognerà sacrificare la nostra vita, lo faremo. Ci minacciano per farci tornare alla nostra vecchia religione, ma non torneremo. Gesù Cristo è il nostro salvatore. Moriremo per Lui», ha dichiarato il rev. Adetion.

 

I dirigenti della Chiesa protestante sono preoccupati.

 

Il rev. Leor P. Sarker, segretario generale della Bangladesh Baptist Church Fellowship (BBCF), organizzazione ecclesiale centrale del Bangladesh di denominazione protestante, ha detto ad AsiaNews di essere informato dell’attacco alla loro chiesa a Rangamati.

 

«I radicali ci hanno detto di distruggere la Chiesa, ma non lo faremo. Se bisognerà sacrificare la nostra vita, lo faremo. Ci minacciano per farci tornare alla nostra vecchia religione, ma non torneremo. Gesù Cristo è il nostro salvatore. Moriremo per Lui»

Egli Ha detto: «Siamo preoccupati per i nostri fedeli. Sono circa 50. Vivono nella paura. La maggior parte di loro è lontano da casa per proteggere la vita dopo l’attacco. Preghiamo per gli aggressori in modo che cambino mentalità e la nostra gente possa vivere lì in pace».

 

Il Rev. Sarker chiede sicurezza per i propri fedeli. Ha riferito che le persone della comunità cristiana di Suandrapara pregavano dal 2005 in una piccola casa. Ma i buddisti radicali non l’hanno presa bene quando i membri della chiesa locale hanno costruito un edificio della in mattoni e lamiera. Ha fatto rabbia. Ora minacciano perché tornino alla loro vecchia religione.

 

Il Bangladesh è un Paese a maggioranza musulmana con 166 milioni di persone, di cui solo lo 0,4% sono cristiani. Missionari locali e stranieri predicano la Parola di Dio in diverse parti del Paese. I nuovi credenti spesso affrontano la persecuzione da parte delle persone della loro vecchia comunità di fede.

 

 

 

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Geopolitica

I talebani contro l’ultimatum di Trump, che rivuole la base aerea di Bagram: sennò «accadranno cose brutte»

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L’Afghanistan ha respinto l’ultimatum del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che esigeva la restituzione della base aerea di Bagram sotto il controllo americano, sostenendo che tali richieste violano l’accordo di Doha del 2020 tra talebani e Stati Uniti sul ritiro delle truppe.

 

Domenica, Trump ha avvertito che, in caso di mancata restituzione della base, «ACCADRANNO COSE BRUTTE!!!» senza specificare ulteriori dettagli. Il leader statunitense aveva precedentemente lamentato la perdita della base da parte di Washington, sottolineandone la vicinanza strategica alla Cina.

 

Più tardi quel giorno, Hamdullah Fitrat, vice portavoce del governo afghano guidato dai talebani, ha dichiarato che Kabul ha ribadito agli Stati Uniti in tutti i negoziati che «l’indipendenza e l’integrità territoriale del Paese sono della massima importanza».

 

«Va ricordato che, in base all’accordo di Doha, gli Stati Uniti si sono impegnati a ‘non usare né minacciare la forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’Afghanistan, né a interferire nei suoi affari interni’», ha affermato Fitrat, esortando gli Stati Uniti a rispettare la loro promessa.

 

 

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«Piuttosto che ripetere gli approcci fallimentari del passato, bisognerebbe adottare una politica di realismo e razionalità», ha aggiunto.

 

La base aerea di Bagram, situata nella provincia di Parwan, a circa 60 km a nord di Kabul, è stata il principale hub militare statunitense in Afghanistan per due decenni, servendo come punto di partenza per operazioni antiterrorismo contro al-Qaeda e lo Stato Islamico. Ospitava anche centri di detenzione, utilizzati in alcuni casi per pratiche di tortura.

 

Con l’accordo di Doha del 2020, gli Stati Uniti hanno negoziato una pace con i talebani, impegnandosi a ritirare gradualmente le proprie truppe dall’Afghanistan e a cessare di minacciare l’indipendenza politica del Paese. In cambio, i talebani hanno garantito che il territorio afghano non sarebbe stato utilizzato da gruppi terroristici.

