Pensiero
Berlusconi ha difeso la vita umana più dell’arcivescovo che ne ha celebrato il funerale

Permettetemi di definire oscena l’omelia di monsignor Delpini, l’arcivescovo di Milano che ha celebrato il funerale di Silvio Berlusconi.
Qualcuno ha detto che era ambigua, che poteva leggersi in vari modi. A me invece è sembrato che tutto fosse chiarissimo. E drammatico, errato, insolente, disperante.
L’arcivescovo di Milano ha fatto la sua predica, che per qualche ragione è circolata immediatamente pure via Whatsapp in PDF, sfogliando e leggendo a testa china: ci rendiamo conto di vivere nell’era in cui chiedere ad un vescovo di parlare a braccio ad un funerale di Stato sia troppo.
È bizzarro: sappiamo come le omelie funebri dopo il Concilio siano divenute delle santificazioni per direttissima del caro estinto, al punto che a fine messa invitano pure qualche conoscente a caso a dire quanto era buono il defunto. Eulogi, cabaret funebre. Etc.
Non sembra essere questo il caso. Il Delpini ha tenuto tutt’altra linea.
«Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari».
Si dice che qui un famigliare abbia scosso la testa. Siamo d’accordo Ma di cosa sta parlando lo zucchetto?
Chiunque sa che nelle sue aziende molto raramente si veniva licenziati. Quando per lavoro anni fa passai per Cologno Monzese, trovai dei dipendenti che dicevano che sì, oramai quel posto era un ministero, e che forse c’era personale in eccesso, ma che importa: tutti quelli che ho visto erano felici di lavorare lì. Erano sicuri, protetti, in pace.
E poi, come anche solo suggerire che Berlusconi non si fidava troppo degli altri, e che gli altri non si fidavano di lui? Fiducia e gratitudine erano una cifra evidente del personaggio. Come può Delpini non aver presente l’abnorme, talvolta eccessiva gratitudine verso le persone che hanno lavorato con lui? Mike Bongiorno, Sandra e Raimondo, Iva Zanicchi messi ad vitam su Rete4, forse per riconoscenza per aver creduto in lui agli esordi… e uscendo dalla TV, come non aver presente Ennio Doris (che da sconosciuto presentò un’idea a Berlusconi intercettandolo a Portofino, e fu ascoltato), Marco Van Basten (che gli mandava telegrammi alle vittorie rossonere: «milanista per sempre»), Sacchi, Capello, Maldini, Costacurta e pure figure intellettuali come Antonio Martino, Gianni Baget Bozzo, Marcello Pera, Lucio Colletti che aderirono al suo progetto politico?
«Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte» ha proseguito l’arcivescovo. «Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta».
Qui cominciamo a capire dove vuole andare a parare. Il prelato riconosce che il personaggio è «divisivo», aggettivo che piace a quella CEI affiliata da lustri al PD e al network democristiano che ha portato l’Italia al collasso morale e biologico. Monsignore riconosce che davanti a sé ha un pubblico che potrebbe non amare un discorso che, come si usa nella modernità della Chiesa in uscita, parli solo bene dell’illustrissimo defunto.
Eppure, guardiamo i volti fra le navate del Duomo, e ci rendiamo conto che davvero pochi lì non debbano la loro carriera, o scatti di essa, alla sua presenza, alla sua azione diretta o indiretta. La Meloni fu lanciata come ministro nel governo Berlusconi, e fece parte del suo partito il PDL. Draghi, che pure si racconta l’aveva silurato nel 2011 con la famosa letterina che la BCE recapitò a Silvio per spianare la strada al tecnocrate Monti, è stato premier perché Forza Italia lo ha (purtroppo) votato. E poi quanti calciatori e allenatori (vincitori di sfide straordinarie, campioni veri), quanti giornalisti, starlettes, vedettes, manager assortiti e creature del sottobosco presenti alle esequie gli devono tutto – ma proprio tutto?
C’è il presidente della Repubblica, quello a fianco dell’emiro del Qatar al-Thani (uno, nonostante la montagna di morti dei mondiali di calcio, da tenersi buono, visto che l’Italia – antiberlusconianamente – si è privata del gas russo: anche se Doha ci ha già ripetuto varie volte che non c’è trippa per gatti). Non possiamo dire Mattarella che sia lì grazie a Silvio, e non sappiamo neppure se sia legale pensarlo. Tuttavia nell’ultima elezione presidenziale ebbe i voti del partito di Berlusconi, come di tutta la restante palude parlamentare. È però l’episodio della rielezione del predecessore, che vorremmo ricordare: quando venne rieletto Napolitano, con una manovra che scongiurò l’ascesa al Colle dell’eterno avversario Prodi, appena dopo gli applausi di rito, partì un coro tra i Parlamentari: «Sil-vio, Sil-vio…». Fu una sua manovra, una sua vittoria.
Ecco, Delpini sta parlando considerando loro. I Draghi, i Gentiloni, le Schlein presenti in Duomo. Quei personaggi messi lì e gonfiati da giornali e potentati che, monsignore forse lo sa, non sono esattamente di estrazione cattolica. Diciamo così, e fermiamoci qui.
