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Eutanasia

Alfie Evans e il calderone dei traditori

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Sono passati solo pochi giorni dalla morte del piccolo Alfie, avvenuta per mano dello stato omicida e perverso quale è l’Inghilterra, e il clamore mediatico si è già spento, lasciandosi alle spalle l’infanticidio di un innocente perché, come cantavano i Queen, «The Show Most Go on».

 

Riprendersi è dura. Metabolizzare impossibile. Forse, per chi vede i primi passi del proprio figlio ancora meno.

 

Misto a questo dolore però si cela una volontà di giustizia, giustizia che dobbiamo ad Alfie per ciò che, a nome di tutti noi, ha combattuto  contro tutto e tutti.

 

Se si è drammaticamente persa un battaglia – e così è stato – anche a costo di risultare banali occorre dire che la guerra continua, con un’urgenza ancora più grande di prima. Si impone la necessità di separare il grano dalla zizzania, gli amici dai nemici e, soprattutto, svelare i veri volti di tutti i traditori che hanno animato questa triste vicenda e il suo devastante epilogo.

Ora viene il tempo di svelare il vero volto di chi è stato complice di questo omicidio: la neo-chiesa e il Vaticano intero

 

Abbiamo svelato il vero volto di coloro i quali, in nome della medicina totalitarista e delle leggi omicide  hanno condannato al patibolo Alfie Evans. Ora però, per dovere di coscienza, viene il tempo di svelare il vero volto di chi è stato complice di questo omicidio: la neo-chiesa e il Vaticano intero.

 

Bergoglio e la Pontificia Accademia per la Morte

Dopo le numerose pressioni ricevute da gran parte del mondo, Bergoglio è stato costretto ed intervenire attraverso un tweet il 4 aprile scorso, dove invitava a «continuare ad accompagnare con compassione il piccolo Alfie».

 

Ad accompagnarlo dove non ci era dato saperlo. Ora, purtroppo, sì.

D’altronde il boia Anthony Hayden, il 20 febbraio scorso, per emettere la sentenza di morte per il piccolo Alfie utilizzò proprio il messaggio sul «fine-vita» inviato da Bergoglio a Mons. Vincenzo Paglia, CEO della Pontificia Accademia per la Vita.

 

Migliaia di persone chiesero l’intervento del Vescovo di Roma per smentire ed abbattere la strumentalizzazione di queste sue parole. Nessuna risposta pervenne da Santa Marta o adiacenti. Per un semplice motivo: non di strumentalizzazione si era trattato. E a confermarlo fu proprio Paglia, che dando il meglio di sé in un’intervista rilasciata a Tempi il 9 marzo scorso, si guardò bene dal condannare la strumentalizzazione del boia dell’Alta Corte, ma anzi argomentò brillantemente dando ragione ai medici dell’Alder Hey Children’s Hospital:

 

 «Parlare di “soppressione” non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico».

Il lavoro della PAV è sostanzialmente quello di passare da «Pontificia Accademia della Vita» a «Pontificia Accademia della Morte». Se arriveremo all’eutanasia di stato anche in Italia lo dovremo al Vaticano.

 

Il lavoro della PAV è sostanzialmente quello di passare da «Pontificia Accademia della Vita» a «Pontificia Accademia della Morte».

Se arriveremo all’eutanasia di stato anche in Italia lo dovremo al Vaticano.

 

Le briciole erano già state lasciate quando Paglia fu incoraggiato dallo stesso Bergoglio, appena l’anno scorso, con la stesura del codice deontologico vaticano per gli Operatori Sanitari, dove veniva finalmente ammesso che l’idratazione e l’alimentazione dovevano essere concesse «solo se utili».

Di meglio ancora aveva fatto con il Messaggio inviato proprio a Mons. Vincenzo Paglia in occasione del Metting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del «fine vita». Qui Bergoglio, ad esempio,  così diceva»:

Nessuna differenza viene fatta fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, due facce della medesima medaglia: la morte.

«Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte».

 

Nessuna differenza viene fatta fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, due facce della medesima medaglia: la morte.

Per chi ha affinato il naso sulla nuova terminologia tanto in auge, è facile constatare come il termine «accanimento terapeutico» svolga un ruolo molto importante per i passi che conducono all’eutanasia di stato

 

Per chi ha affinato il naso sulla nuova terminologia tanto in auge, è facile constatare come il termine «accanimento terapeutico» svolga un ruolo molto importante per i passi che conducono all’eutanasia di stato. Semplicemente, così facendo, si potrà sempre trovare un appiglio per porre fine alla vita di qualche innocente giudicato troppo indegno per restare in questo mondo tutto pieno di gente per bene, garante di una qualità di vita alta.

 

Così è stato con Alfie, e prima ancora con Charlie ed Isaiah.

 

La pressione mediatica che intanto andava via via crescendo attorno al piccolo bambino condannato a morte, ha spinto Bergoglio ad intervenire nuovamente il 15 aprile con un generico discorso fatto durante il Regina Coeli, e poi con un tweet del 23 aprile scorso in cui si rinnovava l’invito a rispettare il volere dei genitori. Un caso mondiale liquidato in qualche click di tastiera – non certo fatto da lui peraltro – e sempre nel rispetto della terminologia politicamente corretta che parla di volontà, di utilitarismo, ma praticamente mai di Dio e di grave peccato contro di Lui.

