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Eutanasia

Alfie Evans e il calderone dei traditori

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Sono passati solo pochi giorni dalla morte del piccolo Alfie, avvenuta per mano dello stato omicida e perverso quale è l’Inghilterra, e il clamore mediatico si è già spento, lasciandosi alle spalle l’infanticidio di un innocente perché, come cantavano i Queen, «The Show Most Go on».

 

Riprendersi è dura. Metabolizzare impossibile. Forse, per chi vede i primi passi del proprio figlio ancora meno.

 

Misto a questo dolore però si cela una volontà di giustizia, giustizia che dobbiamo ad Alfie per ciò che, a nome di tutti noi, ha combattuto  contro tutto e tutti.

 

Se si è drammaticamente persa un battaglia – e così è stato – anche a costo di risultare banali occorre dire che la guerra continua, con un’urgenza ancora più grande di prima. Si impone la necessità di separare il grano dalla zizzania, gli amici dai nemici e, soprattutto, svelare i veri volti di tutti i traditori che hanno animato questa triste vicenda e il suo devastante epilogo.

Ora viene il tempo di svelare il vero volto di chi è stato complice di questo omicidio: la neo-chiesa e il Vaticano intero

 

Abbiamo svelato il vero volto di coloro i quali, in nome della medicina totalitarista e delle leggi omicide  hanno condannato al patibolo Alfie Evans. Ora però, per dovere di coscienza, viene il tempo di svelare il vero volto di chi è stato complice di questo omicidio: la neo-chiesa e il Vaticano intero.

 

Bergoglio e la Pontificia Accademia per la Morte

Dopo le numerose pressioni ricevute da gran parte del mondo, Bergoglio è stato costretto ed intervenire attraverso un tweet il 4 aprile scorso, dove invitava a «continuare ad accompagnare con compassione il piccolo Alfie».

 

Ad accompagnarlo dove non ci era dato saperlo. Ora, purtroppo, sì.

D’altronde il boia Anthony Hayden, il 20 febbraio scorso, per emettere la sentenza di morte per il piccolo Alfie utilizzò proprio il messaggio sul «fine-vita» inviato da Bergoglio a Mons. Vincenzo Paglia, CEO della Pontificia Accademia per la Vita.

 

Migliaia di persone chiesero l’intervento del Vescovo di Roma per smentire ed abbattere la strumentalizzazione di queste sue parole. Nessuna risposta pervenne da Santa Marta o adiacenti. Per un semplice motivo: non di strumentalizzazione si era trattato. E a confermarlo fu proprio Paglia, che dando il meglio di sé in un’intervista rilasciata a Tempi il 9 marzo scorso, si guardò bene dal condannare la strumentalizzazione del boia dell’Alta Corte, ma anzi argomentò brillantemente dando ragione ai medici dell’Alder Hey Children’s Hospital:

 

 «Parlare di “soppressione” non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico».

Il lavoro della PAV è sostanzialmente quello di passare da «Pontificia Accademia della Vita» a «Pontificia Accademia della Morte». Se arriveremo all’eutanasia di stato anche in Italia lo dovremo al Vaticano.

 

Il lavoro della PAV è sostanzialmente quello di passare da «Pontificia Accademia della Vita» a «Pontificia Accademia della Morte».

Se arriveremo all’eutanasia di stato anche in Italia lo dovremo al Vaticano.

 

Le briciole erano già state lasciate quando Paglia fu incoraggiato dallo stesso Bergoglio, appena l’anno scorso, con la stesura del codice deontologico vaticano per gli Operatori Sanitari, dove veniva finalmente ammesso che l’idratazione e l’alimentazione dovevano essere concesse «solo se utili».

Di meglio ancora aveva fatto con il Messaggio inviato proprio a Mons. Vincenzo Paglia in occasione del Metting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del «fine vita». Qui Bergoglio, ad esempio,  così diceva»:

Nessuna differenza viene fatta fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, due facce della medesima medaglia: la morte.

«Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte».

 

Nessuna differenza viene fatta fra eutanasia attiva ed eutanasia passiva, due facce della medesima medaglia: la morte.

Per chi ha affinato il naso sulla nuova terminologia tanto in auge, è facile constatare come il termine «accanimento terapeutico» svolga un ruolo molto importante per i passi che conducono all’eutanasia di stato

 

Per chi ha affinato il naso sulla nuova terminologia tanto in auge, è facile constatare come il termine «accanimento terapeutico» svolga un ruolo molto importante per i passi che conducono all’eutanasia di stato. Semplicemente, così facendo, si potrà sempre trovare un appiglio per porre fine alla vita di qualche innocente giudicato troppo indegno per restare in questo mondo tutto pieno di gente per bene, garante di una qualità di vita alta.

 

Così è stato con Alfie, e prima ancora con Charlie ed Isaiah.

 

La pressione mediatica che intanto andava via via crescendo attorno al piccolo bambino condannato a morte, ha spinto Bergoglio ad intervenire nuovamente il 15 aprile con un generico discorso fatto durante il Regina Coeli, e poi con un tweet del 23 aprile scorso in cui si rinnovava l’invito a rispettare il volere dei genitori. Un caso mondiale liquidato in qualche click di tastiera – non certo fatto da lui peraltro – e sempre nel rispetto della terminologia politicamente corretta che parla di volontà, di utilitarismo, ma praticamente mai di Dio e di grave peccato contro di Lui.

Il vescovo di Roma, nella sua intraprendenza progressista e rivoluzionaria ha un evidente difetto: non riesce a fingere.

 

L’incontro a muso lungo

Un tweet costa nulla, un incontro faccia a faccia, ripreso dalle telecamere e al quale non si può sfuggire costa molto, molto di più.

 

Il vescovo di Roma, nella sua intraprendenza progressista e rivoluzionaria ha un evidente difetto: non riesce a fingere.

Un po’ come D’Annunzio , che al Vittoriale aveva una sala d’attesa per gli ospiti graditi e una per gli ospiti sgraditi. Il muso lungo mostrato durante l’incontro con Thomas, avvenuto il 18 aprile, è stato peggiore di quello immortalato durante l’incontro con Donald Trump e famiglia.

 

Le parole da lui pronunziate durante l’udienza generale del mercoledì (avvenuta poco dopo l’appuntamento con il giovane padre di Alfie), e cioè che «l’unico padrone della vita dall’inizio alla fine naturale è Dio», sono state fondamentalmente richieste da Thomas durante l’udienza privata: nulla di più, nulla di meno.

Come viene normale pensare, se a Bergoglio fosse veramente interessato del bambino inglese avrebbe subito disposto l’ordine di dare tre passaporti vaticani alla famiglia, come spesso ha fatto per immigrati musulmani, prendendosi la scena pubblica che ama.

 

Come viene normale pensare, se a Bergoglio fosse veramente interessato del bambino inglese avrebbe subito disposto l’ordine di dare tre passaporti vaticani alla famiglia, come spesso ha fatto per immigrati musulmani, prendendosi la scena pubblica che ama.

 

Occorre dire, senza mezzi termini, che se vi è stata una mossa sbagliata essa è stata proprio quella di coinvolgere il CEO di Santa Marta, permettendogli così di lavarsi pubblicamente la coscienza e di passare come eroe dell’ultimo momento, che se la cava con due tweet e poche, assurde, inconsistenti parole.

 

Fortunatamente però, come è stato ampiamente dimostrato, «chi di tweet ferisce di tweet perisce»: finalmente gran parte del mondo ha capito che è troppo comoda prendersi il palcoscenico standosene in panciolle dietro ad una tastiera.

 

Il problema è piuttosto di chi, anche mascherando una certa tendenza conservatrice e polemica verso il nuovo pontificato – guai ad andare oltre – gira e rigira torna sempre lì: a voler salvare Bergoglio.

