Eutanasia
Alfie, pastori che elogiano i lupi
Don Gabriele Brusco è il sacerdote dei Legionari di Cristo che, a partire da domenica scorsa, assiste spiritualmente Alfie e i suoi genitori nella loro camera di tortura all’interno del lager che va sotto il nome di Alder Hey Hospital.
È cappellano in una parrocchia di Londra, ma, colpito dalla vicenda di Alfie, ha deciso di prendere un treno per Liverpool. «Ho seguito da vicino fin dall’inizio sui media e i social l’eroica battaglia di Tom Evans e Kate James per salvare loro figlio, e mi sono commosso. Sapevo che cercavano un sacerdote cattolico e mi sono reso disponibile».
«È visibile che Alfie voglia vivere»
Da quel giorno non ha mai lasciato la stanza del piccolo, sostenendo i genitori e pregando per Alfie.
Padre Gabriele ha amministrato al piccolo Alfie l’Unzione degli infermi e la Cresima e ha recitato le preghiere di accompagnamento. «Ho cercato in tutti i modi di evitare pubblicità, ma non ci sono riuscito» dichiara. «A me interessava il sacramento: volevo soltanto far arrivare ad Alfie la forza di Dio e dare coraggio ai genitori». Riferisce che i genitori di Alfie «molte volte vogliono che metta una mano sulla testa del bimbo e mi chiedono di pregare per lui». Di Tom Evans dice: «Mi sembra davvero un Davide contro il Golia dello Stato britannico».
«Purtroppo lui è prigioniero. Forse è un termine pesante, ma di fatto l’ospedale non lo vuole far uscire vivo. Per loro potrà uscire solo da morto»
Ci sono molte altre prove del fatto che don Gabriele appartenga alla razza in via di estinzione dei sacerdoti cattolici. Le sue parole e i suoi gesti sulla incredibile vicenda della famiglia Evans sono sempre stati ispirati a chiarezza e verità, senza incrinature.
«È visibile che Alfie voglia vivere» ha affermato in un’intervista a TV2000. «Umanamente parlando, fin dall’inizio sembrava una situazione impossibile. Sarebbe servito solo un miracolo. E fin dall’inizio ho pregato per il miracolo. Di fatto, ci sono stati tanti piccoli miracoli. Anche se noi ci aspettiamo il grande miracolo, cioè che venga in Italia o che comunque possa uscire da questo ospedale. Purtroppo lui è prigioniero. Forse è un termine pesante, ma di fatto l’ospedale non lo vuole far uscire vivo. Per loro potrà uscire solo da morto».
Il sacerdote nei giorni trascorsi non ha mancato di rivolgersi anche al personale sanitario, illustrando la necessità dell’obiezione di coscienza quando si sia chiamati a collaborare a una procedura volta a porre fine a una vita umana. «Le leggi umane si possono infrangere per seguire quelle di Dio: ho detto loro della banalità del male».
In coincidenza temporale con l’ordine superiore per il quale don Gabriele è stato costretto a lasciare il suo presidio, guarda caso, l’arcivescovo di Liverpool Malcolm Patrick McMahon incontrava Bergoglio. Curioso che dalla Santa Sede nessuno abbia parlato dell’incontro.
La reazione delle infermiere, riferisce don Gabriele, è apparsa stizzita e infastidita: «Questa è la sua opinione», hanno risposto. «Io ho dovuto ribadire la verità, qualcuno forse avrà crisi di coscienza, forse questa notte non dormirà, ma era l’ultima cosa che potevo fare».
Questo don Gabriele che – come si può ben comprendere, costituiva un fondamentale baluardo di fede e un grande aiuto concreto per la famiglia Evans nella battaglia contro il male allo stato puro che scatenatasi tra le mura dei quel dannato ospedale – è stato improvvisamente richiamato a Londra dal suo parroco, ieri sera, proprio quando, peraltro, gli era stata garantita una decisiva copertura diplomatica per esercitare liberamente il proprio ufficio.
Nemmeno gli è stato permesso di salutare Thomas, Kate e il piccolo Alfie. Così Alfie e i suoi straordinari genitori sono stati privati del conforto di un vero ministro di Dio, quando tutto intorno a loro è pervaso ormai da una pervicace volontà di morte, divenuta a questo punto addirittura parossistica e disinibita.
Alfie e i suoi straordinari genitori sono stati privati del conforto di un vero ministro di Dio, quando tutto intorno a loro è pervaso ormai da una pervicace volontà di morte, divenuta a questo punto addirittura parossistica e disinibita.
In coincidenza temporale (ma è solo una coincidenza?) con l’ordine superiore per il quale don Gabriele è stato costretto a lasciare il suo presidio, guarda caso, l’arcivescovo di Liverpool Malcolm Patrick McMahon (che non si era più espresso sulla vicenda dopo il tremendo comunicato della conferenza episcopale a sostegno dell’ospedale e dei giudici inglesi) incontrava Bergoglio a seguito dell’udienza generale di ieri, mercoledì 25 aprile. Lo racconta lui stesso in un’intervista al giornale inglese The Tablet.
Curioso che dalla Santa Sede nessuno abbia parlato dell’incontro, magari cogliendo l’occasione per richiamare all’attenzione del mondo lo scandalo di Liverpool.