Il vescovo di Roma, nella sua intraprendenza progressista e rivoluzionaria ha un evidente difetto: non riesce a fingere.

 

L’incontro a muso lungo

Un tweet costa nulla, un incontro faccia a faccia, ripreso dalle telecamere e al quale non si può sfuggire costa molto, molto di più.

 

Il vescovo di Roma, nella sua intraprendenza progressista e rivoluzionaria ha un evidente difetto: non riesce a fingere.

Un po’ come D’Annunzio , che al Vittoriale aveva una sala d’attesa per gli ospiti graditi e una per gli ospiti sgraditi. Il muso lungo mostrato durante l’incontro con Thomas, avvenuto il 18 aprile, è stato peggiore di quello immortalato durante l’incontro con Donald Trump e famiglia.

 

Le parole da lui pronunziate durante l’udienza generale del mercoledì (avvenuta poco dopo l’appuntamento con il giovane padre di Alfie), e cioè che «l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine naturale è Dio», sono state fondamentalmente richieste da Thomas durante l’udienza privata: nulla di più, nulla di meno.

Come viene normale pensare, se a Bergoglio fosse veramente interessato del bambino inglese avrebbe subito disposto l’ordine di dare tre passaporti vaticani alla famiglia, come spesso ha fatto per immigrati musulmani, prendendosi la scena pubblica che ama.

 

Come viene normale pensare, se a Bergoglio fosse veramente interessato del bambino inglese avrebbe subito disposto l’ordine di dare tre passaporti vaticani alla famiglia, come spesso ha fatto per immigrati musulmani, prendendosi la scena pubblica che ama.

 

Occorre dire, senza mezzi termini, che se vi è stata una mossa sbagliata essa è stata proprio quella di coinvolgere il CEO di Santa Marta, permettendogli così di lavarsi pubblicamente la coscienza e di passare come eroe dell’ultimo momento, che se la cava con due tweet e poche, assurde, inconsistenti parole.

 

Fortunatamente però, come è stato ampiamente dimostrato, «chi di tweet ferisce di tweet perisce»: finalmente gran parte del mondo ha capito che è troppo comoda prendersi il palcoscenico standosene in panciolle dietro ad una tastiera.

 

Il problema è piuttosto di chi, anche mascherando una certa tendenza conservatrice e polemica verso il nuovo pontificato – guai ad andare oltre – gira e rigira torna sempre lì: a voler salvare Bergoglio.

I genitori si erano votati a chiunque, fidandosi ciecamente del Vaticano, ma come vogliamo dimostrare questo è stato un totale fallimento. Di certo non per colpa loro.

 

Il risultato è stato questo, per buona pace di chi sostiene che le grandi manovre fossero state fatte dietro le quinte. I genitori si erano votati a chiunque, fidandosi ciecamente del Vaticano, ma come vogliamo dimostrare questo è stato un totale fallimento. Di certo non per colpa loro.

 

C’è chi è andato, come portavoce della famiglia, a chiedere i passaporti in Vaticano: è stato risposto che se si fosse dovuto smuovere mari e monti per Alfie, allora lo si sarebbe dovuto fare per tutti.

 

Grandi eccellenze incaricate di rapporti diplomatici hanno candidamente fatto capire di non rompere, perché si sarebbe potuto mettere in pericolo il lavoro diplomatico intrapreso dalla Segreteria di Stato Vaticana, che a ben vedere, come al solito, non ha ottenuto nulla.

In forza della diplomazia che nulla costa, nulla compromette ma sempre salva (agli occhi degli ingenui e dei media che li ingozzano) la neo-chiesa tace e abbandona gli agnelli condotti al macello.

 

In forza della diplomazia che nulla costa, nulla compromette ma sempre salva (agli occhi degli ingenui e dei media che li ingozzano) la neo-chiesa tace e abbandona gli agnelli condotti al macello.

 

Il disegno è chiaro. Lo è un po’ meno per chi ancora non ha capito che ai lupi piace sbranare le pecore.

E qui, di lupi travestiti da pastori, ne esistono parecchi. La vena dell’etichetta, dell’esclusiva e del selfie compulsivo o del post demenziale in bacheca, evidentemente fa sì che si possa passare oltre questi “piccoli” dettagli sull’attuale situazione nella Chiesa.

 

Il «tradizionalismo» e il «conservatorismo» uccidono passivamente

Nel mentre il vescovo di Liverpool taceva, insieme a tutta la codarda e ignava Conferenza Episcopale Inglese.

 

Il misericordiae vultus con cui si tentò di liquidare Thomas e Kate fu il riflesso perfetto del falso interesse verso l’essere umano che la neo-chiesa vorrebbe mostrare ogni giorno.

 

Mons. McMahon, infatti, «tradizionalista» tutto d’un pezzo che celebra anche la Messa antica, se ne venne fuori – anch’egli a causa della pressione mediatica che oramai lo aveva schiacciato – dicendo che la diocesi di Liverpool si era interessata alla vicenda dando assistenza spirituale al personale dell’Alder Hey, ma non ai due giovani genitori perché «non sono cattolici».

Il misericordiae vultus con cui si tentò di liquidare Thomas e Kate fu il riflesso perfetto del falso interesse verso l’essere umano che la neo-chiesa vorrebbe mostrare ogni giorno.

 

A parte il fatto che non è vero – e la famosa lettera che Tom scrisse di conseguenza al suo vescovo ne è la dimostrazione – è curioso notare come il sincretismo tanto in voga funzioni sempre solo quando non c’è da metterci la faccia per cause serie.

