Connettiti con Renovato 21

Politica

America midterminale: brogli, blocco storico, guerra civile. Verso l’ondata rosso sangue?

Pubblicato

il

Il risultato finale delle elezioni midterm USA ancora non c’è, perché il Paese più ricco del mondo, dove in molti casi si vota con un aggeggio elettronico piazzato al seggio, non riesce a contare i voti in poche ore come fa il resto del mondo. Qualcuno ha fatto notare che lo spoglio delle elezioni del 1872, tenute nel bel mezzo alla furia della (prima) Guerra Civile Americana, ci aveva messo meno.

 

E poi lo aveva detto, excusatio non petita del decennio, lo stesso Biden qualche giorno fa: il dovere di chi crede nella democrazia è aspettare giorni e giorni che finiscano lo spoglio, perché c’è questa cosa del voto per corrispondenza, quello che in genere è totalmente democratico, da tener presente.

 

Ci sarebbe da ridere se non fosse che tutto fa pensare che l’America sia diretta verso il dirupo: la frantumazione della sua società, la polarizzazione più o meno indotta per via informatica (i social neotribalizzanti, i media mainstream di partigianeria assoluta), è oramai chiaramente irreparabile. La società americana è divisa in modo inconciliabile. Bisogna prendere atto di ciò che questo significa.

 

Significa, innanzitutto, che la convivenza non è più possibile. Da una parte, l’America delle due coste oceaniche, l’America di New York e della California, di New York e Los Angeles, della Pennsylvania e dell’Oregon: blu profondo, democratici che comandano come nemmeno la famiglia Saud, spettacoli di drag queen per i bambini di neanche dieci anni scuole elementari pubbliche, lockdown senza fine, sottomissione vaccinale totaleanche dei bambini –, armi a volontà per l’Ucraina.

 

Dall’altra, tutti i Flyover States, l’America citeriore degli Stati che nessuno ricorda mai, devastati dalla delocalizzazione della manifattura e dalla strage degli oppioidi inferta alla classe media e lavoratrice dal combinato disposto di Big Pharma e dei cartelli narcoterroristi messicani con forniture cinesi di fentanil. Più la Florida, espugnata una volta per tutte dal governatore Ron De Santis, che stacca di 20 punti l’avversario democratico e stravince perfino nei distretti dove nel 2016 Hillary Clinton dava 30 punti a Trump.

 

Nessuno dialogo fra le parti è possibile. Anche perché oramai i segni di irrazionalità dell’elettorato democratico sono incontestabili. E stupefacenti.

 

Pur di non votare un repubblicano, i democratici della Pennsylvania hanno votato un uomo con evidenti danni cerebrali, uno che nella vita precedente all’ictus non aveva mai avuto un lavoro, un’idea originale, nulla, se non puntare un fucile sul petto di jogger di colore in strada fuori da casa sua. Un candidato cyborg, che può capire quel che gli si dice solo tramite un computer, e che aveva dato prova TV pochi giorni fa di una situazione disperata, e imbarazzante per tutti, del suo deficit cognitivo. Vergognoso, inguardabile.

 

Ebbene, lo hanno votato. L’elettorato blu ha fatto finta di nulla: pur di non aver un repubblicano a Washington, votiamo il danno cerebrale.

 

Non che la cosa sorprenda: i democratici sono gli stessi che fischiettano davanti agli evidenti, tristi episodi pubblici di demenza senile di Joe Biden, l’uomo che ha sempre con sé il football, la valigetta con i codici di lancio per l’attacco termonucleare definitivo.

 

L’elettorato è estremizzato fino alla cecità, alla vera vergogna.

 

Peggio: dopo i problemi – annunciati, annunciatissimi – alle macchine di voto in Arizona (e sempre nella contea di Maricopa, ma che strano), il messaggio subliminale che sta passando, a destra e a sinistra, è quello che, una volta recepito e sedimentato nelle coscienze degli elettori, mette fine per sempre alla democrazia: accettate l’inevitabilità dei brogli elettorali. Rassegnatevi al fatto che le elezioni saranno opache, e i loro risultati questionabili. Abituatevi al fumo e alla nebbia.