Nessuna indiscrezione, nemmeno sui quotidiani nazionali italiani. L’arcivescovo di Liverpool – noto per essere un grande conservatore, che celebra persino la Messa Tradizionale – avrebbe riferito a Bergoglio che i cattolici di Liverpool sono «straziati» dal caso di Alfie Evans, ma che la squadra medica e la cappellania dell’ospedale Alder Hey hanno fatto tutto il possibile per aiutare il bambino.
Di Bergoglio dice: »Sono rimasto colpito dal suo atteggiamento compassionevole nei confronti sia di Alfie che dei suoi genitori; ha promesso che continuerà a pregare per loro. Gli ho spiegato che il popolo cattolico di Liverpool ha il cuore spezzato per Alfie e i suoi».
Ma al di là di questo fervorino di prammatica, neanche tanto convincente, ciò che realmente mostra quanto avviene dietro le quinte è il seguito delle dichiarazioni del vescovo di Liverpool. monsignor Mc Mahon, infatti, non ha mancato di ringraziare tutti per «per le cure mediche e spirituali che Alfie sta ricevendo». E ha aggiunto: «so che stanno facendo tutto quello che è umanamente possibile e la nostra preghiera in questo difficile momento è che il Signore possa dare a tutti la forza spirituale per affrontare l’immediato futuro».
In sostanza, tutti sono messi al pari di tutti e, in forza del buonismo irradiato erga omnes dal buon pastore,anche sull’ospedale degli orrori è stesa una patina di rispettabilità e persino di umanità. L’unica parte che esce nemmeno troppo velatamente bastonata dalle dichiarazioni di Mc Mahon è il popolo italiano, la cui intraprendenza nel difendere le ragioni fondate sulla ragione non è stata troppo gradita: «Sono molto consapevole della compassione che caratterizza il popolo italiano verso i bisognosi – in questo caso Alfie – ma so che nel Regno Unito, i nostri apparati medici e legali si basano anche sulla compassione e sulla salvaguardia dei diritti del singolo bambino».
Le dichiarazioni della gerarchia di questa chiesa, vanno vagliate con attenzione per capire che cosa vogliono dire veramente.
Come sempre, le dichiarazioni della gerarchia di questa chiesa, vanno vagliate con attenzione per capire che cosa vogliono dire veramente. E, più si sale, più si deve stare attenti.
Intanto, la polizia di stato britannica è al lavoro per zittire la fronda alla esecuzione pietosa del piccolo suddito di Sua Maestà. L’ispettore capo Chris Gibson ha infatti dichiarato che la polizia di Merseyside è stata messa al corrente di una serie di post sui social media riferiti all’Alder Hey Hospital e all’attuale situazione di Alfie Evans. «Vorrei avvisare le persone del fatto che questi messaggi sono monitorati – minaccia Gibson in un comunicato – e ricordare agli utenti dei social media che qualsiasi attacco, incluse le calunnie e le minacce, sarà esaminato e, ove necessario, si agirà di conseguenza».
La polizia di stato britannica è al lavoro per zittire la fronda alla esecuzione pietosa del piccolo suddito di Sua Maestà
Questo intervento censorio punta a soffocare la rabbia degli stessi inglesi contro l’Alder: sui social si leggono insulti di ogni genere, per la strada si vede gente inferocita. Le macchine che transitano davanti alla prigione del piccolo Alfie suonano il clacson secondo un segnale concordato tra gli abitanti di Liverpool, che in codice vuole dire «Alfie resisti, Alfie non mollare». La furia omicida che si muove contro un innocente e la sua famiglia è oramai impossibile da coprire. Neanche i media ci riescono più.
Eppure i giudici continuano la loro agghiacciante pantomima. La continua anche l’arcivescovo «tradizionalista» di Liverpool. La parte di don Gabriele, evidentemente, non è prevista dal copione.
Cristiano Lugli
Elisabetta Frezza
Fonte: Riscossa Cristiana
Eutanasia
Il vero volto del suicidio Kessler
Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.
Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita.
Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.
Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni.
Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.
E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.
Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.
Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).
Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.
Sostieni Renovatio 21
Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e definitivo che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV o, per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta.
Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.
La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.
Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.
Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.
Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.
Iscriviti al canale Telegram ![]()
Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.
Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico.
Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.
Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.
Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire.
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata
Eutanasia
Gemelle Kessler, Necrocultura Dadaumpa
Aiuta Renovatio 21