 

Tuttavia, durante il ritiro graduale delle truppe statunitensi, il governo e le forze di sicurezza afghane sono crollati sotto la pressione dei talebani, costringendo le truppe USA rimaste a gestire un’evacuazione caotica.

 

Da allora, i funzionari talebani hanno dichiarato di essere aperti alla cooperazione con gli Stati Uniti, ma «senza che gli Stati Uniti mantengano alcuna presenza militare in nessuna parte dell’Afghanistan».

 

Ieri il ministro degli Esteri dell’Emirato talebano ha risposto a Trump. «Non daremo agli americani nemmeno un granello del nostro suolo, figuriamoci la base aerea. Se necessario, li combatteremo per altri 20 anni».

 

 

L’ultimatum di Trump ha scatenato una protesta armata fuori dall’ambasciata USA a Kabul.

 

 

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Geopolitica

La Francia espelle due diplomatici del Mali

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La Francia ha disposto l’espulsione di due diplomatici maliani e ha interrotto la cooperazione antiterrorismo con Bamako, in risposta all’arresto, avvenuto ad agosto, di un diplomatico francese nello Stato del Sahel. Lo riportal’Agence France Pass (AFP).   Una fonte diplomatica francese, citata dall’AFP, ha dichiarato che i due funzionari maliani, rappresentanti dell’ambasciata e del consolato a Parigi, sono stati dichiarati persona non grata e hanno ricevuto l’ordine di lasciare il territorio francese entro sabato.   La stessa fonte ha sottolineato che potrebbero essere adottate «ulteriori misure» qualora il cittadino francese detenuto non venga rilasciato al più presto.

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La vicenda ha origine dall’arresto, datato 15 agosto, di un membro del personale dell’ambasciata francese a Bamako. Le autorità maliane hanno accusato Yann Vezilier di agire per conto dell’intelligence francese, tentando di coinvolgere figure politiche, della società civile e militari, tra cui i generali Abass Dembelé e Nema Sagara, per «destabilizzare» lo Stato maliano.   Secondo il ministro della Sicurezza maliano, Daoud Aly Mohammedine, Vezilier sarebbe legato a un «piccolo gruppo di elementi marginali» all’interno dell’esercito maliano.   La Francia ha categoricamente smentito le accuse. In dichiarazioni rilasciate all’AFP il mese scorso, Parigi ha definito le accuse contro Vezilier «infondate» e ha confermato che è in corso un dialogo con le autorità maliane per «chiarire malintesi e ottenere il rilascio immediato» del proprio funzionario.   Ad agosto, il ministro della Sicurezza del Mali, Daoud Aly Mohammedine, ha annunciato un’indagine volta a identificare «possibili complici» di «atti sovversivi» contro Bamako, che coinvolgerebbero «Stati stranieri», a seguito dell’arresto di Vezilier e di numerosi militari maliani.   Le relazioni tra Francia e Mali si sono fortemente deteriorate negli ultimi anni. L’Alleanza degli Stati del Sahel (AES), composta da Mali, Burkina Faso e Niger, ha più volte accusato la Francia di voler sabotare l’organizzazione, spingendo i suoi membri a conflitti interni.   Il leader transitorio del Niger, il generale Abdourahamane Tchiani, ha dichiarato che agenti francesi starebbero collaborando con gruppi ribelli nelle aree di confine con Benin e Nigeria, nell’ambito di un piano coordinato per destabilizzare il Niger e l’intera regione del Sahel.   A inizio anno l’esercito francese ha consegnato la sua base rimanente in Ciad, che era stata l’ultimo punto d’appoggio della Francia nella travagliata regione del Sahel dopo che Mali, Burkina Faso e Niger avevano tagliato i legami con Parigi per presunta incapacità di combattere gli insorti jihadisti – o addirittura, è stato sostenuto da alcuni, di sostenerli e fomentarli.

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A novembre, il governo ciadiano ha posto fine alla cooperazione militare con il suo ex sovrano coloniale, dichiarando il patto ridondante. Il mese scorso sarebbe stato sventato in Ciad un attacco al palazzo presidenziale.   Come riportato da Renovatio 21, cinque mesi fa il Ciad ha negato di aver accettato un ritorno delle truppe statunitensi.   Parigi aveva circa 1.000 soldati in Ciad, che era l’ultimo alleato militare dell’ex potenza coloniale nel Sahel dopo che Burkina Faso, Mali e Niger avevano espulso le truppe francesi per aver presumibilmente fallito nel combattere una mortale insurrezione jihadista nella regione. I tre stati dell’Africa occidentale hanno cercato alleanze alternative, e stretto legami di sicurezza più stretti con la Russia.   La fine definitiva del dominio francese in Africa sembra oramai una realtà storica.