 

Questo è quello che viene detto pubblicamente: se metti in discussione le elezioni, sei un criminale, ha detto Biden, come ripetuto ossessivamente dal novembre 2020 dai quasi tutti i media mainstream. Chi ha osato parlare di irregolarità – avvocati, politici, attivisti canali di frangia – si è trovato magari con querele per miliardi di dollari.

 

Tuttavia, tra malfunzionamenti elettoral-informatici e ballot drop di voti postali, il concetto che passa sottopelle è quello di abituarsi a elezioni che possono sembrare non sempre credibili, elezioni contestate, dove il dibattito viene messo a tacere tramite forze dell’ordine.

 

E così, una parte del popolo americano, riconosce lo stato semi-terminale della sua democrazia, e si chiede: devo proprio vivere con chi mi disprezza, con chi mi ha bloccato in casa per due anni facendo fallire la mia attività, con chi mi sta inondando di immigrati facendo finta di niente, con chi provoca chi impedisce a mio figlio di andare a scuola (e quando ci va, lo fa assistere a spettacoli di transessuali), con chi scherza con il fuoco atomico in Ucraina?

 

Più ancora, parte dell’elettorato, vedendo che nonostante i fallimenti e i pericoli della demente amministrazione Biden e dei suoi epigoni al Senato, al Congresso e nei campidogli degli Stati blu la polarizzazione zelota non consente alcun passo indietro – non c’è stata nessuna Red Wave, l’ondata repubblica, tantomeno un Red Tsunami come alcuni predicevano – stanno elaborando la sconcertante conclusione che da questo blocco storico (Gramsci lo chiamerebbe così) non è possibile trovare una soluzione democratica. Non se la democrazia passa attraverso un voto non credibile, inguardabile, impossibile.

 

Da qui, facile tornare a pensare, ancora una volta, che l’output di tutto questo processo storico, innestatosi nei nostri anni, sarà la guerra civile. Non lo dicono più solo le Cassandre o i nazionalisti. Lo scrive il Guardian, giornale londinese della sinistra globale (che prende qualche soldino da Bill Gates, vabbè), che manda in stampa il giorno prima delle elezioni un articolo intitolato «Queste sono le condizioni mature per la violenza politica: quanto sono vicini gli Stati Uniti alla guerra civile?»

 

Insomma, la Guerra Civile, quasi quasi, la dichiara non la parte che vuole secedere, ma la sinistra al potere, la sinistra fusa con l’establishment, il Deep State, lo Stato-partito.

 

Quindi, sì, la situazione è a dir poco esplosiva.

 

Resta da vedere cosa accadrà: De Santis è ora di fatto il candidato repubblicano numero uno per le presidenziali 2024. Trump, che aveva mostrato il tocco di Mida per i «suoi» candidati praticamente tutti promossi alle primarie, ne esce distrutto: i suoi candidati più importanti, come Mehmet Oz, hanno perso.

 

Quindi, De Santis, l’omino perfetto (Harvard, Yale, veterano d’Iraq, origini etniche – italiane – ma look da ragazzotto con occhio ceruleo, più lotta dura al lockdown, all’obbligo vaccinale e pure al gender a scuola e alla Disney), riuscirà a ricomporre l’animo di chi, oggi, sta perdendo completamente fiducia nel sistema americano. Perché, se non ce la farà, sappiamo bene dove potrebbero confluire le energie rivoluzionarie: prima verso Trump, poi verso la Guerra Civile.

 

Sì, tra la realtà di oggi e un conflitto fratricida potrebbe esserci di mezzo, a far da barriera, solo il biondo costruttore del Queens.

 

Nel frattempo, qualcuno ancora spera, aggrappato a Kari Lake, la fotogenica candidata supertrumpiana al governatorato dell’Arizona, che ha promesso non solo di sigillare il confine col Messico e dichiarare guerra ai cartelli narcos, ma anche di ritirare fuori le carte delle elezioni 2020 nel suo Stato, in particolare proprio nella Contea di Maricopa, che, guarda un po’, anche quest’anno dà qualche problemino.

