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«Bergoglio lavora per lo scisma». Intervista di mons. Viganò

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Renovatio 21 ripubblica l’intervista di Aldo Maria Valli a monsignor Carlo Maria Viganò apparsa sul blog del del vaticanista Duc in Altum.

 

 

Eccellenza, ritengo sia il caso di ripartire da quanto Lei affermava rispondendo alla mia domanda sulla logica seguita da Bergoglio nelle ultime nomine cardinalizie. Lei spiegava:

 

«La logica di Bergoglio è evidentissima: vuole creare le premesse di uno scisma, che a parole nega e deplora, ma che sta preparando da tempo. Bergoglio vuole separare, in un modo o nell’altro, la parte buona dei fedeli e dei chierici dalla Chiesa ufficiale; e per riuscirci, per far sì che si allontanino dal Sinedrio modernista, sta mettendo nei posti chiave della Curia Romana quei personaggi che garantiscano la peggiore gestione dei Dicasteri loro affidati, col peggior risultato possibile e il maggior danno per il corpo ecclesiale».

 

«Le progressive restrizioni alla celebrazione della Liturgia antica servono per confinare i conservatori in riserve di caccia, da cui far loro spiccare il volo verso la Fraternità San Pio X, non appena il Sinodo porterà alle loro logiche conseguenze i cambiamenti dottrinali, morali e disciplinari che sono in cantiere e causerà un esodo di Cattolici in quello che, dopo la soppressione o la normalizzazione degli Istituti Ecclesia Dei, diventerà il “monopolista” della Tradizione. Ma a quel punto – quando cioè i Cattolici tradizionali saranno migrati nella Fraternità e i suoi capi crederanno di aver ottenuto una vittoria sulla concorrenza del soppresso Summorum Pontificum – una nuova provocazione intollerabile costringerà anche la Fraternità San Pio X a prendere le distanze dalla Roma bergogliana, sancendo la “scomunica” del tradizionalismo, non più rappresentato in seno alla Chiesa ufficiale, ammesso che mai lo sia stato. Per questo a mio parere è importante conservare una certa parcellizzazione, in modo da rendere più complessa la manovra dolosa di estromissione dei Cattolici tradizionali dal corpo ecclesiale».

 

«Diaconesse, abolizione del celibato ecclesiastico, benedizione delle coppie omosessuali, tolleranza per la poligamia, la teoria gender, l’ideologia LGBTQ, panteismo ecologista à la Teilhard de Chardin: sono questi i punti di scontro che deliberatamente Begoglio sta aprendo tra l’ala conservatrice (ma non tradizionalista, già distante o fuori dai giochi) e quella ultraprogressista. Il suo scopo è creare lo scontro, lasciarlo crescere, incoraggiare con nomine e promozioni i fautori delle istanze più estreme, per poi assistere alla prevedibile reazione di condanna dei pochi buoni Vescovi, sacerdoti e religiosi rimasti, i quali dinanzi al trabocchetto di Bergoglio avranno due scelte: tornare a subire in silenzio o alzarsi, denunciare il tradimento della Verità cattolica ed essere costretti a lasciare il proprio posto e a esercitare il Ministero nella clandestinità o quantomeno nell’apparente irregolarità canonica».

 

«Una volta ostracizzati i Pastori scomodi e allontanati i fedeli conservatori, la gerarchia bergogliana potrà esercitare il pieno controllo su clero e popolo, certa dell’obbedienza di chi è rimasto. E questa setta, che di cattolico avrà solo il nome (e forse nemmeno più quello), eclisserà totalmente la Sposa dell’Agnello, nel paradosso di una Gerarchia traditrice e corrotta che abusa dell’autorità di Cristo per distruggere la Sua Chiesa».

 

La logica, insomma, sembra essere quella di creare le condizioni perché i veri cattolici abbandonino la barca di Pietro. È così?

Guardi, già nel 2019 Bergoglio disse chiaramente di non temere uno scisma. E mentre affermava che «gli scismatici sempre hanno una cosa in comune, si staccano dal popolo, dalla fede del popolo, dalla fede del popolo di Dio», aggiungeva: «La morale dell’ideologia ti porta alla rigidità, e oggi abbiamo tante scuole di rigidità dentro la Chiesa, che non sono scisma, ma sono vie cristiane pseudo-scismatiche che finiranno male: quando voi vedrete cristiani, vescovi, sacerdoti rigidi, dietro di loro ci sono dei problemi, non c’è la sanità del Vangelo». Come al solito, accusava i Cattolici di ciò che si apprestava egli stesso a compiere.

 

Per evidenziare ulteriormente la strategia adottata da Bergoglio Lei richiama il saggio di un autore americano che già nel 2018 metteva in luce alcune linee che hanno poi trovato puntuale conferma. Ce ne vuole parlare?

Certamente. L’autore è Patrick Archbold e il suo saggio è apparso in cinque puntate, appunto nel 2018, su Creative Minority Report. Il titolo è Actuating schism, ossia «Realizzare uno scisma».

 

In questo saggio l’autore, con grande lucidità, delinea quella che a suo parere sarebbe stata l’azione dolosa dell’Argentino volta a causare deliberatamente uno scisma in seno alla Chiesa Cattolica.

 

Scriveva Archbold:

 

«Possiamo star certi che questo processo continuerà. Sinodi manipolati per produrre risultati finalizzati a continuare a palleggiare l’eresia sul campo da gioco. (…) La Chiesa si è trovata in uno stato di scisma de facto per qualche tempo, ma coloro che non seguono più gli insegnamenti della Chiesa si sono rifiutati di andarsene. Pur non essendo membra vive della Chiesa, vi ricoprono ruoli importanti. Non vogliono fondare una loro chiesa alternativa né una gerarchia parallela: al contrario, hanno agito sul lungo termine per appropriarsi del nome cattolico e della sua struttura gerarchica. Non volevano una loro chiesa: volevano la nostra. Adesso hanno il potere e lo usano».