 

Oltre a ciò, McMahon ebbe il coraggio di dire che l’Alder Hey stava sicuramente agendo bene e per l’interesse del bambino e della famiglia Evans. Questo ancor prima dell’incontro con Bergoglio su cui ritorneremo più sotto, per non scombinare l’ordine cronologico dei fatti e le combinazioni di questo calderone.

 

Il «tradizionalista» McMahon è stato sicuramente sfacciato e ne dovrà rispondere un giorno: come diceva persino Giovanni Paolo II, di cui è certamente figlio spirituale, «arriverà il giudizio di Dio».

 

Tuttavia non è l’unico che ha le mani macchiate di complicità. Nel suo caso, sicuramente, trattasi di complicità attiva. Vi è però anche chi, con la solita inerzia, è c stato complice passivamente: dov’erano tutti quei cardinali e vescovi che marciano per le vie di Roma a favore della vita con circoli, gruppi, circoletti, sitarelli che si ergono a difensori della vita solo quando non costa una sporcata di mani?

 

Ché forse qualcuno pensa di potersi salvare con qualche benedizione fatta da casa, magari elogiando il Santo Padre per la premura avuta con Alfie, o con qualche tweet – come nel caso del Card. Sarah, uscito allo scoperto pochi giorni fa con una tweettata, senza nemmeno fare lo sforzo di scrivere una frase sua ma utilizzandone una del Prof. Lejeune – in grado di far salvare «socialmente» – cioè attraverso i social network orwelliani – la faccia?

 

La cosa più sconvolgente di tutta questa faccenda è stata appunto la codardia mostrata dagli pseudo- conversatori: chi sarebbe intervenuto senza il via libera del biancovestito?

 

Tutti, e dico tutti, hanno aspettato il lasciapassare di Santa Marta. Dopo di quello, un po’ di coda si è creata, segno tangibile che in questo modello falsificato di chiesa non vi è nessuna sussistenza, nessun onore, nessuna virilità da parte di coloro che vestono il color rosso porpora, insigne martyrium.

La cosa più sconvolgente di tutta questa faccenda è stata appunto la codardia mostrata dagli pseudo- conversatori: chi sarebbe intervenuto senza il via libera del biancovestito?

 

Un esempio eclatante di questa triste realtà lo ha dato ancora una volta il vescovo di Reggio-Emilia, Mons. Massimo Camisasca, che invece di organizzare Veglie di preghiera per Alfie, si lamentava della «pressione» di alcuni giovani fedeli che, unico gruppo nella sua Diocesi (e questo già da solo può rendere l’idea del fermento spirituale della Diocesi «rossa» reggiana), ne stavano organizzando una in tempi ristrettissimi e tra mille ostacoli ecclesial-burocratici (quando nella stessa Diocesi, con impressionante facilità, spuntano da diverso tempo veglie contro l’omofobia, la transfobia e simili bestialità).

 

Ebbene, oltre al lamentarsi dell’eccessiva «foga» di questi giovani – fra cui pure il sottoscritto – superbi e mancanti di umiltà nell’osare a chiedere a Sua Eccellenza tempi rapidi, per ovvi motivi che capirebbe chiunque si fosse davvero interessato al caso Alfie Evans (ma evidentemente non era questo il caso), il Vescovo ha lamentato un’idea troppo «battagliera» della Fede cristiana, sposando in toto la versione contraffatta post conciliare di una chiesa traditrice della propria identità missionaria e vuota dell’aspetto Militante che le è proprio.

 

Un portavoce del gruppo di fedeli, chiamato al telefono da Mons. Massimo, dopo esser stato abbastanza attaccato per i contenuti anzidetti, cercando di far capire alla Reverendissima Eccellenza l’urgenza oggettiva e non soggettiva della richiesta, si è sentito così rispondere: «Caso strano le vostre sono sempre urgenze prioritarie».

 

Ve ne sono invece altre, come quelle di far visita alle comunità di cristiani LGBT presenti in diocesi, sicuramente molto più urgenti.

 

Questa idea di Fede, totalmente appiattita all’ideale mondano e antropocentrico, viene evidenziata in modo lampante nelle ultime righe del comunicato che Sua Eccellenza ha pubblicato all’indomani del contatto con gli organizzatori della Veglia per Alfie reggiana. Dopo aver citato, esaltandole, «le parole del Santo Padre» su Alfie e il caso del francese Vincent Lambert, Camisasca conclude così:

 

«Benedico perciò ogni iniziativa di preghiera e di supplica a Dio. Non si tratta di una battaglia, ma di una vera affermazione di umanità e di amore all’uomo, a ogni uomo».

 

Mons. Camisasca, lo stesso Vescovo che non più di un anno fa, davanti agli organizzatori della processione di riparazione del GayPride di Reggio Emilia, ha rimproverato l’iniziativa colpevolizzando il Comitato Beata Giovanna Scopelli di aver favorito il successo mediatico ed economico dell’evento sodomitico.

 

In quell’occasione la Diocesi reggiana «offrì», per evitare la «vergogna» di tanti cattolici armati di rosario per le strade di Reggio Emilia, l’irrinunciabile proposta di una preghiera fatta al termine delle messe parrocchiali pre-festive del weekend precedente al Gay Pride.

