Economia
Blackout in Giappone?
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews.
La concomitanza di un terremoto e di temperature molto basse ha portato il Giappone orientale sull’orlo di blackout in milioni di abitazioni. Dalle autorità l’appello a risparmiare energia: spente insegne, termostati abbassati e luci abbassate persino negli studi tv. Ma il problema della carenza di elettricità è strutturale.
Il Giappone orientale ha fatto i conti in questi giorni con la più grave crisi energetica dell’ultimo decennio.
Per il momento il rischio di un blackout diffuso sembra rientrato, ma i cittadini della capitale hanno vissuto tre giornate movimentate, con tanto di richiesta da parte delle autorità di risparmiare sul consumo di elettricità.
A inizio settimana, infatti, lo squilibrio tra domanda e offerta di elettricità nella zona di Tokyo e del Tohoku (una regione che comprende le prefetture nord-orientali del Paese) aveva paventato il rischio concreto di un blackout in tutta la regione
La crisi energetica è dovuta a una particolare concomitanza di fattori avversi, alcuni dei quali erano ben noti alle autorità giapponesi.
Già durante l’inverno le aziende produttrici e il governo avevano iniziato a tenere sott’occhio le ristrettezze del mercato energetico, dove la domanda di elettricità aveva quasi saturato le capacità massime di fornitura.
Una prima avvisaglia della crisi si era verificata lo scorso 16 marzo, quando un terremoto di magnitudo 7,4 ha scosso la costa nord-orientale del Giappone e costretto diversi impianti per la produzione di elettricità a sospendere le attività.
L’immediata riduzione della produzione di energia elettrica ha obbligato le autorità a interrompere la fornitura di elettricità in diverse sottostazioni della regione lo scorso 17 marzo per evitare che lo sbilanciamento della domanda-offerta causasse un blackout su tutta la rete.
Le interruzioni però sono durate solo poche ore e durante la mattinata la fornitura è stata ripristinata a praticamente tutte le 2,23 milioni di abitazioni colpite.
Il brusco peggioramento del meteo a inizio settimana, con temperature che a Tokyo sono tornate a rasentare gli 0 C°, ha riportato in auge il problema della ristrettezza dell’offerta di energia.
Gli impianti chiusi dopo il terremoto della settimana scorsa hanno causato una perdita della capacità di fornitura elettrica pari a 4,54 gigawatt mentre il cielo nuvoloso di questi giorni ha ostacolato la produzione di energia solare.
Lunedì sera, quando l’utilizzo di elettricità da sorpassato il 97% della capacità di fornitura, la Tokyo Electric Power Company (TEPCO) e la Tohoku Electric Power Company sono corse ai ripari e il ministro dell’economia Hagiuda Koichi ha lanciato l’allarme, invitando cittadini e imprese a ridurre il consumo di energia per evitare di dover ricorrere a interruzioni.
L’appello però ha ottenuto risultati molto al di sotto delle aspettative e nel pomeriggio del 22 marzo Hagiuda ha organizzato in fretta un’altra conferenza stampa per invitare di nuovo al risparmio, abbassando i termostati e spegnendo le luci non necessarie.
Nel frattempo, TEPCO riportava che se il rapporto domanda-offerta di energia non fosse sceso dal 107% del primo pomeriggio, durante la serata 2-3 milioni di abitazioni nell’area della capitale avrebbero dovuto subire un’interruzione di corrente.
A Tokyo e nelle prefetture circostanti la crisi è stata ben visibile la sera di martedì, quando moltissimi locali hanno spento le proprie insegne luminose e l’iconica Tokyo Tower è rimasta al buio, mentre anche la TV pubblica ha ridotto l’illuminazione in studio.
Il governo cittadino di Tokyo invece ha impostato i termostati dei propri uffici a 19 C°.
Con un rapporto domanda-offerta sceso al 93% la mattina di mercoledì, il governo ha ritirato l’allarme.
Tuttavia l’attenzione rimane alta e il governo continua a invitare al risparmio, sottolineando così ancora una volta la vulnerabilità del paese sul fronte energetico.