I genitori si erano votati a chiunque, fidandosi ciecamente del Vaticano, ma come vogliamo dimostrare questo è stato un totale fallimento. Di certo non per colpa loro.

 

Il risultato è stato questo, per buona pace di chi sostiene che le grandi manovre fossero state fatte dietro le quinte. I genitori si erano votati a chiunque, fidandosi ciecamente del Vaticano, ma come vogliamo dimostrare questo è stato un totale fallimento. Di certo non per colpa loro.

 

C’è chi è andato, come portavoce della famiglia, a chiedere i passaporti in Vaticano: è stato risposto che se si fosse dovuto smuovere mari e monti per Alfie, allora lo si sarebbe dovuto fare per tutti.

 

Grandi eccellenze incaricate di rapporti diplomatici hanno candidamente fatto capire di non rompere, perché si sarebbe potuto mettere in pericolo il lavoro diplomatico intrapreso dalla Segreteria di Stato Vaticana, che a ben vedere, come al solito, non ha ottenuto nulla.

In forza della diplomazia che nulla costa, nulla compromette ma sempre salva (agli occhi degli ingenui e dei media che li ingozzano) la neo-chiesa tace e abbandona gli agnelli condotti al macello.

 

In forza della diplomazia che nulla costa, nulla compromette ma sempre salva (agli occhi degli ingenui e dei media che li ingozzano) la neo-chiesa tace e abbandona gli agnelli condotti al macello.

 

Il disegno è chiaro. Lo è un po’ meno per chi ancora non ha capito che ai lupi piace sbranare le pecore.

E qui, di lupi travestiti da pastori, ne esistono parecchi. La vena dell’etichetta, dell’esclusiva e del selfie compulsivo o del post demenziale in bacheca, evidentemente fa sì che si possa passare oltre questi “piccoli” dettagli sull’attuale situazione nella Chiesa.

 

Il «tradizionalismo» e il «conservatorismo» uccidono passivamente

Nel mentre il vescovo di Liverpool taceva, insieme a tutta la codarda e ignava Conferenza Episcopale Inglese.

 

Il misericordiae vultus con cui si tentò di liquidare Thomas e Kate fu il riflesso perfetto del falso interesse verso l’essere umano che la neo-chiesa vorrebbe mostrare ogni giorno.

 

Mons. McMahon, infatti, «tradizionalista» tutto d’un pezzo che celebra anche la Messa antica, se ne venne fuori – anch’egli a causa della pressione mediatica che oramai lo aveva schiacciato – dicendo che la diocesi di Liverpool si era interessata alla vicenda dando assistenza spirituale al personale dell’Alder Hey, ma non ai due giovani genitori perché «non sono cattolici».

Il misericordiae vultus con cui si tentò di liquidare Thomas e Kate fu il riflesso perfetto del falso interesse verso l’essere umano che la neo-chiesa vorrebbe mostrare ogni giorno.

 

A parte il fatto che non è vero – e la famosa lettera che Tom scrisse di conseguenza al suo vescovo ne è la dimostrazione – è curioso notare come il sincretismo tanto in voga funzioni sempre solo quando non c’è da metterci la faccia per cause serie.

 

Oltre a ciò, McMahon ebbe il coraggio di dire che l’Alder Hey stava sicuramente agendo bene e per l’interesse del bambino e della famiglia Evans. Questo ancor prima dell’incontro con Bergoglio su cui ritorneremo più sotto, per non scombinare l’ordine cronologico dei fatti e le combinazioni di questo calderone.

 

Il «tradizionalista» McMahon è stato sicuramente sfacciato e ne dovrà rispondere un giorno: come diceva persino Giovanni Paolo II, di cui è certamente figlio spirituale, «arriverà il giudizio di Dio».