Non pare, invece, che l’arcivescovo si voglia rivolgere alla famiglia, ai figli presenti, composti e addolorati. Questi ragazzi, a questo punto va scritto, danno un’immagine rara, rarissima: ciascuno con le loro peculiarità sono tutti solidi, decorosi, decenti – pure belli da vedere. Questo a evidente differenza dei rampolli di altre famiglie industriali, quelle dell’oligarcato profondo del Paese, che rappresentano plasticamente disperazione e decadenza, degrado e demenza (cosa che possiamo dire per i figli di papà imprenditori zonali molto, molto meno abbienti di Berlusconi).
La prima moglie, Carla dall’Oglio, lo ha scritto nel suo necrologio sul Corriere: è stato un papà eccezionale. Tutti possono vederlo, ma forse non l’arcivescovo, che nella sua omelia non pare toccare la questione della famiglia (che è cattolicamente delicata, per il divorzio) o anche solo della discendenza, della quantità di esseri umani che si porta dietro: oltre ai figli, 16 nipoti, e un bisnipote. Tanta robba. Questa nota positiva in fondo allo spartito, la persistenza della persona tramite i suoi eredi, colpisce noi, ma, si vede, non lo zucchetto sul pulpito.
Tuttavia non di queste mancanze che vogliamo parlare davvero. Ci ha infastidito, più di tutti, il discorso sulla «vita».
«Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena» è stato l’attacco della predica di monsignore, stile film di Kurosawa. «Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita…»
Insomma, l’arcivescovo, con un fiume di stile retorico, vuole parlarci della vita. Una parola, ripetuta quasi nemmeno come in un tema di liceo, a cui l’omelia assegna un significato preciso: la vita, qui, è l’esistenza individuale, è ciò che ti accade – la vita è un fenomeno soggettivo.
Abbiamo tuttavia le prove che Berlusconi, oltre che amare la vita, amasse la Vita: e cioè la vita umana come forza sacra che esiste al di fuori di noi, che sostiene il cosmo degli uomini, che permette la continuazione dell’universo – la Vita come fenomeno oggettivo. La vita non come questione personale, ma come realtà cosmica.
Ciò divenne chiaro all’altezza degli ultimi giorni di Eluana Englaro.
Maurizio Sacconi, allora sottosegretario, gli propose un decreto legge per salvare Eluana. Berlusconi, secondo quanto ha raccontato il suo deputato veneto, accettò senza nemmeno chiedergli dei sondaggi, che sapeva potevano essere ostili. Perché gli parve chiaro che quello che stava accadendo non era un attacco alla «vita da vivere» di cui parla Delpini, ma alla Vita che ci abita ma che sta al di fuori di noi, alla vita come dono sacro sceso sulla Terra. Si sarebbe messo contro il presidente Napolitano e un largo strato del suo stesso partito, la fazione liberale che poteva tranquillamente starsene con Pannella o col PD.
Quando all’epoca ne parlò, Berlusconi aggiunse qualcosa che sconvolse tutti – compresi i sedicenti cattolici, i sedicenti pro-vita, oramai privi totalmente degli strumenti per capire la portata di quelle parole. Eluana non poteva essere lasciata morire, perché Eluana poteva ancora essere madre. Si era detto, all’epoca, che nei 17 anni di coma, in cui era assistita dalle suore Misericordine, aveva continuato ad avere le mestruazioni.
Disse proprio così: «Eluana potrebbe generare un figlio».
Questa dichiarazione è stata ricordata, con orrore, anche in questi giorni dai vari commentatori liberali.
Come poteva il primo ministro dire una cosa così abominevole? Una donna in coma che può far figli? Un figlio, per l’utenza moderna, è qualcosa che deve essere programmato, voluto, preparato – insomma, letteralmente «planned parenthood» – da cui partono l’aborto e la prole prodotta in provetta. Un figlio, oggidì, è un desiderio, un fatto soggettivo – e mai una realtà biologica, un fatto oggettivo.
Con evidenza, non era il mondo di Berlusconi. Non era il modo in cui pensava alle donne, alla riproduzione, all’umanità, alla vita e alla morte: se una donna può biologicamente generare un figlio, allora è viva. E ciò e logico e vero.
Non crediate che tale bigotto pensiero non abbia basi scientifiche – e mistiche. Ogni singolo ovulo che una donna ha in sé è generato ancora prima che nasca. Ciò vuol dire che tutte le cellule uovo che saranno utilizzati per i figli già esistono quando ancora la madre è un feto, dentro la madre. Tutti noi siamo stati generati da ovuli che esistevano dentro a nostra nonna, quando aspettava nostra madre. Se vostra madre è del 1950, l’ovulo con cui siete stati plasmati era già apparso magari perfino nel 1949, a seconda del mese in cui la mamma è nata.
È la matrioska della vita umana, custodita dal mistero assoluta della femmina. Chi ammette la legge naturale, chi è in contatto sincero con il proprio cuore, comprende nel profondo, automaticamente, come questo miracolo vada difeso – e come il mondo moderno lo voglia distruggere: predazione degli ovuli (a fine commerciali, ma pure scientifici e «sociali» – magari col cancro come conseguenza), congelamento, bioingegneria, affitto di organi riproduttivi, distruzione della femminilità tramite il transessualismo (dove è in divenire il trapianto di utero da donna a uomo).