 

Che dire, era data per vincente: mentre scriviamo, a 48 ore dalla chiusura dei seggi, dopo disfunzioni ai computer e lettere con polverina che assomiglia all’antrace inviate al suo Comitato elettorale, siamo al 70% delle sezioni scrutinate, una cosa che nemmeno certe circoscrizioni siciliane, anzi, ci scusiamo per il paragone, perché di fatto un paragone per una cosa così oscena – e sospetta – non può esserci.

 

La sfidante della Lake, l’attuale segretario di Stato dell’Arizona Katie Hobbs, ha rifiutato ogni dibattito pubblico con la Lake, ha fatto campagna elettorale, secondo l’espressione americana «from the basement», cioè chiusa in cantina: nessuno la ha vita, nessun bagno di folla, nessun discorso pubblico degno di nota.

 

Ebbene, secondo i dati parziali, la Hobbs sarebbe avanti di una decina di migliaia di voti, 50,3% contro il 49,7 della Lake in questo momento. Può vincere un candidato che fa campagna elettorale dalla taverna?

 

Beh, sì. Potreste avere un déjà vu, ricordando quel 2020 in cui Biden non si vide da nessuna parte, mentre Trump arringava masse infinite in ogni città del Paese.

 

E la questione è proprio questa: il voto, espresso o no che sia, corretto o brogliato che sia, non conta più nulla, non cambia niente, può pensare l’americano medio.

 

E da lì, la democrazia midterminale diviene terminale. La fuga da questa condizione è ciò che potrebbe causare una vera Red Wave, un’ondata rossa, ma non nel senso del voto pro Partito Repubblicano: un’ondata rossa perché colorata di sangue.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Immagine di Gage Skidmore via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0)

 

 

 

Politica

Orban dice che l’UE potrebbe andare al «collasso» e chiede accordi con Mosca

Pubblicato

il

Da

L’UE è sull’orlo del collasso e non sopravvivrà oltre il prossimo decennio senza una «revisione strutturale fondamentale» e un distacco dal conflitto ucraino, ha avvertito il primo ministro ungherese Viktor Orban.

 

Intervenendo domenica al picnic civico annuale a Kotcse, Orban ha affermato che l’UE non è riuscita a realizzare la sua ambizione fondante di diventare una potenza globale e non è in grado di gestire le sfide attuali a causa dell’assenza di una politica fiscale comune. Ha descritto l’Unione come entrata in una fase di «disintegrazione caotica e costosa» e ha avvertito che il bilancio UE 2028-2035 «potrebbe essere l’ultimo se non cambia nulla».

 

«L’UE è attualmente sull’orlo del collasso ed è entrata in uno stato di frammentazione. E se continua così… passerà alla storia come il deprimente risultato finale di un esperimento un tempo nobile», ha dichiarato Orban, proponendo di trasformare l’UE in «cerchi concentrici».

Sostieni Renovatio 21

L’anello esterno includerebbe i paesi che cooperano in materia di sicurezza militare ed energetica, il secondo cerchio comprenderebbe i membri del mercato comune, il terzo quelli che condividono una moneta, mentre il più interno includerebbe i membri che cercano un allineamento politico più profondo. Secondo Orbán, questo amplierebbe la cooperazione senza limitare lo sviluppo.

 

«Ciò significa che siamo sulla stessa macchina, abbiamo un cambio, ma vogliamo muoverci a ritmi diversi… Se riusciamo a passare a questo sistema, la grande idea della cooperazione europea… potrebbe sopravvivere», ha affermato.

 

Orban ha accusato Brusselle di fare eccessivo affidamento sul debito comune e di usare il conflitto in Ucraina come pretesto per proseguire con questa politica. Finché durerà il conflitto, l’UE rimarrà una «anatra zoppa», dipendente dagli Stati Uniti per la sicurezza e incapace di agire in modo indipendente in ambito economico, ha affermato.

 

Il premier magiaro ha anche suggerito che, invece di «fare lobbying a Washington», l’UE dovrebbe «andare a Mosca» per perseguire un accordo di sicurezza con la Russia, seguito da un accordo economico.

