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Blackout, attacchi cibernetici, guerra civile: i film del «Predictive Programming» sono qui

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L’8 dicembre su Netflix è uscito un film a lungo annunciato. Si tratta di Il mondo dietro di te, opera del regista egiziano-statunitense Sam Esmail, autore dell’acclamata serie Mr. Robot.

 

Trailer e tam-tam sulla stampa avevano creato grande attesa per la pellicola, sostenuta da un cast stellare. C’è la regina dell’A-List (ovvero, la vetta degli attori più pagati ad Hollywood) Julia Roberts, il cui volto pare un po’ cambiato, tanto che in certe inquadrature, a guardarle il mento, vengono in mente certi quadri di Picasso.

 

C’è il meno pagato, ma forse più amato dal pubblico della Generazione X, Ethan Hawke.

 

C’è, inevitabilmente Mahersala Ali, sul quale vale la pena di dire due parole, anche perché molti lettori non lo conoscono, ma se lo ritrovano dappertutto: è l’attore musulmano nero finito nell’ultimo decennio in ogni possibile film, già due premi Oscar, uno dei quali per Moonlight (2016), pellicola a tema omosessuali neri anche giovani che rubò – nel momento più basso della storia del premio – l’Oscar al capolavoro La La Land.

 

Il Mahersala compare ovunque serva un nero che debba sembrare «figo», e di fatto ad un certo punto del film anche la Julia Roberts vuole fare un giro – era inevitabile (si tratta in verità un pattern cinetelevisivo, che qualcuno chiama «Bull», di cui non parleremo ora).

 

La storia racconta di una famiglia di Nuova York – marito, moglie, figlio figlia figli adolescenti – che affittano per un weekend una stupenda casa fuori città, tra i boschi vicino alla costa di Long Island. Strane cose cominciano ad accadere: una immensa nave si spiaggia davanti a loro, i telefoni, internet stessa, non funzionano più. Così di sera ricevono la visita di un elegantissimo uomo di colore (il Mahersalo) con sua figlia, anche lei tiratissima.

 

L’uomo chiamato G.H., di squisita gentilezza, dice di essere il padrone di casa, e racconta che erano andati in città per un concerto di musica classica, quando l’intera città è andata in Blackout. Riconoscendo che l’affitto era già stato pagato, il ricco afroamericano chiede quindi di dormire nel suo scantinato, che è raffinatissimo anche quello.

 

 

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Seguono spoiler che però non so quanto vi rovinino un film davvero noioso e mal riuscito, che vale pochissimo.

 

Apprendiamo, da un lampo di internet momentaneamente ripristinata da un satellite per poi sparire, che gli USA sarebbero stati vittime di un attacco di epiche proporzioni. Tutto il Paese è andato offline. Nessuno sa davvero cosa sta succedendo: ogni famiglia, ogni persona, è isolata. Si possono solo fare congetture sul macello di caos in cui si possono essere trasformate le città.

 

Si aggiunge l’inquietante fenomeno di un suono fortissimo che si ripete più volte, talmente roboante da spaccare i vetri e fare urlare le persone prostrate con le mani a chiudere le orecchie.

 

Cosa sta succedendo? È una guerra? Con chi? Russia? Cina? Iran?

 

Apprendiamo che il G.H., che nel frattempo testimonia lo schianto al suolo di vari aerei, in realtà sa qualcosa più degli altri. O meglio, intuisce. Uomo che lavora in finanza, dice di aver un cliente famosissimo, appartenente all’apparato militare-industriale, un personaggio gioviale che lo aveva preso in simpatia, e che talvolta gli comunica ridacchiando che ogni tanto si trova con la sua «cricca che governa il mondo».

 

Nell’ultima telefonata, il ricco cliente chiede al broker di spostare una considerevole somma di danaro, un atto di per sé incomprensibile. Questa volta non ride. Quindi, è comprensibile che sapeva di qualcosa che stava per succedere.