 

E ancora:

 

«Questa è dunque la domanda: come facciamo a sbarazzarci di quei cattolici che stanno combattendo contro il nostro potere? Come liberarsi dei fedeli cattolici che, per definizione, si aggrappano tenacemente all’unica vera Chiesa? Come allontanare i veri cattolici dalla Chiesa? Come trasformare uno scisma de facto in uno scisma reale?»

 

E qui Archbold tratteggia sapientemente lo schema adottato dal Comitato Centrale di Santa Marta, individuandolo alcune costanti rilevabili in diversi casi: i Francescani dell’Immacolata, il vescovo Rogelio Livieres Plano in Sudamerica, il vescovo Martin Holley negli Stati Uniti, le Petites Sœurs de Marie Mère du Rédempteur in Francia. A questa breve lista potremmo aggiungere i nomi di molti altri Vescovi e Comunità religiose – specialmente femminili – che hanno potuto sperimentare da allora la misericordia bergogliana.

 

Il sistema è sempre il medesimo: la Visita apostolica con brevissimo preavviso, nessun resoconto sugli esiti, nessun rapporto sulle eventuali criticità riscontrate, nessuna possibilità di chiarimento o di difesa per chi è fatto oggetto dell’indagine.

 

«Il messaggio e il metodo sono chiari. Quando vogliono che te ne vada, possono farti andare via. Non stanno neanche più seguendo le procedure e si sentono dispensati dal rispettare le norme del giusto processo previste dal Diritto Canonico. Ciò dovrebbe mettere sul chi vive qualsiasi Vescovo, ed è esattamente questo il punto».

 

Parallelamente a questa azione canonica del tutto illegittima, gli emissari di Bergoglio non esitano a intimidire i Vescovi e le comunità dal dare accoglienza a quanti vengono ostracizzati: ricordiamo bene quando padre Fidenzio Volpi partecipò irritualmente all’Assemblea della CEI per fare terrorismo sui Francescani dell’Immacolata, minacciando l’Episcopato di non incardinare i frati conservatori nelle loro Diocesi.

 

«Ma quando le regole hanno permesso ad altri Vescovi di fornire una via possibile di fuga alle vittime, quei presuli sono stati minacciati e le regole sono state cambiate in modo da assicurarsi che nessun Vescovo permettesse a nuovi gruppi di fedeli cattolici di costituirsi in una diocesi molto lontana».

 

Mi sembra che Traditionis custodes sia proprio l’espressione di questo piano…

Esatto. Traditionis custodes ha avocato alla Santa Sede la facoltà di erigere canonicamente istituti «tradizionali» e ha fatto comprendere ai Vescovi che nessun sacerdote secolare avrebbe ottenuto il permesso di celebrare secondo l’antico rito. La cancellazione di Summorum Pontificum va in questa direzione, è evidentissimo. Basti pensare al caso, tra gli altri (…) alle Suore domenicane di Marradi, che guarda caso si trovano in una situazione non diversa dalle Petites Sœurs de Marie Mère du Rédempteur: «Hanno commesso il doppio crimine di essere un po’ troppo conservatrici e di possedere beni immobili bramati dall’Ordinario del luogo». Una proprietà su un poggio affacciato sulla Val d’Orcia o un enorme convento del Seicento sull’Appennino. Lo stesso è avvenuto per il Carmelo di Arlington, in Texas, dove la furia contro il conservatorismo delle monache è giunta a diffamare vergognosamente la Madre Priora, sottoposta a commissariamento e dimessa in violazione alle norme canoniche. Anche lì, un Monastero con vasto terreno e un giacimento di petrolio.

 

Ma mentre il Vaticano non esita a limitare i diritti dei Vescovi quando possono aiutare la sopravvivenza di qualche comunità tradizionale, significativamente li amplia al di là del diritto – sanando irregolarità e abusi dei propri lacchè – se ciò serve a sopprimerle e perseguitarle. A ciò si aggiungano la Costituzione Vultum Dei Quærere e l’Istruzione Cor Orans, con cui Bergoglio priva le comunità monastiche della loro autonomia e le irreggimenta in federazioni sotto lo stretto controllo ultra-progressista – e la riprogrammazione in stile cinese – del sedicente Dicastero per i Religiosi.

 

«I media cattolici approvati dal politburo vi diranno che la sinodalità è tutta una questione di decentralizzazione del governo della Chiesa più vicino al popolo, sul modello delle Conferenze Episcopali. Questo, ovviamente, non potrebbe essere più lontano dalla verità. In un’incredibile conferma della menzogna, prima che l’inchiostro fosse addirittura asciutto sul documento sinodale sulla sinodalità, il Papa è intervenuto personalmente per castrare pubblicamente la Conferenza Episcopale Americana, prima ancora che pensasse anche solo di discutere di fare qualcosa di inutile sullo scandalo degli abusi. Si sarebbe trattato comunque di una questione puramente formale, anche per gli osservatori della Chiesa più esperti».

 

Archbold riassume questo schema con le seguenti parole:

 

«Si tratta di assicurarsi che nessun Vescovo ortodosso refrattario possa costituire un bastione della Tradizione e offrire uno spazio sicuro per il Cattolicesimo tradizionale. Egli non può permettere che nuovi gruppi di Religiosi si formino nella sua Diocesi, non può invitare le Suore tradizionali ad aprire una casa nella sua Diocesi, e se fa qualcosa di troppo tradizionale, sarà il destinatario di una Visita Apostolica per il crimine di non andare d’accordo con la sua Conferenza Episcopale. Tutto ciò ha comportato la chiusura di tutte le vie di fuga per i Cattolici tradizionali».