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Eutanasia
Celebrità ed eutanasia: ecco l’orrore del suicidio assistito dei famosi
Un’altra celebrità ha deciso di morire attraverso il suicidio assistito. Questa volta è toccato all’artista americana Jackie Ferrara, acclamata scultrice le cui opere sono esposte al Museum of Modern Art di New York (MOMA). Lo riporta LifeSite.
La Ferrara è morta il 22 ottobre scorso, a 95 anni. Non era malata. Non soffriva. Semplicemente aveva deciso che «non voleva più dipendere da nessuno».
«Non voglio una badante», aveva dichiarato in un’intervista al New York Times. «Non ho mai voluto nessuno. Mi sono sposata tre volte. Mi basta». Parole che rivelano più una solitudine esistenziale che una reale sofferenza fisica.
Negli Stati Uniti Ferrara non avrebbe potuto accedere al suicidio assistito: la legge lo consente solo a chi è affetto da malattie terminali. Così, ha scelto di recarsi in Svizzera, in centro eutanatico di Basilea, dove è morta tramite iniezione letale.
Sostieni Renovatio 21
È l’ennesimo caso di una lunga lista di personaggi noti che scelgono di farsi togliere la vita e che i media raccontano con toni entusiastici, quasi celebrativi. Ferrara segue, a un solo mese di distanza, la morte della sopravvissuta all’Olocausto Ruth Posner e di suo marito, anch’essi «accompagnati» nello stesso centro elvetico.
Il risultato ovvio della crescente quantità di celebrità auto-eutanatizzatesi è una normalizzazione della morte procurata, presentata come un atto di autodeterminazione, di coraggio, persino di eleganza. Il suicidio tramite lo Stato moderno è cool.
La sofferenza — anche solo potenziale, futura o immaginata — diventa motivo sufficiente per essere «aiutati a morire». Siamo quanto più lontani possibile dal cristianesimo.
Un tempo, i suicidi delle celebrità erano considerati tragedie. Il mondo intero pianse il cuoco, scrittore e fortunatissimo personaggio TV Anthony Bourdain, morto impiccato in una stanza d’albergo nel 2018. La Corea del Sud continua a interrogarsi su un’ondata drammatica di suicidi nel mondo dello spettacolo. Quelle morti erano viste per ciò che erano: drammi umani, segnali di dolore, non esempi da imitare.
Oggi, invece, quando il suicidio avviene con il consenso medico o statale, cambia la percezione. Se la Ferrara si fosse tolta la vita da sola, sarebbe stata compatita. Ma poiché a iniettare il veleno è un medico e tutto avviene in un contesto «ordinato», si parla di «assistenza sanitaria».
E così, la tragedia diventa «scelta», la morte diventa «diritto», e chi solleva dubbi è un bigotto moralista, probabilmente anche razzista, misogino, omofobo ed antisemita.
Dietro la patina di libertà individuale si nasconde un messaggio inquietante: la vita vale solo finché è autonoma, produttiva, indipendente. Quando si invecchia, quando si teme la dipendenza, quando si perde qualcosa della propria efficienza fisica o mentale, allora si può «scegliere di andarsene».
È una visione profondamente disumana, che riduce la persona al suo stato di salute e trasforma la medicina da arte del curare in pratica del sopprimere.
Le celebrità che si prestano a questa spettacolarizzazione della morte — e i media che la amplificano — contribuiscono a una «cultura di rassegnazione», non di speranza. Anche qui, la distanza dal messaggio di Cristo è immensa.
Iscriviti al canale Telegram ![]()
Celebrando il suicidio assistito come una conquista di civiltà, stiamo insegnando alle nuove generazioni che il dolore non si affronta, si elimina; che la vecchiaia non si accompagna, si abbrevia.
La spettacolarizzazione della morte non è progresso. È una resa morale. E ogni volta che la vediamo — nei titoli dei giornali, nei post celebrativi, nelle interviste patinate — dovremmo avere il coraggio di chiamarla con il suo vero nome: morte di Stato.
Lo Stato moderno, lo sappiamo, odia profondamente il suo popolo, e ne vuole la riduzione, se non l’eliminazione totale. È la chiara conseguenza di uno Stato non-cristiano, quindi anti-umano. Nessuno, tuttavia, pare aver capito che questa è la radice del problema, e non solo per l’eutanasia, ma per ogni altra minaccia (aborti, vaccini, predazioni degli organi, etc.) che la Necrocultura pone alle nostre stesse vite.
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Immagine di Cromely via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
-



Spirito4 giorni faIl vescovo Strickland denuncia Papa Leone e i vescovi per aver scandalizzato i fedeli
-



Spirito1 settimana faMons. Viganò: la mano di Satana ha vergato la nota dottrinale «Mater populi fidelis»
-



Tabarro2 settimane faRenovatio 21 partecipa alla Tabarrata dell’Oca 2025
-



Salute2 settimane faI malori della 45ª settimana 2025
-



Intelligence1 settimana faIl potere della vittima
-



Gender2 settimane faElon Musk racconta la storia agghiacciante sulla radicalizzazione dell’ideologia transgender
-



Bizzarria2 settimane faUomo palpeggia la presidente del Messico
-



Intelligence1 settimana faLe profezie di Yuri Bezmenov