 

Ma quindi è stato lui con la cabala globale ad ordire questo? Macché, ribatte subito il nero: quelli hanno solo magari delle avvisaglie, nessuno veramente controlla il mondo, assicura (tra qualche riga forse capirete anche perché in questo film spunta fuori un concetto del genere).

 

Alla fine del film, l’elegante, saggio e generoso uomo di colore molla un’ulteriore rivelazione ai babbani bianchi: il suo cliente dell’élite finanziario-politico-militare lo aveva avvertito del fatto che circolava uno studio sulla strategia con la quale un nemico potrebbe produrre la distruzione di un Paese attraverso una dirompente «manovra in tre fasi».

 

Prima fase: attacchi informatici, isolamento delle persone con interruzioni di corrente e satellitari.

 

Seconda fase: seminare il «caos sincronizzato» con campagne di disinformazione, come certi volantini con la scritta in arabo «Morte all’America» che alcuni droni si mettono a sganciare per strada.

 

Terza fase: la guerra civile. «Perché se la nazione presa di mira fosse sufficientemente disfunzionale, in sostanza, farebbe il lavoro per te», afferma G.H. dice. «Chiunque abbia iniziato, vuole che lo finiamo».

 

Il film finisce senza tante ulteriori spiegazioni, né colpi di scena, né crescite dei personaggi, né catarsi narrative di qualche tipo. Come se ci stessero semplicemente telegrafando delle scene, senza troppo bisogno di fare spettacolo.

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È interessante andare a vedere chi è l’autore del romanzo da cui è tratto: il giornalista bengalese-statunitense Rumaan Alam, affiliato alla rivista progressista Slate, fondata a fine anni Novanta sotto la Microsoft e poi passata al gruppo del Washington Post, cioè Bezos, Amazon. L’Alam ha «sposato» un fotografo con cui, secondo la stampa, starebbe crescendo due figli, venuti da dove non sappiamo.

 

Più notevole ancora è vedere nei titoli di testa i nomi, come produttori della pellicola, di Barack e Michelle Obama.

 

Eh?

 

Scusate, non capiamo bene: l’ex presidente, tanto amato dalla sinistra americana, il primo inquilino della Casa Bianca di colore (forse anche il primo che probabilmente viene da una famiglia interamente alla CIA; forse anche il primo che potrebbe essere omosessuale) produce un film apocalittico sulla fine dell’America?

 

L’ex vertice degli USA finanzia un film dove è possibile vedere gli USA distrutti, cancellati nel modo più doloroso possibile?

 

Eravamo rimasti ad Obama che, temendo il global warming e il conseguente innalzamento delle maree, si era comperato una mega-magione in riva al mare a Martha’s Vinyard, praticamente il luogo più esclusivo del pianeta, dove dà festoni cine-brivido a base di COVID e dove talvolta qualche giovane aitante cuoco viene trovato morto annegato, come del resto capita anche ad altri cuochi della storia recente della Casa Bianca.

 

E invece, eccotelo: Obama finanzia la pellicola più disforica e tetra dell’anno, che colpisce direttamente l’ethos americano, anzi lo disintegra raccontandoci la storia che Davos e altri continuano a ripetere senza requie: è in arrivo il cyberattacco del secolo, è in arrivo la ciber-pandemia.

 

Che poi, la presenza di Obama che mette il soldo (cioè, mette il nome, altri poi schiacciano sulla fiducia del presidente cool) si capisce da certi dettagli che emergono nel film.

 

Innanzitutto, momento di razzismo puro: la figlia nera dice al padre nero che in quel momento la cosa giusta da fare è stare lontani dai bianchi. Lui non fiata e la accarezza. Julia Roberts, prima di fare un pensierino riguardo ad uno zompo col G.H., ha tempo di intavolare un germe di autoaccusa per il suo razzismo interiorizzato, automatico, sistemico. E poi continua a ripetere, che la gente è orrenda.