 

A questo punto Archbold cita un passo dell’Arte della guerra di Sun Tzu: «a un nemico circondato, devi lasciare una via di fuga». E glossa:

 

«Per circondare il nemico, si devono chiudere tutte le vie di fuga. Occorre catturare il nemico, i Cattolici tradizionalisti e i conservatori che hanno assunto la pillola rossa, concentrandoli tutti in un luogo dove si sentono più sicuri, prima di dargli la mazzata finale. Ma la mazzata è imminente. […] Credo che intendano abolire il Summorum Pontificum e il diritto individuale dei sacerdoti a dire la Messa e far convergere tutti i Cattolici tradizionali in una o poche fonti approvate, forse la Fraternità San Pietro e l’Istituto di Cristo Re o qualche altra entità creata dalla Commissione Ecclesia Dei, laddove non sia possibile chiudere l’affare con la Fraternità San Pio X. […] Ci riporteranno all’era dell’Indulto e ci ammasseranno in alcuni gruppi (Fraternità San Pietro, Istituto di Cristo Re etc.) e in alcuni centri di indulto esentati dalla liturgia ordinaria. Poi dichiareranno – e i loro servi leccapiedi nei media cattolici mainstream andranno in brodo di giuggiole – che questa non è una mossa anti-tradizionale: “Il Papa non ha abolito una sola Messa tradizionale, si tratta solo di un atto di governo”. Così il gioco è fatto. Qualsiasi gruppo approvato che resista ai cambiamenti o si lamenti troppo forte verrà sottoposto alla Visita Apostolica e verrà eliminato per aver rifiutato di sottomettersi al Pontefice. Qualsiasi comunità diocesana dell’Indulto che opponga resistenza verrà fatta fuori. E ogni Cattolico che pensi di poter scendere nelle catacombe e avere solo Messe celebrate in case private? No: i singoli sacerdoti non hanno più il diritto di dire la Messa. Chi ci prova vuol dire che si rifiuta di sottostare all’autorità del Papa: è uno scismatico, e così pure qualsiasi Vescovo. O si accetta la sottomissione al Vaticano II o si è considerati scismatici. Qualsiasi tentativo di vivere un’autentica vita cattolica tradizionale, sia come religioso, o semplicemente frequentando la Messa antica, ti renderà automaticamente uno scismatico. Se ti rivolgi alla Fraternità San Pio X sei scismatico. Se vai a una Messa clandestina, sei scismatico. Se costituisci un gruppo di fedeli sotto una regola tradizionale senza il permesso di Roma, sei scismatico. Trasformeranno qualsiasi tentativo di vivere una vita cattolica tradizionale in un atto di disobbedienza».

 

Sembra chiaro, monsignore, che a distanza di cinque anni l’allarme lanciato dal lungimirante saggio di Archbold si è dimostrato fondato. Ma, come giustamente si chiedono tanti chierici, religiosi e fedeli, a questo punto in quale modo possiamo resistere a questa azione eversiva, se qualsiasi strada da noi intrapresa può farci accusare di scisma?

La risposta la troviamo nella ferma resistenza di chi ci ha preceduto: dall’eroismo dei Martiri e dei Confessori della Fede alla silenziosa fedeltà di moltissimi Cattolici – chierici, religiosi e laici – che nel corso dei secoli si sono trovati dinanzi alla stessa scelta: scegliere la via larga e comoda del compromesso e dell’apostasia o la via stretta e impervia della fedeltà a Cristo. Una scelta spesso dolorosa, ma alla quale ci ha preparati il Signore: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa (Mt 10, 34-36).

 

Questa spada – che San Paolo identifica con la spada dello Spirito, la Parola di Dio (Ef 6, 17) – separa i fedeli di Cristo da una gerarchia ribelle e corrotta, i religiosi dai loro Superiori eretici, i sacerdoti dai loro Vescovi modernisti. E i nostri nemici sono quelli della nostra casa, i nostri parroci, i Vescovi, e colui che usurpa il Soglio di Pietro per diffondere l’errore e la divisione.

 

Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo! (Mt 18, 7). Queste parole ci ammoniscono sulla gravità degli scandali presenti – dottrinali, morali e liturgici – e sulla loro inevitabilità, data dal temporaneo trionfo dei malvagi, prima del Giudizio finale. Ma ci esortano parimenti a resistervi, a denunciarli, a non darli per normali solo perché sono diffusi ad ogni livello della vita quotidiana.

 

Non dimentichiamo che da sessant’anni ci siamo abituati a vedere usare l’autorità dei Pastori contro i fedeli e contro la Chiesa stessa, mantenendo un’apparenza di legittimità formale. Lo stesso «Concilio» – l’unico Concilio che stia tanto a cuore ai modernisti, perché è l’unico di cui essi sono artefici e che non ha nulla di cattolico – fu un colossale inganno ai danni del corpo ecclesiale, perché manteneva l’autorevolezza di un Concilio Ecumenico pur insinuando fraudolentemente dottrine eterodosse; manteneva l’autorità dei Padri e del Romano Pontefice proprio quando essa era usata per demolire l’edificio cattolico; imponeva obbedienza cieca e servile a norme in contrasto con l’ininterrotto e immutabile Magistero.

 

Fu una frode l’abolizione della Liturgia tradizionale, voluta con apostolica autorità da Paolo VI. E non è meno doloso il tentativo attuale di cancellare il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI con un analogo Motu proprio – apparentemente della medesima efficacia canonica – che non ha come scopo il bene della Chiesa e la salvezza dei fedeli, ma la rovina di entrambi. D’altra parte, anche l’accusa di blasfemia che il Sinedrio mosse a Nostro Signore aveva tutte le apparenze di un’azione formalmente ineccepibile, pur essendo intrinsecamente illegittima e nulla, perché usata contro il divino e innocentissimo Legislatore.