 

Tuttavia non è l’unico che ha le mani macchiate di complicità. Nel suo caso, sicuramente, trattasi di complicità attiva. Vi è però anche chi, con la solita inerzia, è c stato complice passivamente: dov’erano tutti quei cardinali e vescovi che marciano per le vie di Roma a favore della vita con circoli, gruppi, circoletti, sitarelli che si ergono a difensori della vita solo quando non costa una sporcata di mani?

 

Ché forse qualcuno pensa di potersi salvare con qualche benedizione fatta da casa, magari elogiando il Santo Padre per la premura avuta con Alfie, o con qualche tweet – come nel caso del Card. Sarah, uscito allo scoperto pochi giorni fa con una tweettata, senza nemmeno fare lo sforzo di scrivere una frase sua ma utilizzandone una del Prof. Lejeune – in grado di far salvare «socialmente» – cioè attraverso i social network orwelliani – la faccia?

 

La cosa più sconvolgente di tutta questa faccenda è stata appunto la codardia mostrata dagli pseudo- conversatori: chi sarebbe intervenuto senza il via libera del biancovestito?

 

Tutti, e dico tutti, hanno aspettato il lasciapassare di Santa Marta. Dopo di quello, un po’ di coda si è creata, segno tangibile che in questo modello falsificato di chiesa non vi è nessuna sussistenza, nessun onore, nessuna virilità da parte di coloro che vestono il color rosso porpora, insigne martyrium.

La cosa più sconvolgente di tutta questa faccenda è stata appunto la codardia mostrata dagli pseudo- conversatori: chi sarebbe intervenuto senza il via libera del biancovestito?

 

Un esempio eclatante di questa triste realtà lo ha dato ancora una volta il vescovo di Reggio-Emilia, Mons. Massimo Camisasca, che invece di organizzare Veglie di preghiera per Alfie, si lamentava della «pressione» di alcuni giovani fedeli che, unico gruppo nella sua Diocesi (e questo già da solo può rendere l’idea del fermento spirituale della Diocesi «rossa» reggiana), ne stavano organizzando una in tempi ristrettissimi e tra mille ostacoli ecclesial-burocratici (quando nella stessa Diocesi, con impressionante facilità, spuntano da diverso tempo veglie contro l’omofobia, la transfobia e simili bestialità).

 

Ebbene, oltre al lamentarsi dell’eccessiva «foga» di questi giovani – fra cui pure il sottoscritto – superbi e mancanti di umiltà nell’osare a chiedere a Sua Eccellenza tempi rapidi, per ovvi motivi che capirebbe chiunque si fosse davvero interessato al caso Alfie Evans (ma evidentemente non era questo il caso), il Vescovo ha lamentato un’idea troppo «battagliera» della Fede cristiana, sposando in toto la versione contraffatta post conciliare di una chiesa traditrice della propria identità missionaria e vuota dell’aspetto Militante che le è proprio.

 

Un portavoce del gruppo di fedeli, chiamato al telefono da Mons. Massimo, dopo esser stato abbastanza attaccato per i contenuti anzidetti, cercando di far capire alla Reverendissima Eccellenza l’urgenza oggettiva e non soggettiva della richiesta, si è sentito così rispondere: «Caso strano le vostre sono sempre urgenze prioritarie».

 

Ve ne sono invece altre, come quelle di far visita alle comunità di cristiani LGBT presenti in diocesi, sicuramente molto più urgenti.

 

Questa idea di Fede, totalmente appiattita all’ideale mondano e antropocentrico, viene evidenziata in modo lampante nelle ultime righe del comunicato che Sua Eccellenza ha pubblicato all’indomani del contatto con gli organizzatori della Veglia per Alfie reggiana. Dopo aver citato, esaltandole, «le parole del Santo Padre» su Alfie e il caso del francese Vincent Lambert, Camisasca conclude così:

 

«Benedico perciò ogni iniziativa di preghiera e di supplica a Dio. Non si tratta di una battaglia, ma di una vera affermazione di umanità e di amore all’uomo, a ogni uomo».