 

Va segnalato anche come il personaggio del prepper (interpretato da Kevin Bacon), ossia il vicino di casa operaio che, a differenza degli altri, è preparato per l’apocalisse, beni alimentari, armi e medicine e quant’altro, sia di fatto squalificato – pure quando ci ha ragione – come un paranoico e infine un corrotto.

 

Poi il tocco più attuale: le strade vengono intasate da migliaia di Tesla che vengono hackerate per tamponarsi l’una con l’altra, bloccando tutto e creando un pericolo per chiunque stia in mezzo. Come non riconoscere la stoccata a Elon Musk, vecchia conoscenza di Obama (che lo ha finanziato con danaro pubblico proprio per la Tesla) che però ora pare passato dall’altra parte.

 

L’apparente dissonanza cognitiva può salire di intensità: Obama produce un film che parla degli albori di una guerra civile. Sappiamo che l’argomento è caldo: soprattutto un paio di anni fa, come registravamo su Renovatio 21, scappava a tanti di parlarne. Analisti, politici investitori miliardari, poi Trump, perfino Biden. Tuttavia, far circolare diecine di milioni di dollari per vedersela rappresentata plasticamente in esplosioni a fungo sopra Nuova York, con la più pagata attrice di Hollywood a guardare per noi, è decisamente next-level.

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La guerra civile annunciata ci porta all’ulteriore pezzo del puzzle uscito l’altro ieri.

 

È stato pubblicato il trailer di un film chiamato semplicemente, brutalmente Civil War. Guerra civile. Il sottotitolo recita: ogni impero cade. In questo caso stiamo parlando ovviamente dell’impero americano, e di una Seconda Guerra Civile USA.

 

In questo caso il film non è ancora visibile: uscirà nelle sale la prossima primavera. Tuttavia le immagini dicono tutto: l’America è sconvolta da una guerra civile, file di profughi che spingono trolley su strade polverose, militari che sparano ovunque, F-35 che attaccano civili a terra, i palazzi di Washington bombardati, giornalisti sconvolti e bambine messi in ginocchio per un’esecuzione.

 

Si riesce a capire poco della trama. Sembra di capire che Washington e il suo presidente viscido-mellifluo siano in guerra con una ventina di Stati che hanno dichiarato la secessione, tra cui un’alleanza tra il Texas e la California – cosa che ha fatto sorridere molti utenti in rete, visto che è più probabile un’alleanza tra Pisa e Livorno: si tratta di due Stati diametralmente opposti, tanto che dalla democratica e fallita California tantissimi (incluso lo stesso Musk e la sua industria) stanno emigrando nel prospero Texas dei conservatori.

 

Perché stanno combattendo? Quale l’oggetto del contendere? Ad oggi non è dato saperlo. Forse non rivelerà nemmeno il film, più interessato a mostrare il massacro tra concittadini. Ad un certo punto, tuttavia, si vede un signore di razza non distinguibile che mira con un fucile automatico: ha i capelli di vari colori sintetici, così come lo smalto sulle unghie… un indizio? La resistenza sarà fatta di trans e goscisti woke? Rimaniamo col dubbio.

 

Il trailer è davvero ben fatto, ritmato, immaginifico, a suo modo esaltante. Il regista è il romanziere britannico Alex Garland, già noto per la storia di The Beach con Di Caprio e soprattutto per la pellicola sull’Intelligenza Artificiale Ex Machina, davvero ottima.

 

 

Civil War sta venendo linciato a scatola chiusa dalle orde del MAGA, comprese quelle più raziocinanti. Fecero lo stesso, nell’anno dell’elezione fatale di Biden, per il film The Hunt, che raccontava di un gruppo di ricconi liberal che rapiva una quantità di popolani conservatori (chiamati proprio «deplorables», come da immortale definizione di Hillary Clinton) per massacrarli senza pietà in una caccia selvaggia. Il film, pur fatto da liberal hollywoodiani, forniva non pochi elementi di pesante satira contro la stessa sinistra dei ricconi, che di fatto veniva pure quella sterminata.