 

L’autorità può trovare obbedienza in virtù della propria autorevolezza, o imporsi con l’autoritarismo. Nel primo caso il potere è esercitato per il fine per cui è stato istituito; nel secondo diventa esso stesso il fine.

 

L’autoritarismo sovverte l’ordine divino – tanto nelle cose temporali quanto in quelle religiose – perché prescinde dall’unica Autorità di Cristo e dalla vicarietà dell’autorità terrena che Lo rappresenta. Esso agisce insomma come se una persona costituita in autorità – un governante, un Vescovo – possedesse in sé la propria legittimazione, e non in quanto vicaria dell’autorità di Cristo. Ciò fa di lei un potere eversivo, svincolato da ogni dovere di conformarsi alla volontà di Cristo nel perseguire il bonum commune, e per ciò stesso destinata inesorabilmente a trasformarsi in odiosa tirannide.

 

 

 

Fine prima parte

 

 

 

 

Immagine di Republic of Korea via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

 

 

 

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Il Corriere e Lavrov, apice del cringe giornalistico italiano

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In un episodio imbarazzante come pochi altri per la stampa nazionale italiana, il Corriere della Sera ha rifiutato di pubblicare un’intervista esclusiva con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.

 

L’incredibile sviluppo è stato ridicolizzato dal portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova, che, facendo ridere i presenti ad un briefing a Mosca, ha raccontato che quando il ministero russo ha chiesto come mai l’intervista non fosse stata pubblicata il Corriere avrebbe risposto che non c’era spazio; la Zakharova ha proseguito dicendo che, visiti i «problemi con la Carta che deve avere l’Italia», era stato proposto dal Cremlino di pubblicarla sul sito, ma sarebbe stato risposto da via Solferino che non c’era spazio nemmeno su internet. Infine, non si sa quanto scherzando, la portavoce dice che è stato ulteriormente proposto all’antico quotidiano italiano di pubblicare un link ad una pagina esterna, ma sarebbe stato detto che non c’era spazio nemmeno per quello.

 

È finita che l’intervista la ha pubblicata il sito del ministero degli Esteri russo e dell’ambasciata russa in Italia.

 


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Se le parole della Zakharova non fossero per ischerzo saremmo davanti ad un fatto di gravità – professionale, diplomatica, umana – sconcertante. Il racconto della portavoce racconta di una vetta di cringe giornalistico senza precedenti.

 

Nelle scorse ore il giornale della borghesia italiana ha tentato di rispondere, giustificando la mancata pubblicazione di uno dei vertici della massima superpotenza atomica planetaria (possiamo dire «censura»?) con i contenuti dei discorsi del Lavrov, che con evidenza il giornale ed i suoi padroni non condividono – ma dei quali i lettori dovrebbero essere informati.

 

«Le risposte del ministro contenevano anche molte affermazioni del tutto discutibili e dal chiaro intento propagandistico» scrive il Corriere in un articolo. Come, ad esempio, il passaggio sul «cruento colpo di Stato anticostituzionale a Kiev del febbraio 2014, organizzato dall’amministrazione Obama» (in via Solferino forse erano in vacanza quando uscì l’audio di Victoria Nuland che oltre che a parlare degli investimenti USA e decidere il premier di Kiev proclamava in maniera indimenticabile «Fuck the EU»), oppure quello sul «regime di Kiev» che definisce «subumani» o «terroristi» gli abitanti delle quattro regioni ucraine annesse illegalmente dalla Russia» (anche qui, forse il giornalone era in letargo negli anni dal 2014 al 2022, e quanto alle annessioni illegali, magari ricordare che ci sono stati dei referendum in zone quasi totalmente russofone sarebbe stata una cosa bella e «giornalistica»)

 

Il Corriere mica desiste: ha cancellato la pubblicazione dell’intervista al decano della diplomazia mondiale perché «in altre parti, Lavrov arriva a sostenere che, “a differenza degli occidentali”, l’esercito russo protegge “le persone, sia civili che militari” e che le “nostre forze armate” agiscono “con massimo senso di responsabilità, sferrando attacchi di precisione esclusivamente contro obiettivi militari e relative infrastrutture di trasporto ed energetiche”».

 

Qui sarebbe bello che il giornalissimo dimostrasse che non è così, facendoci vedere, chessò, Kiev e Kharkov ridotte in macerie come Baghdad e Beirut – perché non è che ci voglia un genio per vedere quanto la guerra condotta dalla Russia sia diversa da quelle fatte da USA, NATO e compagni in Iraq, Libano, Afghanistan, Siria, Libia e pure in Serbia… Diverso è il caso di Donetsk, città che dicono essere ucraina, ma che l’Ucraina, per qualche ragione, bombarda, anche a Natale e a Pasqua vicino alle chiese, nei mercati, nei centri commerciali, con le ondate di sangue civile che conosciamo: ma guarda chi li fa, i massacri degli innocenti.

 

Al Corrierone, come a tutte le testate occidentali possedute da camerieri atlantici o peggiobrucia ancora che Bucha non sia riuscita col buco, e di questa presunta «strage» che doveva fungere da casus belli per mandare i nostri soldati a morire in Ucraina non se ne è fatto più nulla. Voi avete più sentito nulla? Chissà perché.