 

Mons. Camisasca, lo stesso Vescovo che non più di un anno fa, davanti agli organizzatori della processione di riparazione del GayPride di Reggio Emilia, ha rimproverato l’iniziativa colpevolizzando il Comitato Beata Giovanna Scopelli di aver favorito il successo mediatico ed economico dell’evento sodomitico.

 

In quell’occasione la Diocesi reggiana «offrì», per evitare la «vergogna» di tanti cattolici armati di rosario per le strade di Reggio Emilia, l’irrinunciabile proposta di una preghiera fatta al termine delle messe parrocchiali pre-festive del weekend precedente al Gay Pride.

 

Il segretario del vescovo avrebbe poi anche dichiarato che ci sono tanti bambini ammalati anche qui da noi, e che di cose brutte ne succedono anche nei nostri ospedali italiani: vi ricorda qualcosa? Come a Roma così a Reggio: «Signora, se lo facciamo per Alfie allora dovremmo farlo per tutti…» (il passaporto).

 

E si pensi che il sito di Notizie Pro Vita mise un cappello ad una lettera inviata a Mons. Camisasca e resa poi pubblica, prendendosi la briga di specificare che «non “la Chiesa”, ma “alcuni uomini di Chiesa” si stanno mostrando insensibili a questa deriva mortifera».

 

Per quanto ecclesiologicamente possa essere una definizione più precisa, rimane da capire dove sia rimasta l’altra parte degli uomini di chiesa, visto che nessuno si è fatto avanti scegliendo piuttosto la passività che uccide e che ha ucciso Alfie Evans all’azione.

 

Utilitarismo statal-ecclesiastico

I sonetti proposti anche dopo il gran chiasso mediatico creatosi attorno alla vicenda erano pregni di quell’utilitarismo tanto caro ai cianciatori del Vaticano, che hanno ripetuto ad abundantiam la necessità di un dialogo fra medici e famiglia, all’insegna del più becero e deleterio utilitarismo volontarista che non bada alla difesa della vita del bambino come miracolo voluto da Dio, ma come oggetto di contesa fra una volontà ed un’altra.

I cianciatori del Vaticano hanno ripetuto ad abundantiam la necessità di un dialogo fra medici e famiglia, all’insegna del più becero e deleterio utilitarismo volontarista che non bada alla difesa della vita del bambino come miracolo voluto da Dio, ma come oggetto di contesa fra una volontà ed un’altra.

 

Paglia, intervistato dalla Rai poche ore dopo il distacco della ventilazione ad Alfie – precisamente il 24 aprile – parlò di «una legge fredda che impedisce di ascoltare i genitori (…) perché la vita non è solo un fatto biologico, ma è relazione, affetto, è sentimento».

 

Messo in discussione il fatto biologico, come fece durante le prime dichiarazioni, Paglia avallò la tesi personalista secondo la quale è per sentimento o volontà che si deve decidere se porre o non porre fine alla vita di qualcuno: «nella decisione non possono non entrare i genitori, e non basta quindi un tribunale per decidere della vita e della morte».

 

Se i genitori di Alfie fossero stati d’accordo, ecco che allora Paglia e il calderone infernale che occupa la PAV avrebbe avuto meno gatte da pelare, gioendo per il lieto fine che avrebbe visto la morte di Alfie con imprimatur genitoriale ed ecclesiale (anche Beppino Englaro stava con i genitori di Alfie in effetti).

 

E per concludere questa tesi di morte autodeterminante, Paglia Vincenzo affermò che è «indispensabile una nuova alleanza fra il campo della medicina e il campo dell’umanità».