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Immagine di burningmonk via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-NC-ND 3.0)
Economia
Hollywood al capolinea: Netflix vuole comprare Warner Bros
Netflix avrebbe raggiunto un accordo per acquisire Warner Bros., inclusi i suoi studi cinematografici e televisivi, HBO e HBO Max, attraverso una transazione mista in contanti e azioni che valuta Warner Bros. Discovery a un valore aziendale di 82,7 miliardi di dollari (valore azionario di 72 miliardi di dollari), pari a 27,75 dollari per azione.
L’intesa dovrebbe essere finalizzata nel terzo trimestre del 2026, dopo lo scorporo programmato da parte di WBD della sua divisione Global Networks in una società quotata autonoma («Discovery Global»). Questa operazione giunge a pochi mesi dalla proposta avanzata da Paramount-Skydance per rilevare WBD.
L’accordo tra Netflix e WBD fonderà la piattaforma di streaming con un catalogo secolare e con franchise iconici come i supereroi della DC Comics, Harry Potter, Game of Thrones, I Soprano e The Big Bang Theory.
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In una nota ufficiale, Netflix ha dichiarato che l’operazione espanderà la sua library di contenuti, potenzierà le capacità produttive e favorirà una crescita sostenibile nel lungo periodo: «fornendo agli utenti una gamma più vasta di serie e film di alto livello, Netflix si attende di conquistare e trattenere un maggior numero di abbonati, incrementare l’engagement e generare entrate e profitti operativi aggiuntivi. L’azienda prevede inoltre di conseguire risparmi sui costi per almeno 2-3 miliardi di dollari annui entro il terzo anno e che la fusione avrà un effetto positivo sull’utile per azione GAAP già a partire dal secondo anno».
Secondo i termini dell’accordo, ogni azione WBD sarà convertita in 23,25 dollari in contanti più 4,50 dollari in azioni Netflix. I board di entrambe le società hanno approvato l’operazione all’unanimità.
La chiusura è attesa tra 12 e 18 mesi, subordinata all’esame regolatorio e all’ok degli azionisti di WBD. All’inizio dell’anno, Netflix ha superato le controfferte, tra cui quelle di Paramount-Skydance e Comcast.
Bloomberg ha rilevato che Hollywood non accoglie con entusiasmo questo nuovo connubio tra Netflix e WBD.
Warner Bros. Discovery ha avviato negoziati esclusivi per cedere i suoi studi cinematografici e televisivi insieme a HBO Max a Netflix, stando a fonti interne alla major – un’indicazione che il colosso dello streaming ha avuto la meglio su Paramount-Skydance e Comcast. Un’intesa del genere ridisegnerebbe il settore dell’intrattenimento e rappresenterebbe un turning point strategico per Netflix, già leader per capitalizzazione a Hollywood. Paramount ha bollato il processo di cessione come «contaminato», mentre l’attrice Jane Fonda, due volte premio Oscar, ha descritto il suo potenziale effetto sull’industria con un aggettivo più severo: «catastrofico».
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Nata come servizio di noleggio DVD via posta, Netflix ha prima annientato la catena Blockbuster e ora sta replicando il colpo con Hollywood, snobbando in larga misura le uscite cinematografiche in sala. L’accordo catapulterebbe Netflix al rango di superpotenza negli studi hollywoodiani. Tuttavia, il tutto resta appeso all’approvazione dei regolatori, con il repubblicano californiano Darrell Issa che ha già espresso opposizione a qualsivoglia acquisizione di Warner Bros. da parte di Netflix.
L’industria cinematografica è minacciata dall’avvento dell’IA, che potrebbe presto consentire a chiunque di produrre contenuti di livello cinematografico in un click, disintegrando un’intera filiera di lavoratori che vanno dagli attori ai cineoperatori, agli addetti al casting, agli elettricisti, registi, etc.
Si spiega così la corsa di Netflix verso le IP, cioè le proprietà intellettuali: avere un personaggio conosciuto e diffuso come, ad esempio Harry Potter, anche nell’era del cinema generato dall’AI potrebbe avere un valore strategico ed economico.