 

Ma non basta: il Corriere è disturbato assai dal fatto che il Lavrov «dichiara che «il nazismo sta rialzando la testa in Europa». Lo scrive il giornale dove in prima pagina, con corsivi non esattamente imperdibili, scrive per qualche ragione uno che in TV andò a dire che un generale vicino al Battaglione Azov è «giusto» come Schindler e Perlasca. Lo scrive il giornale il cui inviato a Kiev riprese un militare nazi-odinista dichiarare la sua fede pagana dinanzi all’assedio dei monaci della Lavra. È stato detto, giustamente, che il Corriere in quell’occasione era riuscito, senza volerlo, a realizzare l’apice della propaganda ucraina e pure russa nello stesso momento.

 

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Ma non è finita. Il giornalone nelle mani del venditore di pubblicità proprietario del Torino calcio alza il ditino con boria e pervicacia: «il ministero degli Esteri russo ha risposto alle domande inviate preliminarmente dal Corriere della Sera con un testo sterminato pieno di accuse e tesi propagandistiche. Alla nostra richiesta di poter svolgere una vera intervista con un contraddittorio e con la contestazione dei punti che ritenevamo andassero approfonditi il ministero ha opposto un rifiuto categorico».

 

Un’intervista scritta con il contraddittorio? Ma di cosa stanno parlando? Il compito dell’intervistatore è sentire quello che dice il più alto diplomatico della superpotenza oppure salvaguardare la mente dei lettori dalla possibilità di sentire l’altra campana – cioè il lavoro che dovrebbe fare il giornalismo?

 

Lavrov, accusa il Corrierissimo, «Evidentemente pensava di applicare a un giornale italiano gli stessi criteri di un Paese come la Russia dove la libertà d’informazione è stata cancellata». A questo punto non è più possibile trattenere le risate. «Quando il ministro Lavrov vorrà fare un’intervista secondo i canoni di un giornalismo libero e indipendente saremo sempre disponibili».

 

Il Corriere «libero e indipendente»? Eccerto. Ce lo ricordiamo in pandemia, quando, dopo decenni di abbonamento (chi scrive ha letto quel giornale quotidianamente da quando aveva praticamente 15 anni) abbiamo mollato il colpo, ché le menzogne (per esempio sull’ivermectina farmaco per cavalli) erano divenute intollerabili. Anche dopo, con la guerra ucraina e la lista dei putiniani italiani, con per soprammercato la stupenda affermazione che la stampa russa avrebbe usato come manifesto un articolo di Manlio Dinucci: le giornalistissime in cima al massimo quotidiano italiano non si era ovviamente peritata di comprendere o approfondire nulla – Dinucci riprendeva uno studio della Rand Corporation, citato varie volte anche da Renovatio 21, dipingendo quindi l’84 geografo italiano come faro della politica di Putin… eh?

 

Vabbè, qualche lettore lo sa: con il Corriere per Renovatio 21 ci può essere stata qualche screzio in passato. Come quando un video un po’ minaccioso di Bill Gates e consorte (col COVID stavano ancora assieme) trovato e sottotitolato da Renovatio 21 comparve per magia, senza credito alcuno, talis et qualis sul sito del Corriere.

 

Faccia il lettore il confronto. L’unica vera differenza e che noi – che abbiamo realizzato i sottotitoli, sistemato l’audio e finalizzato – non ci abbiamo messo la pubblicità.

 

 


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O quella volta che, ci segnalarono tanti lettori, c’era nelle pagine di cultura quella lenzuolata della celeberrima romanziera Susanna Tamaro sulla scuola che sembrava, a detta di molti, un pochino somigliante ad un articolo di Elisabetta Frezza pubblicato sulle colonne di Renovatio 21. 

 

Pressati dal nostro pubblico, scrivemmo all’altezza del Natale 2022 alla redazione di via Solferino. Siamo in grado qui di riprodurre la missiva.

 

Gentili signori della redazione del Corriere,

abbiamo ricevuto diverse segnalazioni riguardo una possibile somiglianza tra l’articolo comparso sul Vostro giornale lo scorso mercoledì 21 dicembre a firma di Susanna Tamaro («Perché dico no alla Scuola 4.0») e l’articolo di Elisabetta Frezza pubblicato da Renovatio 21 in data  14 dicembre 2022 (ore 15:56) con il titolo «L’abisso del Piano Scuola 4.0».
(…) Le simiglianze segnalateci dai lettori sono varie, tra cui, ad esempio, il curioso uso dell’espressione «Giovani Marmotte», che ricorre nel successivo pezzo della Tamaro, che i lettori ci ricordano essere stata impiegata in altri discorsi della dott.ssa Frezza, come l’articolo pubblicato da Renovatio 21 «Scuola, cosa ci aspetta a settembre», del 13 luglio 2020.
Più in generale, ci segnalano una certa corrispondenza fra i due articoli nella disposizione degli argomenti.
Chiederemmo dunque, se possibile, un Vostro commento a riguardo.
In attesa di Vostre,
Auguriamo a tutta la Redazione del Corriere e alle rispettive famiglie Buon Natale.

 

Secondo voi i colleghi del Corriere dei grandi ci risposero? Maddeché – neppure agli auguri di Natale.

 

Gli auguri a questo punto glieli facciamo noi: perché, se continuano così, quanto avanti potrà andare ancora avanti il giornalismo italiano?