 

Il primo ministro di Budapest non è il solo a nutrire queste preoccupazioni. Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale e di altre istituzioni hanno lanciato l’allarme: l’UE rischia la stagnazione e persino il collasso a causa di sfide strutturali, crescita debole, scarsi investimenti, elevati costi energetici e tensioni geopolitiche.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

Continua a leggere

Politica

Il passo indietro di Ishiba: nuovo capitolo nella lunga crisi del centro-destra giapponese

Pubblicato

il

Da

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il primo ministro giapponese ha annunciato ieri le dimissioni dopo settimane di tensioni con i membri del Partito Liberaldemocratico, in difficoltà di fronte alla perdita di consenso tra gli elettori conservatori. Diversi candidati si sono già fatti avanti segnalando la volontà di succedere a Ishiba nella presidenza del partito, ma resta il nodo della guida del governo senza la maggioranza in parlamento.   A meno di un anno dal suo insediamento, il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba ha annunciato ieri le dimissioni, aprendo una nuova fase di incertezza politica. La decisione è una conseguenza delle crescenti pressioni all’interno del suo stesso partito, il Partito Liberaldemocratico (LDP), che alle ultime elezioni ha subito significative sconfitte, arrivando a perdere la maggioranza in entrambe le Camere.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

Ishiba si è assunto la responsabilità per i pessimi risultati dell’LDP alle elezioni della Camera dei Consiglieri a luglio e ha sottolineato che le sue dimissioni servono a prevenire un’ulteriore spaccatura all’interno del partito. Già a luglio, il quotidiano giapponese Mainichi aveva per primo riportato che Ishiba si sarebbe dimesso, basandosi su informazioni raccolte tra il premier e i suoi più stretti collaboratori.   Le prime indiscrezioni indicavano che i preparativi per la corsa alla presidenza dell’LDP sarebbero iniziati entro agosto. Ishiba, tuttavia, aveva pubblicamente smentito queste notizie e nelle sue affermazioni aveva sottolineato l’importanza di portare a termine le trattative sui dazi con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva imposto il primo agosto come scadenza ultima.   Nel suo discorso di ieri, Ishiba ha spiegato che l’annuncio delle dimissioni a luglio avrebbe indebolito la posizione del Giappone: «chi negozierebbe seriamente con un governo che dice “ci dimettiamo”?», ha detto.   Ishiba ha poi cercato di placare le pressioni interne all’LDP minacciando di sciogliere la Camera dei Rappresentanti e indire elezioni anticipate, una mossa che ha esacerbato le divisioni e spinto il principale partner di coalizione, il partito Komeito, a ritenere inaccettabile la decisione. Secondo l’agenzia di stampa Kyodo, l’ex primo ministro Yoshihide Suga e il ministro dell’Agricoltura Shinjiro Koizumi entrambi tenuto colloqui con il premier sabato, evitando una scissione all’interno del partito e aprendo la strada all’annuncio delle dimissioni di ieri.   Ora l’attenzione si sposta sulla scelta del prossimo leader dell’LDP, che potrebbe assumere anche la carica di primo ministro se ci fosse una qualche forma di sostegno o di accordo anche con le opposizioni. Tra i principali contendenti ci sono membri del partito che avevano già sfidato Ishiba in passato, tra cui Sanae Takaichi, ex ministra per la sicurezza economica, che ha ricevuto il 23% dei consensi in un recente sondaggio di Nikkei. Takaichi fa parte dell’ala conservatrice e ha una forte base di sostegno tra i fedelissimi dell’ex primo ministro Shinzo Abe, di cui è considerata l’erede, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche, che potrebbero favorire una ripresa dei mercati azionari. Takaichi ha inoltre la reputazione di andare d’accordo con il presidente Donald Trump.   Anche Shinjiro Koizumi, attuale ministro dell’Agricoltura e figlio dell’ex leader Junichiro Koizumi, è un altro papabile candidato, dopo essere riuscito ad abbassare i prezzi del riso appena entrato in carica. Il sondaggio di Nikkei ha registrato un 22% dei consensi nei suoi confronti.   Altri membri del partito hanno segnalato la volontà di candidarsi, tra cui Yoshimasa Hayashi, attuale segretario capo del Gabinetto e portavoce principale del governo Ishiba, che si è classificato quarto nella corsa per la leadership del partito del 2024. Tra gli altri contendenti figurano Takayuki Kobayashi, un altro ex ministro per la sicurezza economica che gode di un maggiore sostegno all’interno dell’ala centrista, e Toshimitsu Motegi, ex segretario generale dell’LDP e il più anziano tra i candidati con i suoi 69 anni.   L’LDP oggi si trova in una posizione di forte debolezza. Molti elettori conservatori alle ultime elezioni hanno preferito il partito di estrema destra Sanseito anche a causa dell’allontanamento di Ishiba dall’ala conservatrice.