 

Il caso di Civil War è diverso. Si tratta, probabilmente, del primo film che mette in piedi la rappresentazione di una Guerra Civile USA in era moderna con i mezzi del grande cinema. Pellicole passate, come La seconda guerra civile americana (1997) erano più film semicomici con un messaggio corrosivo sul pericolo della distorsione della realtà media. Qui invece i media non c’entrano più: gli stessi giornalisti sono divenuti carne da macello.

 

Insomma, due grandi produzioni, dove pure è coinvolto un ex presidente americano, sembrano parlarci di eventi massivi che sconvolgono la società americana (e quindi, mondiale…). Ciber-attacchi, guerra civile… messi in bella copia, messi in nitide immagini cinematografiche dopo essere stati ripetuti da media e politici e «esperti vari», talvolta sussurrando, talvolta gridando.

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È a questo punto che bisogna parlare di Predictive Programming. La «programmazione predittiva» è una teoria non verificabile, ma ci è impossibile non dire che non sia già verificata.

 

Secondo l’idea del Predictive Programming, il potere – sia esso governativo, finanziario oligarchico, etc. – utilizza cinema, serie e libri di narrativa come mezzo di controllo mentale, o meglio, di preparazione psicologica della massa: mostrando in forma di fiction ciò che sta per accadere (cioè, cioè che si vuole che accada, cioè che accade per disegno) la popolazione diviene più disposta ad accettare gli eventi futuri pianificati dal potere stesso.

 

Ne parlò per primo il ricercatore Alan Watt, che nei decenni scorsi ne ha parlato in diverse trasmissioni radiofoniche e podcast; solo ora molti paiono convincersi della profonda verità delle sue tesi.

 

Per Watt «la programmazione predittiva è una sottile forma di condizionamento psicologico fornita dai media per far conoscere al pubblico i cambiamenti sociali pianificati che devono essere implementati dai nostri leader. Se e quando questi cambiamenti verranno attuati, il pubblico li conoscerà già e li accetterà come progressioni naturali, riducendo così la possibile resistenza e agitazione del pubblico».

 

È facile per molti ricordare il film Contagion (2011), che dieci anni prima dell’accaduto mostrava per filo e per segno cosa sarebbe arrivato con la pandemia: lockdown totali, panico nelle strade, la corsa al vaccino sperimentale, la punizione dei dissidenti complottisti (che per il film sono falsi e corrotti). New York nel 2020 rispettò a tal punto la trama del film del decennio precedente che fece sapere al mondo che si era arrivati al livello delle fosse comuni.

 

Incredibile vedere oggi, nel finale di Contagion, che il virus della storia sarebbe saltato fuori in Cina passando da un pipistrello ad un maiale all’uomo: esattamente la teoria dello spillover, inflittaci a suon di censure sino a che quella della fuga del patogeno dal laboratorio non è divenuta innegabile, nel frattempo tuttavia erano stati soffocate milioni di voci (compresa quella di Renovatio 21) e istituito l’apparato industriale di censura ancora in attività, anzi ora istituzionalizzato da leggi come il Digital Service Act dell’Unione Europea.

 

Contagion, rammentiamo, fu messo in piedi dal regista Soderbergh con il cast più stellare mai visto a partire da documenti di preparazione pandemica dell’OMS, che partecipò al progetto.

 

Ma ci sono esempi di Predictive Programming perfino più vicini nel tempo – e sconvolgenti.