 

Il segretario del vescovo avrebbe poi anche dichiarato che ci sono tanti bambini ammalati anche qui da noi, e che di cose brutte ne succedono anche nei nostri ospedali italiani: vi ricorda qualcosa? Come a Roma così a Reggio: «Signora, se lo facciamo per Alfie allora dovremmo farlo per tutti…» (il passaporto).

 

E si pensi che il sito di Notizie Pro Vita mise un cappello ad una lettera inviata a Mons. Camisasca e resa poi pubblica, prendendosi la briga di specificare che «non “la Chiesa”, ma “alcuni uomini di Chiesa” si stanno mostrando insensibili a questa deriva mortifera».

 

Per quanto ecclesiologicamente possa essere una definizione più precisa, rimane da capire dove sia rimasta l’altra parte degli uomini di chiesa, visto che nessuno si è fatto avanti scegliendo piuttosto la passività che uccide e che ha ucciso Alfie Evans all’azione.

 

Utilitarismo statal-ecclesiastico

I sonetti proposti anche dopo il gran chiasso mediatico creatosi attorno alla vicenda erano pregni di quell’utilitarismo tanto caro ai cianciatori del Vaticano, che hanno ripetuto ad abundantiam la necessità di un dialogo fra medici e famiglia, all’insegna del più becero e deleterio utilitarismo volontarista che non bada alla difesa della vita del bambino come miracolo voluto da Dio, ma come oggetto di contesa fra una volontà ed un’altra.

I cianciatori del Vaticano hanno ripetuto ad abundantiam la necessità di un dialogo fra medici e famiglia, all’insegna del più becero e deleterio utilitarismo volontarista che non bada alla difesa della vita del bambino come miracolo voluto da Dio, ma come oggetto di contesa fra una volontà ed un’altra.

 

Paglia, intervistato dalla Rai poche ore dopo il distacco della ventilazione ad Alfie – precisamente il 24 aprile – parlò di «una legge fredda che impedisce di ascoltare i genitori (…) perché la vita non è solo un fatto biologico, ma è relazione, affetto, è sentimento».

 

Messo in discussione il fatto biologico, come fece durante le prime dichiarazioni, Paglia avallò la tesi personalista secondo la quale è per sentimento o volontà che si deve decidere se porre o non porre fine alla vita di qualcuno: «nella decisione non possono non entrare i genitori, e non basta quindi un tribunale per decidere della vita e della morte».

 

Se i genitori di Alfie fossero stati d’accordo, ecco che allora Paglia e il calderone infernale che occupa la PAV avrebbe avuto meno gatte da pelare, gioendo per il lieto fine che avrebbe visto la morte di Alfie con imprimatur genitoriale ed ecclesiale (anche Beppino Englaro stava con i genitori di Alfie in effetti).

 

E per concludere questa tesi di morte autodeterminante, Paglia Vincenzo affermò che è «indispensabile una nuova alleanza fra il campo della medicina e il campo dell’umanità».

«Per quanto concerne il pazienteegli non è padrone di se stesso, del proprio corpo, del proprio spirito. Non può dunque disporne liberamente. Per quanto riguarda i medici, nessuno al mondo, nessuna persona privata, nessuna umana pietà, può autorizzare il medico alla diretta distruzione della vita; il suo ufficio non è di distruggere la vita ma di salvarla».  Pio XII, 1957

 

Giusto per fare un salto indietro nel tempo, quando la Chiesa era Cattolica, è bene vedere quanto disse Pio XII, nel 1957, durante un discorso fatto agli operatori sanitari sulla rianimazione:

 

«Per quanto concerne il pazienteegli non è padrone di se stesso, del proprio corpo, del proprio spirito. Non può dunque disporne liberamente. Per quanto riguarda i medici, nessuno al mondo, nessuna persona privata, nessuna umana pietà, può autorizzare il medico alla diretta distruzione della vita; il suo ufficio non è di distruggere la vita ma di salvarla»

 

Con Alfie è avvenuto l’esatto opposto, con placet della neo-chiesa traditrice del proprio mandato.

 

A tale proposito colpisce anche il comunicato emesso dall’Accademia “Giovanni Paolo II per la Vita e la Famiglia” del 26 aprile, una costola staccatasi dalla PAV.

 

Nella dichiarazione, i membri partono da un presupposto che sembra scivolare sullo stesso errore a cui abbiamo or ora accennato, dando come prioritaria la riflessione sul rapporto genitori-bambino e Stato-bambino: «La domanda più ovvia che dovrebbe pungolare la nostra coscienza collettiva è: chi ha il diritto naturale di prendersi cura di Alfie e salvaguardare il suo migliore interesse? È lo Stato o sono i genitori del bambino? È evidente che i genitori, in virtù della relazione genitore-figlio, hanno il diritto naturale di agire nel miglior interesse e benessere del loro bambino; e l’esercizio di questo diritto non può essere negato ingiustamente dall’interferenza dello Stato coercitivo, tranne nei casi di abuso e negligenza».

 

Chi doveva essere un’alternativa alla Pontificia Accademia per la Vita, finisce per partire dagli stessi presupposti, se vogliamo espressi meglio.

 

Il comunicato non parte infatti nel modo giusto, e cioè affermando in maniera inequivocabile e primaria che Dio solo dona la vita, Dio solo la toglie. Noi abbiamo certo il dovere di custodire la vita facendo tutto ciò che possiamo ed adorando la volontà di Dio comunque vadano le cose. Solo per questo motivo si poteva appoggiare, ma secondariamente, la richiesta dei genitori di trasferire il figlio denunciando come violazione dei basilari e fondamentali diritti umani la negazione di essa.