Iscriviti al canale Telegram

Secondo un sondaggio di Kyodo, condotto prima che fossero riportate le dimissioni di Ishiba, l’83% degli intervistati ha dichiarato che un chiarimento pubblico del partito sulle ultime sconfitte non avrebbe comunque aumentato la fiducia degli elettori. È chiaro, quindi, che il compito del prossimo presidente di partito sarà quello di ripristinare la credibilità del centrodestra.   Chiunque verrà scelto si troverà davanti a un’importante decisione: se indire elezioni anticipate per cercare di riconquistare la maggioranza alla Camera bassa o rischiare di perdere il potere del tutto. Quest’ultima scelta rischierebbe di aprire una nuova fase di instabilità politica senza precedenti, che richiederebbe la ricerca di sostegno anche tra i partiti dell’opposizione per approvare le leggi e i bilanci.   Secondo diversi commentatori, il prossimo leader dovrà prima di tutto godere di una genuina popolarità sia all’interno che all’esterno del partito per affrontare sfide come l’invecchiamento della società, la forza lavoro in calo, l’inflazione e i timori che gli Stati Uniti possano abbandonare il loro ruolo di garanti della sicurezza nella regione asiatica.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21
 
Continua a leggere

Politica

Il governo francese collassa

Pubblicato

il

Da

Il governo francese è collassato dopo che il Primo Ministro François Bayrou ha perso un cruciale voto di fiducia in Parlamento lunedì. Bayrou è il secondo primo ministro consecutivo sotto Emmanuel Macron a essere destituito, precipitando la Francia in una crisi politica ed economica.

 

Per approvare una mozione di sfiducia all’Assemblea Nazionale servono almeno 288 voti. Quella di lunedì ne ha ottenuti 364, con il Nuovo Fronte Popolare di sinistra e il Raggruppamento Nazionale di destra coalizzati per superare lo stallo sul bilancio di austerità di Bayrou.

 

Dopo aver resistito a otto mozioni di sfiducia, Bayrou ha convocato questo voto per ottenere supporto alle sue proposte, che prevedevano tagli per circa 44 miliardi di euro per ridurre il debito francese in vista del bilancio di ottobre.

Sostieni Renovatio 21

Bayrou, che aveva definito il debito pubblico un «pericolo mortale», sembra aver accettato la sconfitta. Domenica, ha criticato aspramente i partiti rivali, che, pur «odiandosi a vicenda», si sono uniti per far cadere il governo.

 

Bayrou è il secondo primo ministro deposto dopo Michel Barnier, rimosso a dicembre dopo soli tre mesi, e il sesto sotto Macron dal 2017.

 

La caduta di Bayrou lascia Macron di fronte a un dilemma: nominare un Primo Ministro socialista, cedendo il controllo della politica interna, o indire elezioni anticipate, che i sondaggi indicano favorirebbero il Rassemblement National di Marine Le Pen.

 

Con la popolarità di Macron al minimo storico, entrambe le opzioni potrebbero indebolire ulteriormente la sua presidenza. Gli analisti temono che una perdita di fiducia dei mercati nella gestione del deficit e del debito francese possa portare a una crisi simile a quella vissuta dal Regno Unito sotto Liz Truss, il cui governo durò meno della via di un cavolo prima della marcescenza.

 

Il malcontento verso Macron è in crescita: un recente sondaggio di Le Figaro rivela che quasi l’80% dei francesi non ha più fiducia in lui.

 

Come riportato da Renovatio 21, migliaia di persone hanno protestato a Parigi nel fine settimana, chiedendo le dimissioni di Macron con slogan come «Fermiamo Macron» e «Frexit».

Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21

SOSTIENI RENOVATIO 21


 

Immagine di © European Union, 1998 – 2025 via Wikimedia pubblicata secondo indicazioni

 

Continua a leggere

Più popolari