 

Nel 2022 Netflix lancia un film tratto da un romanzo di Don Delillo, White Noise, dove la storia ruota intorno alle conseguenze di un catastrofico incidente ferroviario che scatenava una nuvola di rifiuti chimici tossici su una piccola cittadina dell’Ohio. A fine gennaio 2023, a East Palestine, in Ohio, un treno carico di sostanze tossiche deraglia creando il più grande disastro ambientale americano degli ultimi anni.

 

Il tutto, sì, proprio nella zona dove era stato ambientato, e girato, White Noise. Alcune dei cittadini di East Palestine vittime del disastro chimico avevano partecipato come comparse al film. Coincidenza significativa – così come quella per cui, si è appreso, ka cittadina di East Palestine poco prima aveva lanciato ufficialmente un programma pilota di ID digitale chiamato MyID.

 

Potremmo andare avanti con tanti altri esempi, ma è chiaro che in tanti resterebbero fissi nei loro sorrisetti: siete paranoici, siete complottisti… un film è un film, e basta.

 

Soprattutto questa ultima idea è una sciocchezza che squalifica chi ci crede: anche se non sono visibili in superficie (talvolta, in realtà, sì) i rapporti tra Hollywood e lo Stato americano (soprattutto con l’Esercito, la CIA, lo Stato profondo) sono solidi, radicatissimi, sono fondamentali per la sopravvivenza del cinema americano. Tanti kolossal (Transformers, Top Gun) paiono spot di reclutamento dell’esercito, o ancora peggio réclame per determinati armamenti prodotti dal complesso militare industriale.

 

Il legame tra l’Intelligence e la Mecca del cinema è perfino dichiarato in un film come Argo (2013) – ovviamente premiato con l’Oscar – dove il protagonista-regista Ben Affleck mostra con dovizia di particolari come il connubio sia rodato, e noi ci ricordiamo che la prima moglie dell’Affleck, Jennifer Garner, pochi anni prima spopolava in TV con una serie cretina, Alias, dove interpretava una invincibile agente CIA.

 

La quantità di idee, concetti, sentimenti, che il potere profondo ha veicolato occultamente tramite il cinema è ad oggi sconosciuta. Non sappiamo quante delle cose che ci hanno piantato in mente con un bel film al cinema siano in realtà originate dai programmi dei padroni del mondo, che sono solitamente programmi di morte.

 

Ora, riconosciamolo, siamo il punto in cui il pudore viene sempre meno. Quindi eccoti che a mostrare la futura guerra civile americana è il loro stesso ex presidente. Eccoti che ti parlano della grande catastrofe cibernetica in arrivo.

 

Azzereranno Internet, niente più andrà, chissà per quanto. Poi, dopo non sappiamo quale caos di terrore e atrocità (l’anarco-tirannide per le quali scafisti, Stati, super-Stati e ONG hanno portato abbondante manovalanza), ripristineranno tutto, epperò stavolta con una soluzione: per far funzionare il mondo cibernetico, bisognerà che esso divenga ancora più cibernetico, e cioè, etimologicamente, basato sul controllo.

 

Cioè: quando vi ridaranno la tecnologia esplosa con il disastro di questa ciber-pandemia, vi diranno che dovrete sottomettere la vostra esistenza alla biosorveglianza elettronica più fitta, altrimenti si ha il rischio che la catastrofe accada di nuovo. Tutto sarà controllato, registrato, manipolato: sapete come la pensa Klaus Schwab, perfino i vostri pensieri diverranno leggibili, dovranno essere scansionati quando andate all’aeroporto.

 

Questo progetto è vecchio di secoli, o di millenni, se considerate che nella Repubblica Platone teorizza esattamente la tecnocrazia.

 

Ci lavorano da tanto, tanto tempo, mentre noi ci facciamo turlupinare dalle storie dell’industria culturale, e con i popcorni sulle ginocchia, a sera spegniamo il cervello nei film, che poi film non sono: sono programmi, il cui codice prevede la nostra sottomissione, la nostra schiavitù la nostra estinzione.

 

 

Roberto Dal Bosco

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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