 

Abbattuti ed invertiti faustianamente i motivi principali per cui difendere la vita, Vaticano & Co., in mezzo alla nebulosa di parole ambigue e meramente antropocentriche, arriva evidentemente a destare anche quel principio, per certi versi assurdo, che permette di fare obiezione di coscienza.

 

Quell’obiezione di coscienza che il povero Padre Gabriele Brusco aveva posto all’attenzione del personale sanitario e medico dell’Alder Hey, facendo presente che esiste una morale, un’etica e un codice deontologico per cui potersi rifiutare di prendere parte ad un atto che si ritiene illecito moralmente e in coscienza.

Alfie, insieme ai suoi genitori, sono stati lasciati nel più totale abbandono: medico, umano e spirituale.

 

Questa civile proposta, è evidente, dev’esser costata lui molto cara: non solo è stato denigrato da tutta l’equipe dell’ospedale inglese – tanto per capire quale dialogo e quale «alleanza fra medici e genitori» si sarebbe potuta stabilire, ma, casualmente a ridosso con l’incontro quasi carbonaro avvenuto fra Bergoglio e Mons. McMahon il 25 aprile scorso a Roma, Padre Gabriele è stato urgentemente richiamato a Londra da un suo superiore.

 

Di lui non si ha più traccia e Alfie, insieme ai suoi genitori, sono stati lasciati nel più totale abbandono: medico, umano e spirituale. 

 

Le passerelle dell’Ospedale Bambin Gesù

Secondo alcuni però, il grande operato di Bergoglio e del Vaticano non starebbe solo nell’azione intrapresa attraverso Mons. Cavina – rivelatasi poi nulla, come già detto – ma anche e soprattutto nell’intervento dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma. In merito a questo sono doverose alcune, serie precisazioni.

 

Le varie passerelle tenutesi a Liverpool dal Presidente dell’ospedale romano non possono passare inosservate, soprattutto per le modalità di azione in cui è stata gestita la vicenda del piccolo Alfie.

 

La Consulta di Bioetica, pronunciandosi attraverso un comunicato agghiacciante, ha però colpito nel segno quando ha evidenziato che «già nel settembre 2017 la famiglia Evans aveva richiesto il parere di due specialisti indipendenti e di tre esperti del Bambin Gesù, i quali hanno cooperato coi medici dell’Adler Hey Hospital, giungendo alla unanime conclusione che “la condizione di Alfie è irreversibile e non più curabile” (Alfie’s condition is irreversible and untreatable). È sulla scorta di questa terribile realtà che i medici dell’ospedale di Liverpool si sono chiesti “se continuare il trattamento di Alfie fosse nel suo miglior interesse” o l’insistenza fosse una forma di accanimento terapeutico e hanno sentito il dovere professionale e morale di dare una risposta precisa, ossia quest’ultima».

 

Il tipo di approccio è perciò da considerarsi errato in partenza, perché si pronuncia sulla condizione clinica del bambino – e quindi sull’impossibilità di curarlo – e non su quel «prendersi cura» di lui nonostante la malattia, peraltro giammai veramente diagnosticata. Grazie a questo tipo di sentenza, sia l’Alder Hey che la Consulta di Bioetica hanno potuto spazzare via la volontà portata in campo mesi dopo dall’ospedale della Santa Sede.

 

Svista, o coscienza di ciò che si stava facendo?

La Consulta di Bioetica ha fondamentalmente ragione. Come mai il Bambin Gesù di Roma, da settembre fino a poco tempo prima che il caso arrivasse alle Alte Corti di boia inglesi, ha taciuto?

 

Se si permette ai necrocultori di attaccarsi a qualcosa, si è loro complici. Ecco perché la Consulta di Bioetica ha fondamentalmente ragione. Come mai il Bambin Gesù di Roma, da settembre fino a poco tempo prima che il caso arrivasse alle Alte Corti di boia inglesi, ha taciuto?

 

Abbiamo visto Mariella Enoc farsi intervistare dietro alle gigantografie di Bergoglio; l’abbiamo vista volare a Liverpool «non per portare via il bambino ma per esprimere ai genitori la vicinanza del Santo Padre».

 

Qual è stato allora, veramente, il loro ruolo in tutta questa macabra vicenda?

Quale contributo hanno portato attraverso il loro dialogo che però, casualmente, è diventato importante solo quando il clamore mediatico non poteva permettere a nessuno di sottrarsi?

E da settembre a poco tempo fa, dove erano finiti tutti coloro che ora piangono Alfie?

 

Qualcuno dice che se ne sono semplicemente fregati.

La Enoc, il giorno stesso della morte del piccolo, dicendosi addolorata ha ribadito l’importanza di «continuare a lavorare tutti insieme e a investire sulla ricerca scientifica perché si possa dare una possibilità a questi bambini e una risposta a queste famiglie». Allo stesso tempo, ha continuato, «dobbiamo anche iniziare una vera riflessione comune, a livello internazionale: dobbiamo mettere insieme scienziati, clinici, pazienti, famiglie istituzioni, perché non si ripetano questi scontri e queste battaglie ideologiche».
Il tipo di battaglia sarebbe solo dunque di natura ideologica.

Inutile commentare.

E’ invece interessante collegarsi al discorso della «ricerca scientifica».