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Immagine di Fourbyfourblazer via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0
Economia
L’ex proprietario di Pornhub vuole acquistare le attività del gigante petrolifero russo
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Economia
La BCE respinge il ladrocinio dei fondi russi congelati proposto dalla Von der Leyen
La Banca Centrale Europea ha declinato di avallare il progetto della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen per un finanziamento di 140 miliardi di euro a beneficio dell’Ucraina, da assicurare mediante i patrimoni russi immobilizzati. Lo riporta il Financial Times, attingendo a fonti informate sui negoziati.
Il quotidiano britannico ha precisato che la BCE ha ritenuto l’iniziativa della Commissione – che fa leva sugli attivi sovrani russi custoditi presso Euroclear, la società depositaria belga – estranea al proprio ambito di competenza.
Bruxelles ha impiegato mesi a sondare l’utilizzo delle riserve congelate della banca centrale russa per strutturare un «mutuo di indennizzo» da 140 miliardi di euro (equivalenti a 160 miliardi di dollari) in appoggio a Kiev. Il Belgio ha più volte espresso allarmi su potenziali controversie giudiziarie e pericoli finanziari in caso di attuazione del meccanismo.
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In base alla bozza elaborata dalla Commissione, i governi degli Stati membri dell’UE offrirebbero garanzie pubbliche per distribuire il peso del rimborso del prestito ucraino.
Tuttavia, i rappresentanti della Commissione hanno segnalato che i Paesi UE potrebbero non riuscire a reperire celermente risorse in scenari di urgenza, con il pericolo di generare turbolenze sui mercati finanziari.
A quanto risulta, i funzionari UE hanno sollecitato alla BCE se potesse intervenire come prestatore estremo per Euroclear Bank, la branca creditizia dell’ente belga, al fine di scongiurare una carenza di liquidità. Gli esponenti della BCE hanno replicato alla Commissione che tale opzione è impraticabile, ha proseguito il Financial Times, basandosi su interlocutori vicini alle consultazioni.
«Un’ipotesi di tal genere non è oggetto di esame, in quanto verosimilmente contravverrebbe alla normativa dei trattati UE che esclude il finanziamento monetario», ha chiarito la BCE.
Bruxelles starebbe ora esplorando vie alternative per assicurare una provvista temporanea a supporto del mutuo da 140 miliardi di euro.
«Assicurare la liquidità indispensabile per eventuali obblighi di restituzione dei beni alla banca centrale russa costituisce un elemento cruciale di un eventuale mutuo di indennizzo», ha dichiarato FT, citando un portavoce della Commissione.
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La direttrice di Euroclear, Valerie Urbain, ha ammonito la settimana scorsa che l’iniziativa verrebbe percepita a livello mondiale come una «espropriazione delle riserve della banca centrale, che erode il principio di legalità». Mosca ha reiteratamente definito qualsiasi ricorso ai suoi attivi sovrani come un «saccheggio» e ha minacciato ritorsioni.
L’urgenza del piano si inserisce in un frangente in cui l’UE, alle prese con vincoli di bilancio, deve reperire risorse per Kiev nei prossimi due anni, aggravata dalla congiuntura di liquidità critica ucraina, con gli sforzi per attingere ai fondi russi che si acuiscono mentre Washington avanza una nuova proposta per dirimere il conflitto. Gli analisti prevedono che l’Ucraina affronterà un disavanzo di bilancio annuo di circa 53 miliardi di dollari nel quadriennio 2025-2028, al netto degli stanziamenti militari extra.
L’indebitamento pubblico e garantito dal governo del Paese ha raggiunto picchi storici, oltrepassando i 191 miliardi di dollari a settembre, ha comunicato il Ministero delle Finanze. Il mese scorso, il Fondo Monetario Internazionale ha aggiornato al rialzo le stime sul debito ucraino, proiettandolo al 108,6% del PIL.
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Immagine di © European Union, 2025 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International
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