 

Roberto Dal Bosco

 

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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia

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Il potere della vittima

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È riemersa in queste ore una vecchia storia dell’orrore, quella dei «turisti-cecchini» italiani che avrebbero pagato per andare ad uccidere persone a caso nella Bosnia dilaniata dalla guerra degli anni Novanta. «I cecchini del weekend, dall’Italia a Sarajevo per uccidere: “Centomila euro a bambino, safari criminale”» titola Il Giorno.   È la storia, mai del tutto definita, delle «battute di caccia» di crudeli cittadini italiani nel caos sanguinario della fine della Yugoslavia.   «Viaggi in aereo fino a Belgrado, per poi spostarsi in elicottero o con veicoli a Pale e Sarajevo, ma anche a Mostar, altra città della Bosnia-Erzegovina dove secondo alcune testimonianze sono stati notati “tiratori turistici”» scrive il quotidiano, che fa almeno un nome, quello di «Jovica Stanisic, ex capo del servizio di sicurezza della Serbia condannato a 15 anni di carcere all’Aia per crimini di guerra nella ex Jugoslavia», il quale «avrebbe svolto un “ruolo” nell’organizzazione».

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L’articolo parla di esposto di un giornalista italiano alla Procura di Milano, per il quale potrebbe essere ascoltato dal giudice una delle fonti dei virgolettati del pezzo, un ex ufficiale dell’Intelligence militare della Bosnia, cioè il Paese considerato vittima delle violenze dei serbi.   «Per il modo in cui tutto era organizzato – ha spiegato l’ex 007 – i servizi bosniaci ritenevano che dietro a tutto ci fosse il servizio di sicurezza statale serbo e che fosse coinvolto anche il servizio di Intelligence militare serbo con l’assistenza di comandanti serbi nella parte occupata» continua Il Giorno.   La storia raccontata dalla spia militare bosniaca è allucinante: all’epoca, ha raccontato, «condividemmo le informazioni con gli ufficiali del SISMI(ora AISI) a Sarajevo perché c’erano indicazioni che gruppi turistici di cecchini/cacciatori stavano partendo da Trieste (…) un uomo di Torino, uno di Milano e l’ultimo di Trieste». Nell’esposto, prosegue la testata «si fa riferimento a “soffiate” pure sul tariffario dell’orrore: “i bambini costavano di più, poi gli uomini (meglio in divisa e armati), le donne e infine i vecchi che si potevano uccidere gratis”».   I nomi, tuttavia, non saltano fuori. Un altro articolo sempre de Il Giorno titola «Cecchini del weekend a Sarajevo, l’ex 007 bosniaco: “Il SISMI fu informato e li bloccò. Ma non abbiamo mai ottenuto i nomi”».   Nelle conclusioni fa capolino, d’un bleu, il neofascismo: «la speranza è quella di riuscire a dare un nome agli impuniti “cecchini del weekend” e trovare elementi in grado di portare a una svolta, trent’anni dopo i fatti. Persone vicine ad ambienti dell’estrema destra, che avrebbero agito “con la copertura dell’attività venatoria” e con soldi da spendere». Insomma fascisti abbienti in combutta con i servizi di un Paese post-comunista, per il brivido di uccidere a pagamento.

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Lasciamo alla magistratura il lavoro di accertare i fatti, che sarebbero di gravità rivoltante – notiamo, tuttavia, che a distanza di 30 anni questi ricchi destrorsi potrebbero ora avere quasi ottant’anni (e quindi, potrebbero scampare la galera anche se condannati) oppure essere addirittura deceduti.   Questo rigurgito della guerra yugoslava ci riporta alla mente tante, tantissime cose. Ci ricordiamo quando, all’epoca, eravamo praticamente convinti delle storie degli orchi serbi e dei poveri bosniaci, senza minimamente pensare che si trattasse di propaganda NATO: l’Occidente, secondo un disegno usato più di una volta, voleva spaccare la Yugoslavia cugina della Russia, e, manovra più interessante, creare un piccolo Stato musulmano in Europa.   E ce la fecero: eccoti la Bosnia-Erzegovina (un nuovo Stato talmente autentico da avere un nome duplice, tipo Emilia-Romagna, Trentino-Alto Adige, Massa-Carrara), con a capo Alija Izetbegović (1925-2003), da giovane membro dei Mladi Muslimani, i «Giovani Musulmani» che volevano un ritorno all’Islam più puro per le genti yugoslave la cui pratica era stinta.   I «Giovani Musulmani» si divisero tra il sostegno alla divisione Handschar delle Waffen-SS, a maggioranza musulmana, o ai partigiani comunisti jugoslavi. Il New York Times sostiene che si sia unito alla divisione Handschar delle SS. Vedendo l’Ucraina odiera sappiamo, tuttavia, che l’Occidente è disposto a chiudere un occhio sulla svastica, se è per dare addosso a nemici della Russia.   Finita la guerra, nel 1946 lo trovano a pubblicare un giornale clandestino chiamato Muzhahid («Mujahiddin») e viene imprigionato per «affermazioni contro l’Unione Sovietica».   Nel 1970, Izetbegovic pubblicò un manifesto intitolato Dichiarazione islamica, in cui esprimeva le sue opinioni sui rapporti tra Islam, Stato e società. Il manifesto fu vietato dal governo, che vi vedeva una cospirazione per l’istituzione di una Bosnia-Erzegovina «islamicamente pura». La Dichiarazione designava il Pakistan come un Paese modello da emulare per i rivoluzionari musulmani di tutta la Terra.   «Non può esserci pace o coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni sociali e politiche non islamiche… lo Stato dovrebbe essere un’espressione della religione e dovrebbe sostenere i suoi concetti morali» scrive ancora il futuro presidente bosniaco, il quale non abbiamo idea di quante foto abbio fatta assieme ai nostri primi ministri, presidente, deputati, etc.   In pratica, un fondamentalista islamico al vertice di un Paese Europeo, creato apposta per lui. Uno Stato Islamico europeo, sia pure senza la boria videomatica che successivamente mostrò l’ISIS, come da disegno del mondo-Clinton. Creiamo un Stato musulmano teoricamente «moderato» (anche se cosparso di integralisti), come spina nel fianco dell’Europa, pronto per fare, alla bisogna delle «cose interessanti».   Per significare queste «cose interessanti» voglio buttare là, così per fare, un paio di volte in cui la narrazione della Bosnia come vittima dei malvagi serbi, qualche volta, anche leggendo i giornaloni, ha vacillato. Per esempio, quando si apprese che l’allora imam della controversa moschea di viale Jenner a Milano finì i suoi giorni in battaglia in Bosnia – e chissà quindi cosa predicava sotto la Madonnina, e chissà chi faceva passare di là, tenendo presente che erano pure gli anni delle infinite stragi islamiche in Algeria.   Vi fu poi l’incredibile storia, circolata su qualche giornale e TV, del villaggio musulmano bosniaco da dove, dieci anni fa, sarebbe partito un commando suicida, poi neutralizzato, intento a fare esplodere Piazza San Pietro durante i funerali di Giovanni Paolo II, incredibile celebrazione dove potevano disintegrare una quantità di Presidenti americani, europei, africani, asiatici più re e regine e perfino il papa successivo. Si parlò di un gruppo chiamato «Gioventù islamica attiva», nome non tanto distante da quello del gruppo del presidente bosniaco mezzo secolo prima.   La storia della Bosnia-pakistana e dei balcani islamici non si fermò a Sarajevo.