Mercoledì 25 aprile, mentre Bergoglio incontrava il vescovo di Liverpool, sul Corriere della Sera appariva un’intervista rilasciata dalla Enoc sul caso del piccolo Alfie.

«La nostra funzione non è guarire, ma curare, e per cura intendo ogni forma di sostegno» dice la Enoc in veste di Presidente del Bambin Gesù contraddicendo quantomeno le modalità del settembre 2017.

«Bisogna capire le origini genetiche di questa malattia, innanzitutto, per tutelare la giovane mamma nelle future gravidanze»: Non sembra azzardato interpretare le parole della Enoc, pur mantenendo il beneficio del dubbio, come una corsa ai ripari per proporre come potrebbero proporre ai Gard (il caso di Charlie fu relativo appunto ad una patologia mitocondriale) la «Three Parents IVF»: il programma per la fecondazione in vitro a tre genitori.

«Noi avremmo accolto Alfie garantendo le terapie necessarie, senza accanimento terapeutico». Cedendo sui termini tanto cari al sistema eutanatico («accanimento terapeutico»), e che Bergoglio e Paglia amano sovente ripetere, la Enoc arriva poi a parlare curiosamente di genetica:

«Bisogna capire le origini genetiche di questa malattia, innanzitutto, per tutelare la giovane mamma nelle future gravidanze».

Cosa vuol dire questo? Proviamo a rispondere.

Tutti sospettano che dietro alla malattia neurodegenerativa di Alfie vi sia, come ne caso di Charlie Gard, una malattia mitocondriale di natura genetica.

Non sembra azzardato interpretare le parole della Enoc, pur mantenendo il beneficio del dubbio, come una corsa ai ripari per proporre come potrebbero proporre ai Gard (il caso di Charlie fu relativo appunto ad una patologia mitocondriale) la «Three Parents IVF»: il programma per la fecondazione in vitro a tre genitori.

 

Se si scoprisse che la madre è portatrice sana, in provetta saranno pronti a creare il bambino a tre genitori.

 

Come? Facendo fecondare uno spermatozoo con un ovulo che ha il nucleo della «madre» e i mitocondri – se di malattia mitocondriale si tratterà – di un’altra «madre».

 

Geneticamente parlando il bambino sarà figlio non di uno, non di due, ma bensì di tre genitori. Alcuni microbiologi «cattolici», fra cui dei padri domenicani, si stanno del resto adoperando per poter presto affermare che la modifica dei geni per ottenere pazienti ancora più sani delle persone normalmente sane deve essere permessa moralmente.
Questi, dunque, i futuri interessi “scientifici” degli ospedali italiani?

 

Conclusione
La neo-chiesa e tutto l’aria mefitica che ha girato dal Vaticano fino a Liverpool ha responsabilità gravi. Le brecce che sono state aperte negli anni passati sui temi bioetici hanno raggiunto il loro apice, oggi.

 

Da Ratzinger che fu iscritto all’elenco dei donatori di organi definendo la donazione «un atto spontaneo» e di amore – creando i presupposti tecnici per permettere ai predatori diabolici di parlare di «apertura nella Chiesa» per quanto riguarda la cosiddetta morte cerebrale – fino a giungere alla Pontificia Accademia della Vita che vuole palesemente l’eutanasia di Stato.

Alfie è la nuova vittima sacrificata, che fa comodo, che rompe gli argini ancora rimasti in piedi sotto il boato di silenzio di una neo-chiesa complice e sfacciatamente colpevole. Al Cardinal Nichols è stata affidata la conclusione di questo racconto dell’orrore, senza che nessuno, e dico nessuno, levasse la voce contro le sue bestialità pronunciate a cadavere caldo.

 

L’incontro e i sorrisi a 33 denti fra Bergoglio e Katy Perry, avvenuto il giorno dopo la morte di Alfie, tracciano un evidente interessamento per i personaggi a cui tutt’alpiù bisognerebbe sputare in faccia. Nota satanista per stessa ammissione dei genitori, la Perry è per logica conseguenza una grande cultrice dei diritti LGBT e dell’eutanasia.

 

Conoscendo i suoi videoclip parasatanisti, sarà probabilmente  contenta che il bambino Alfie sia stato sacrificato al Male.

 

Tutti gli accordi presi nel silenzio e nel calo del clamore mediatico ne sono la triste riprova: Alfie è morto da solo.

 

La sua morte è stata overtianamente accettata nel momento in cui tutti, “cattolici” in primis, hanno detto straziati e con fare edulcorato che «Alfie si è spento», che «Alfie è volato via».

Chi ama la vera Chiesa – è il caso di dirlo – oggi deve odiare il Vaticano insieme a tutto l’aria metifica che lo circonda. Bisogna distruggere le fondamenta di questa neo-chiesa, staccarsi da essa, denunciarla. Essa è la rappresentazione più anticristica che vi possa essere e sta preparando, con gran cura, il gran trono su cui far sedere l’Antico Avversario.

Eppure Thomas lo aveva detto nello stesso pomeriggio in cui poi, misteriosamente, calò il silenzio: «Il Papa venga qui a vedere cosa sta succedendo»…

Chi ama la vera Chiesa – è il caso di dirlo – oggi deve odiare il Vaticano insieme a tutto l’aria metifica che lo circonda.