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Cina

Trump blocca l’accordo sulle armi con Taiwano

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di non approvare un pacchetto di armi destinato a Taiwan. Lo riporta il Washington Post, che cita cinque fonti informate.

 

Il giornale ha collegato questa scelta ai tentativi di Trump di negoziare un accordo commerciale con Pechino e al possibile incontro con il presidente cinese Xi Jinping, previsto a margine del vertice APEC in Corea del Sud il prossimo mese.

 

Il pacchetto di armi, valutato oltre 400 milioni di dollari, è stato descritto come «più letale» rispetto alle forniture precedenti. Secondo il WaPo, il team di Trump ritiene che Taiwan dovrebbe procurarsi autonomamente le proprie armi, in linea con l’approccio «transazionale» del presidente in politica estera. Un funzionario della Casa Bianca ha dichiarato al giornale che la decisione non è ancora definitiva.

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Pechino, che considera Taiwan parte integrante del suo territorio, si oppone fermamente a qualsiasi assistenza militare straniera a Taipei. Xi ha ribadito che la Cina punta a una riunificazione pacifica, ma non esclude l’uso della forza.

 

A dicembre, il ministero degli Esteri della Repubblica Popolare ha ammonito Taipei, avvertendo che «cercare l’indipendenza appoggiandosi agli Stati Uniti o con mezzi militari è una via verso l’autodistruzione».

 

Il ministero della Difesa di Formosa ha scelto di non commentare il rapporto, ma ha sottolineato che «Taiwan e Stati Uniti mantengono una stretta cooperazione in materia di sicurezza, con tutti i programmi di scambio che procedono regolarmente per rafforzare un sistema di difesa completo».

 

Negli ultimi anni, Washington ha autorizzato diverse vendite di armi a Taiwan, inclusa la fornitura di sistemi missilistici di difesa aerea NASAMS.

 

Ancora lo scorso dicembre il presidente della Cina comunista Xi Jinpingo ha dichiarato ancora una volta che la riunificazione con l’isola di Taiwano è un processo inarrestabile.

 

Come riportato da Renovatio 21, anche nel discorso di fine anno 2023 lo Xi aveva dichiarato che la riunificazione con Taipei è «inevitabile». Un anno fa, tuttavia, Xi non aveva fatto menzione della forza militare. Il mese prima, il governo cinese aveva epperò chiarito che una dichiarazione di indipendenza da parte di Taipei «significa guerra».

 

Sinora, lo status quo nella questione tra Pechino e Taipei è stato assicurato dal cosiddetto «scudo dei microchip» di cui gode Taiwan, ossia la deterrenza di questa produzione industriale rispetto agli appetiti cinesi, che ancora non hanno capito come replicare le capacità tecnologiche di Taipei.

 

La Cina, tuttavia, sta da tempo accelerando per arrivare all’autonomia tecnologica sui semiconduttori, così da dissolvere una volta per tutte lo scudo dei microchip taiwanese. La collaborazione tra Taiwan e UE riguardo ai microchip, nonostante la volontà espressa da Bruxelles, non è mai davvero decollata.

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Come riportato da Renovatio 21, il colosso del microchip TSMC ha dichiarato l’anno scorso che la produzione dei microchip si arresterebbe in caso di invasione cinese di Formosa.

 

I microchip taiwanesi sono un argomento centrale nella attuale tensione tra Washington e Pechino, che qualcuno sta definendo come una vera guerra economica mossa dall’amministrazione Biden contro il Dragone, che riprendono politiche della precedente amministrazione Trump.

 

Come riportato da Renovatio 21, durante il suo discorso per la celebrazione del centenario del Partito Comunista Cinese nel 2021 lo Xi, mostrandosi in un’inconfondibile camicia à la Mao, parlò della riunificazione con Taipei come fase di un «rinnovamento nazionale» e della prontezza della Cina a «schiacciare la testa» di chi proverà ad intimidirla.

 

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