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Di lì a poco arrivò il Kosovo, dove si ripeté lo schemino: con la spintarella atlantico-americana, via un pezzo della Yugoslavia, cioè la Serbia, legata ai russi, e avanti con un altro staterello islamico-europeo – il quale sarebbe divenuto, di lì a poco, il primo Paese al mondo per esportazione pro-capite di foreign-fighter ISIS. La guerra del Kosovo fu un’ulteriore galleria dell’orrore, con la NATO che stavolta arrivò a bombardare direttamente Belgrado e oltre, mentre in televisione servivano immagini di un esodo di kosovari musulmani che denunziavano ogni tipo di violenza: ecco, gli islamici yugoslavi erano, ancora una volta, vittime dei serbi.   Non che i serbi non abbiano riflettuto, in qualche modo, su questo schema di vittima-carnefice in cui, per un disegno geopolitico, metapolitico immenso, si sono trovati incastrati.   Lo ha fatto un film che non ho visto, e che non vedrò mai (perché ci tengo all’integrità della mia mente) così come con probabilità non lo vedranno in Spagna, Portogallo, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Brasile, dove la pellicola è stata proibita. Si tratta di un horror intitolato, semplicemente Srpski film (2010), noto internazionalmente come A Serbian film («Un film serbo»).   Quello che so della trama lo devo ad un amico serbo, divenuto poi cittadino italiano, che non c’è più, perché divorato da un turbo male, al cui pensiero ho gli occhi lucidi anche ora mentre scrivo. Lui – che no, non aveva nessun istinto orrendo, essendo una delle persone più buone che abbia mai conosciuto – mi spiegava come questa storia lasciava il segno nella sensibilità serba dopo gli anni di guerra.   La trama del film, che riprendiamo dall’enciclopedia online, vede Milos, un pornodivo ritiratosi a vita privata per stare con moglie e figlio, venga invitato ad una nuova produzione serba per il mercato estero. Il produttore, che offre una quantità di danaro immensa che permette a Milos di risolvere i suoi guai finanziari, specifica nel contratto che il pornoattore non deve sapere nulla del film che sta girando.   Il primo set della misteriosa produzione cinematografica è un orfanotrofio, dove Milos assiste al pestaggio di una ragazzina da parte di sua madre, una prostituta, che poi farà una scena di fellatio con lui dinanzi alla figlia: l’uomo si rifiuta, ma è costretto dai cameraman, e invitato a picchiare a sua volta la donna.   A quel punto Milos, disgustato e sconvolto, decide di non proseguire le riprese e va a parlare con il produttore, che si scopre essere uno psicologo con un oscuro passato in polizia. Il produttore gli spiega che lui stesso, come Milos e tutto il popolo serbo sono «vittime», e la «vittima», dice, è ciò che vende di più. L’uomo quindi mostra al protagonista un filmato ributtante e demoniaco al punto che nemmeno la descriviamo qui. L’attore decide di troncare, ma si sveglia in un letto coperto di sangue: è stato drogato, e ora non trova più la famiglia, e dove erano gli uffici del produttore trova solo cassette in cui egli, sotto l’effetto di una qualche sostanza, stupra, uccide, viene stuprato.   Seguono ancora torture, minacce di castrazioni e scene ancora più intollerabili, con un finale che svela una realtà di orrore davvero abissale. La famiglia…   In fondo alla storia, una scena fa capire che anche quell’abominio è motore per la filiera dei carnefici.   Il mio amico, che diceva non aver retto alla visione di tutto il film, mi raccontava che la pellicola aveva attivato in tanti serbi la realizzazione di essere stati manipolati negli anni della guerra e dell’orrore, un continuum dove forze più grandi, e più oscure, ti spingevano verso questo meccanismo perverso ed incomprensibile… sei vittima… sei carnefice… cosa sei? La pazzia, a questo punto, è una reazione appropriata, ed è forse quello che vogliono: il pazzo è manipolabile, non in grado di unirsi ad altri e opporre resistenza.   Allo stesso tempo, è impossibile non interrogarsi su ciò che il sistema chiama «vittima»: è vittima («scappa dalla guerra») l’immigrato, che a spese nostre spaccia e stupra nella nostra città; è vittima l’omotransessuale (perché indotto ad odiarsi dalla «società omofoba»), che pretende oggi di comprare i bambini e poi farli castrare e riempire di ormoni sintetici; è vittima l’ebreo israeliano (perché «l’Olocausto», «il 7 ottobre, etc.»), che poi compie il massacro robotico automatizzato di decine migliaia di palestinesi, e non sembra nemmeno volersi fermare lì.   Conosciamo la cifra metafisica di questo processo: è la sostituzione dell’Agnello con il caprone infernale. Di Cristo con Bafometto. Il carnefice diviene, per il racconto sistemica, la vittima: ecco spiegato il fascino assoluto per gli accusati di episodi di cronaca nera, che divengono ben più importanti dell’ammazzato, sino a trovare uno zoccolo di opinione pubblica che li ritiene innocenti. Agnelli, appunto.   Abbiamo raccontato qui la trama di un film horror estremo. Il lettore di Renovatio 21 sa, tuttavia, che scene ancora più estreme si sono avute nella realtà – per esempio con il traffico degli organi in Kosovo.   Rammentiamo l’Esercito di liberazione del Kosovo, il gruppo militante kosovaro albanese sostenuto dagli USA clintoniani chiamato UCK (memorabili le immagini alla TV italiana con i miliziani mascherati in stile ETA e le bandiere albanese e statunitense). I membri dell’UCK alcuni dei quali arrivati sono giunti alle più alte cariche del nuovo Stato kosovaro, hanno subito accuse di prelievo illegale di organi, come nel caso del presidente kosovaro Hashim Thaci.   Durante il periodo in cui era a capo dell’Esercito di liberazione del Kosovo, il Washington Times ha riferito che l’UCK finanziava le sue attività con il traffico di droghe illegali di eroina e cocaina nell’Europa occidentale. Secondo Carla Del Ponte, procuratrice capo del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dal 1999 al 2007, civili serbi – tra cui donne e bambini – furono rapiti dall’UÇK e successivamente trasferiti a Burrel, in Albania, dove vennero trattenuti in attesa dell’espianto dei loro organi, destinati a cliniche turche specializzate in trapianti; alcuni subirono più prelievi prima di essere uccisi e fatti sparire.   Le accuse contro Thaci risalgono a decenni fa, e furono formulate da sedi istituzionali come il Consiglio d’Europa di Strasburgo. Un rapporto al Consiglio d’Europa, scritto da relatore presso il Consiglio d’Europa Dick Marty ed emesso il 15 dicembre 2010 afferma che Thaci era il leader del «Gruppo Drenica» incaricato del traffico di organi prelevati dai prigionieri serbi. Come noto ai lettori di Renovatio 21, i trapianti di organo – cioè, la predazione degli organi – possono avvenire solo a cuor battente, e con il ricevente non troppo lontano. Diverse agenzie di stampa internazionali riportarono quindi che in un’intervista per la televisione albanese il 24 dicembre 2010, Thaçi aveva dichiarato che avrebbe pubblicato informazioni sui nomi di Marty e dei collaboratori di Marty. Nel 2011, Marty ha chiarito che il suo rapporto coinvolgeva gli stretti collaboratori di Thaci ma non lo stesso Thaci.   Il 24 aprile 2020, le Camere specializzate per il Kosovo e l’Ufficio del procuratore specializzato con sede all’Aia hanno presentato un atto d’accusa in dieci capi per l’esame della Corte, accusando Thaci e altri di crimini contro l’umanità e crimini di guerra, tra cui omicidio, sparizione forzata di persone, persecuzioni e torture.   Non si contano le foto dei nostri politici con Thaci, divenuto presidente del neo-Stato kosovaro, scattate con i nostri primi ministri, presidenti, politici – molti dei quali, ancora oggi attivi a sinistra, ebbero un ruolo nella guerra a seguito della quale il Kosovo albanese fu creato, con i caccia statunitensi che partivano dall’Italia…