 

Bisogna distruggere le fondamenta di questa neo-chiesa, staccarsi da essa, denunciarla. Essa è la rappresentazione più anticristica che vi possa essere e sta preparando, con gran cura, il gran trono su cui far sedere l’Antico Avversario.

Il piccolo gregge di fedeli deve opporsi con tutte le forze possibili.

 

L’intercessione di quei piccoli martiri uccisi in sfregio a Dio sarà con noi.

Il loro sangue innocente sarà quello che si abbatterà insieme al braccio di Cristo su tutto il calderone di morte che è stato creato contro di loro, contro il miracolo della Vita fin dal suo concepimento che è, in fondo, la perfetta immagine riflessa dell’Incarnazione di Nostro Signore, unico Padrone di tutte le cose, della Vita e della Morte, dando Vita Eterna ai giusti e dannazione senza fine ai malvagi.

 

 

Cristiano Lugli

 

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Eutanasia

Slovenia, eutanasia respinta dal referendum

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Il Parlamento sloveno ha approvato la legalizzazione dell’eutanasia, ma una campagna popolare è riuscita a respingere la legge tramite un referendum tenutosi domenica 23 novembre 2025.

 

Infatti, nel luglio 2025, il Parlamento di questo Paese senza sbocco sul mare, confinante con Italia, Austria, Ungheria e Croazia e affacciato sul Mar Adriatico, ha approvato una legge per legalizzare l’eutanasia. Il Parlamento è composto da due camere: l’Assemblea Nazionale e il Consiglio Nazionale.

 

Sembrava che il dado fosse tratto e che la Slovenia si fosse unita al crescente numero di paesi che rifiutavano sempre più la legge naturale e divina adottando il suicidio assistito e l’eutanasia, nonostante circa due terzi della popolazione si identificasse come cattolica.

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Organizzare un referendum

Ma la coscienza cattolica ha reagito: un gruppo chiamato «Voice for Children and Family» ha organizzato una raccolta firme contro la legge, raccogliendo rapidamente 46.000 firme, sufficienti per innescare un referendum.

 

La sfida era trasformare questa opportunità in un successo. In Slovenia, affinché un referendum sia valido, almeno il 20% degli 1,7 milioni di elettori registrati nel Paese deve recarsi alle urne. Questa soglia è stata ampiamente superata, con oltre il 40% degli elettori presenti.

 

Ma era necessario anche prendere in considerazione una campagna a favore dell’eutanasia, promossa dalla maggioranza dei politici e sostenuta da finanziamenti ingenti. Il primo ministro Robert Golob ha chiesto ai cittadini di sostenere la legge affinché “ognuno di noi possa decidere autonomamente come e con quale dignità porrà fine alla propria vita”.

 

Gli oppositori dell’eutanasia hanno organizzato la loro campagna attraverso una coalizione di vari gruppi pro-life e campagne porta a porta per convincere gli sloveni. La coalizione ha ricevuto il sostegno della Chiesa cattolica e di alcuni partiti di opposizione.

 

Alla fine, il referendum contro l’eutanasia ha avuto successo. Tuttavia, la vittoria è stata risicata: il 53% ha votato contro la legge sull’eutanasia e il 47% a favore. Oltre alla maggioranza, la legge richiede che la proposta referendaria riceva il sostegno del 20% degli elettori.

 

Ales Primc, direttore di Voz za otroke in družino (Voce per i bambini e la famiglia), si è rallegrato per la vittoria della «solidarietà e della giustizia» e per il rifiuto della Slovenia delle riforme governative “basate sulla morte e sull’avvelenamento. … È un miracolo”, ha aggiunto, “la cultura della vita ha trionfato sulla cultura della morte”.

 

Purtroppo, il referendum significa solo che il governo non potrà introdurre un’altra legge sull’eutanasia per dodici mesi. È certo che, tra poco più di un anno, un nuovo disegno di legge sarà presentato in Parlamento, ignorando la sacrosanta «volontà generale».

 

Tuttavia, come commenta InfoCatolica , «le misure contrarie alla legge naturale devono avere successo una sola volta». Non importa che vengano respinte e falliscano ripetutamente: una volta approvate, le leggi sull’eutanasia, il divorzio, l’aborto o il «matrimonio» tra persone dello stesso sesso sono considerate immutabili.

 

La Slovenia è un paese prevalentemente cristiano: i cattolici costituiscono il 72% della popolazione, seguiti da un considerevole 18% di persone senza religione (come in tutti gli ex Paesi comunisti), dal 3,5% di cristiani ortodossi, dal 2,9% di musulmani e da meno dell’1% di protestanti.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

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Eutanasia

Il vero volto del suicidio Kessler

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Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.   Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita. Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.

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«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.   Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni.    Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.   E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.   Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.   Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).   Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.

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Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e terminale che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV, o per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta.    Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.   La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.      Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.   Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.   Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.

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Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.   Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico.    Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.   Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.   Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire.    Roberto Dal Bosco Elisabetta Frezza

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Eutanasia

Gemelle Kessler, Necrocultura Dadaumpa

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Alice ed Ellen Kessler erano diventate membri della Deutsche Gesellschaft fur Humanes Sterben (società tedesca per la morte umana) da oltre sei mesi e avevano deciso di morire insieme il 17 novembre. Secondo quanto riportato da una testata bavarese, un avvocato e un medico della DGHS avrebbero condotto dei colloqui preliminari con le famose gemelle e alla data stabilita si sarebbero recati nella loro casa di Grunwald per «assisterle».