Una donna che può generare, grazie a questo diritto divino, è una donna viva. Berlusconi comprendeva questa realtà oggettiva, la realtà di base della Vita umana che si espande e si tramanda. E si schierava per difenderla.
Alcuni lettori ci hanno scritto: Renovatio 21 deve ricordare la storia di Berlusconi ed Eluana, perché la sua difesa vale tutta la sua presidenza (la più lunga della Storia d’Italia). È vero. La comprensione della sacralità della Vita vale più di qualsiasi altra cosa, vale più delle manovre economiche, più dei trattati tra la NATO e la Russia.
Certo, la difesa della Vita in Berlusconi non fu un fatto completo. Perché comprendere la Vita in questi termini significa lottare contro l’aborto e la fecondazione in vitro. Significa, in termini molto pratici, opporsi con ogni forza ai trapianti di organi a cuor battente: perché se una donna in coma è viva perché i suoi organi possono tecnicamente ancora generare figli, allora anche un uomo è vivo finché gli batte il cuore.
Ma diciamo pure che oggi ci accontentiamo. Anche perché, c’è a questo punto da chiedersi cosa Delpini abbia fatto per difendere la Vita.
Visto che si parla di eutanasia e dintorni, ci sovviene un caso preciso, quello di DJ Fabo, il ragazzo milanese tetraplegico che accompagnato da un politico andò in Svizzera per trovare la morte volontaria.
Il 10 marzo 2017 nella parrocchia di Sant’Ildefonso fu organizzato un evento chiamato sul sito dell’arcidiocesi «Una preghiera per DJ Fabo». La parrocchia, apprendiamo, «ha accolto il desiderio della madre di Fabo di pregare per suo figlio morto – sottolinea don Davide Milani, responsabile dall’Ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Milano. Quello di venerdì sera sarà un momento di preghiera, non un funerale. Il giudizio della Chiesa sull’eutanasia e sul fine vita non cambia».
Eccerto. Il giudizio non cambia, tutto il resto sì, e di conseguenza. I religiosi non devono mai aver sentito parlato di piano incrinato, slippery slope, rana bollita, Finestra di Overton, etc. Non devono aver mai pensato che la celebrazione può spingere in alcuni l’idea della liceità dell’atto – il motivo per cui ai giornalisti l’Ordine dice che dei suicidi devono parlare con estrema cautela… ma del resto, se ai suicidi la chiesa conciliare offre senza problema funerali pubblici… perché prendersela con chi sceglie l’eutanasia?
Delpini all’epoca era Vicario generale di Milano. Poche settimane dopo, Delpini sarebbe divenuto arcivescovo di Milano. Ci furono polemiche per la scelta della curia dell’evento di preghiera, tuttavia abbiamo cercato, ma non abbiamo trovato dichiarazioni in merito fatte da monsignore.
Tuttavia forse abbiamo rinvenuto in una vecchia intervista su La Stampa un indizio. «L’arcivescovo di Milano Angelo Scola è d’accordo con l’iniziativa di Don Antonio?» chiede al responsabile comunicazione della Diocesi don Davide Milani l’intervistatore – che altri non è che Andrea Tornielli, attuale direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede.
Risposta: «il parroco ha condiviso la sua decisione di celebrare questo momento di preghiera prima con il vicario generale e poi con il cardinale, che è d’accordo».
Lo vedete anche voi. C’è un abisso.
Non che ci sorprendiamo: siamo nell’epoca in cui alcuni discorsi di Putin – l’uomo che più di ogni altro avrebbe meritato di farsi una spremuta d’occhi in Duomo, ma a frapporsi a questa amicizia sono stati i veri padroni del mondo – al Club Valdai sono più rilevanti e corretti, spiritualmente, delle devastanti encicliche che scrivono per l’ultimo papa.
Del resto, Delpini è quel non-cardinale che, forse pensando genuinamente di essere simpatico, fece una serie di battute che vennero interpretate come un attacco diretto al papa. Berlusconi, pur in una volgarità che via via si faceva più parossistica, con battute e barzellette lo stracciava di sicuro. E non ne ripetiamo nemmeno mezza.
Delpini è tecnicamente erede del Santo Ambrogio, l’uomo che per vox populi fu acclamato vescovo dai milanesi, quando lui, magistrato di origine tedesca, neppure era battezzato. Ora, Berlusconi sicuramente non era un santo, tuttavia come testimoniano le immagini di Piazza Duomo, è stato acclamato dai milanesi, o per lo meno dai milanisti – ancora, la gratitudine… – e pure, incredibile dictu, da una vasta porzione di interisti, come ad esempio il sottoscritto.
Perché il suo amore per la Vita è lontano dalla macchietta equilibrista che ne ha dato l’arcivescovo nella sua oscena omelia.
Il suo amore per la Vita era concreto, oggettivo, materiale – e potente, debordante.
Quanto vorremmo dire lo stesso della gerarchia cattolica odierna.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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