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Pensate sia finita? Macché: ci è stato servito, in questi anni, un bel sequel. Una bella guerra proxy sostenuta dalla NATO sempre contro i russi, ma stavolta ancora più direttamente: non più i cugini serbi, ma i fratelli ucraini.   Eccoti riservita la sbobba della vittima: Kiev, poverella fra le Nazioni, deve essere sostenuta con miliardi e armi, perché vittima dell’invasione dell’orco russo. Ecco che spuntano fuori stragi compiute dai russi malvagi, come Bucha, di cui per qualche ragione non si parla più: ma lo status di vittima dell’Ucraina, Paese aggredito, rimane inscalfibile, lo dice pure Giorgia Meloni.   Pazienza se la vittima ha, come dire, forti simpatie naziste, si chiude un occhio anche qui. Pazienza pure se – è capitato – emerge pure qualche collegamento con il fondamentalismo islamico. Pazienza se la vittima è accusata di abominevoli torture e di aver compiuto crimini di guerra, di essere un pericolo per gli stessi Paesi che la sostengono. La storiella atlantica va avanti spedita, e comincia a fregarsene platealmente delle vostre dissonanze cognitive.   Quale pensate che sia, anche qui, uno degli effetti collaterali dello schemino geostrategico occidentale? Indovinato: anche qui si è parlato, e plurime volte in questi anni, di traffico degli organi in zona di guerra, con coinvolti, secondo le accuse russe, personaggi israelo-ucraini che avevano già calcato la scena in Kosovo.   Il film dell’orrore lo abbiamo già visto. Sappiamo come va a finire.   È il caso di uscire dal cinema NATO. Al più presto.   Roberto Dal Bosco

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Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia

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In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.

 

Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.

 

Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.

 

Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.

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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.

 

Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.

 

Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.

 

Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.

 

Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.

 

Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.

 

Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.

 

Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.

 

E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.

 

Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.

 

Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.

 

Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.

 

Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».

 

Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».

 

Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.

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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.

 

Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.

 

E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.

 

Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.

 

Patrizia Fermani

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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano

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