 

In Germania il suicidio assistito è stato depenalizzato nel 2020 dalla Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato incostituzionale una norma che lo proibiva. La sentenza in questione stabiliva infatti che deve esserci «margine sufficiente affinché un individuo possa esercitare il proprio diritto a una morte autodeterminata».

 

La Corte Costituzionale ha specificato altresì che nessuno può essere obbligato a favorire il suicidio assistito e ha lasciato al Parlamento la facoltà di introdurre una legislazione sul tema, ma finora i tentativi di arrivare a una legge sono tutti falliti. In Germania è consentito ricorrere a tale pratica solamente ad alcune condizioni: colui o colei che intende ricorrervi deve dimostrare di agire responsabilmente e di propria spontanea volontà, di essere maggiorenne e di avere riconosciuta la propria capacità giuridica.

 

Inoltre, chi assiste il richiedente non può eseguire personalmente l’atto, perché ciò sarebbe da considerare una pratica di «eutanasia attiva», che invece è vietata. La morte avviene tramite l’infusione endovenosa di un’alta dose di anestetico barbiturico che provoca, in breve tempo, l’arresto cardiocircolatorio del soggetto ricevente.

 

In un’intervista rilasciata nel 2019 al Quotidiano Nazionale Ellen Kessler aveva manifestato la volontà che le loro ceneri fossero unite a quelle della mamma e del cane: «ne abbiamo parlato noi due e abbiamo deciso di fare così, di stare tutte in un’urna. Anche il cane (…) lo spazio ci vuole. La gente è sempre di più, invecchia sempre di più, la morte purtroppo c’è per tutti e quindi la soluzione è questa: una tomba e un’urna per tutti. Molti in Germania adesso si fanno cremare e seppellire sotto un albero nella foresta (…) Non vogliamo certo finire in un asilo per anziani o per malati. Abbiamo un testamento biologico secondo cui se succede qualcosa di grave ci sono degli ospedali speciali che curano senza allungare la vita. Il mio sogno è andare a letto e non svegliarmi più, la morte più bella che ci possa essere».

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Mentre in un’intervista rilasciata lo scorso anno al quotidiano Bild le Kessler avevano dichiarato di non voler sopravvivere l’una all’altra e avevano anche aggiunto che una vita senza dignità non vale la pena di essere vissuta.

 

La loro decisione, tuttavia, non può essere compresa appieno senza considerare il contesto filosofico in cui si inserisce. In questa prospettiva, il materialismo del pensiero moderno identifica il principio vitale dell’essere umano nell’attività cerebrale, mentre la tradizione filosofica su cui la civiltà occidentale ha fondato il suo diritto e la sua morale, almeno fino alla metà del secolo scorso, afferma che l’uomo è composto di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. Tale principio pur essendo nel corpo non si trova in nessun organo, tessuto o funzione perché è di natura spirituale.

 

Pertanto, ciò che sostanzia l’essere umano non è l’autocoscienza e nemmeno la sua capacità di interagire con l’ambiente ma la presenza in lui dell’anima razionale che include l’uso di queste funzioni. La vita inizia con l’infusione da parte di Dio Creatore dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi costitutivi. 

 

Ci troviamo di fronte a due concezioni dell’esistenza umana diametralmente opposte: una che riconosce e difende il suo valore intrinseco, l’altra che riconosce il suo valore solo a determinate condizioni. Nell’ottica cristiana l’uomo è Imago Dei mentre in quella del pensiero moderno è un mero agglomerato di organi e funzioni al pari di qualsiasi altro essere vivente; ancora, nell’ottica cristiana la dignità della persona umana è ontologica, mentre in quella del pensiero moderno dipende dalla persistenza o meno di determinate funzioni intellettive: la sofferenza fisica e/o psichica viene considerata un danno oggettivo alla qualità della vita di un essere umano che viene talvolta ritenuto motivo sufficiente per giustificarne l’eliminazione.

 

La concezione filosofica dell’esistenza che hanno espresso in vita le gemelle Kessler è esattamente quella che la Necrocultura diffonde con ogni modalità possibile e in tutti i campi. La loro fine rappresenta, in fondo, ciò che lo stato moderno si aspetta che ciascuno di noi faccia, ossia togliere il disturbo quando la nostra condizione non ci consente più di produrre o essere utile agli altri o alla comunità nel suo complesso.

 

Va da sé che il cosiddetto principio dell’autodeterminazione rappresenta il classico specchietto per le allodole: l’eutanasia e il suicidio assistito conducono necessariamente all’eliminazione di tutti coloro che non hanno una qualità di vita ritenuta sufficiente secondo i parametri della modernità, come abbiamo visto nei casi di Charlie Gard e Alfie Evans uccisi dalla giustizia inglese in ossequio al loro best interest, solo per fare qualche esempio. L’eliminazione programmata e obbligatoria dell’essere umano è un approdo che rischia di diventare solo questione di tempo.

 

La scelta delle gemelle Kessler diventa il simbolo di un conflitto sempre più evidente nella nostra società: da una parte una visione che riconosce alla vita umana un valore intrinseco, indipendente da condizioni di efficienza o autonomia; dall’altra una concezione che lega la dignità alla qualità percepita dell’esistenza e che vede nella fragilità e nella sofferenza un limite intollerabile.

 

Di fronte a questa deriva culturale, è necessario ribadire che la dignità umana non è negoziabile e non dipende dalle condizioni in cui ci si trova.

 

Alfredo De Matteo

 

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