«Per quanto concerne il pazienteegli non è padrone di se stesso, del proprio corpo, del proprio spirito. Non può dunque disporne liberamente. Per quanto riguarda i medici, nessuno al mondo, nessuna persona privata, nessuna umana pietà, può autorizzare il medico alla diretta distruzione della vita; il suo ufficio non è di distruggere la vita ma di salvarla».  Pio XII, 1957

 

Giusto per fare un salto indietro nel tempo, quando la Chiesa era Cattolica, è bene vedere quanto disse Pio XII, nel 1957, durante un discorso fatto agli operatori sanitari sulla rianimazione:

 

«Per quanto concerne il pazienteegli non è padrone di se stesso, del proprio corpo, del proprio spirito. Non può dunque disporne liberamente. Per quanto riguarda i medici, nessuno al mondo, nessuna persona privata, nessuna umana pietà, può autorizzare il medico alla diretta distruzione della vita; il suo ufficio non è di distruggere la vita ma di salvarla»

 

Con Alfie è avvenuto l’esatto opposto, con placet della neo-chiesa traditrice del proprio mandato.

 

A tale proposito colpisce anche il comunicato emesso dall’Accademia “Giovanni Paolo II per la Vita e la Famiglia” del 26 aprile, una costola staccatasi dalla PAV.

 

Nella dichiarazione, i membri partono da un presupposto che sembra scivolare sullo stesso errore a cui abbiamo or ora accennato, dando come prioritaria la riflessione sul rapporto genitori-bambino e Stato-bambino: «La domanda più ovvia che dovrebbe pungolare la nostra coscienza collettiva è: chi ha il diritto naturale di prendersi cura di Alfie e salvaguardare il suo migliore interesse? È lo Stato o sono i genitori del bambino? È evidente che i genitori, in virtù della relazione genitore-figlio, hanno il diritto naturale di agire nel miglior interesse e benessere del loro bambino; e l’esercizio di questo diritto non può essere negato ingiustamente dall’interferenza dello Stato coercitivo, tranne nei casi di abuso e negligenza».

 

Chi doveva essere un’alternativa alla Pontificia Accademia per la Vita, finisce per partire dagli stessi presupposti, se vogliamo espressi meglio.

 

Il comunicato non parte infatti nel modo giusto, e cioè affermando in maniera inequivocabile e primaria che Dio solo dona la vita, Dio solo la toglie. Noi abbiamo certo il dovere di custodire la vita facendo tutto ciò che possiamo ed adorando la volontà di Dio comunque vadano le cose. Solo per questo motivo si poteva appoggiare, ma secondariamente, la richiesta dei genitori di trasferire il figlio denunciando come violazione dei basilari e fondamentali diritti umani la negazione di essa.

 

Abbattuti ed invertiti faustianamente i motivi principali per cui difendere la vita, Vaticano & Co., in mezzo alla nebulosa di parole ambigue e meramente antropocentriche, arriva evidentemente a destare anche quel principio, per certi versi assurdo, che permette di fare obiezione di coscienza.

 

Quell’obiezione di coscienza che il povero Padre Gabriele Brusco aveva posto all’attenzione del personale sanitario e medico dell’Alder Hey, facendo presente che esiste una morale, un’etica e un codice deontologico per cui potersi rifiutare di prendere parte ad un atto che si ritiene illecito moralmente e in coscienza.

Alfie, insieme ai suoi genitori, sono stati lasciati nel più totale abbandono: medico, umano e spirituale.

 

Questa civile proposta, è evidente, dev’esser costata lui molto cara: non solo è stato denigrato da tutta l’equipe dell’ospedale inglese – tanto per capire quale dialogo e quale «alleanza fra medici e genitori» si sarebbe potuta stabilire, ma, casualmente a ridosso con l’incontro quasi carbonaro avvenuto fra Bergoglio e Mons. McMahon il 25 aprile scorso a Roma, Padre Gabriele è stato urgentemente richiamato a Londra da un suo superiore.

 

Di lui non si ha più traccia e Alfie, insieme ai suoi genitori, sono stati lasciati nel più totale abbandono: medico, umano e spirituale. 

 

Le passerelle dell’Ospedale Bambin Gesù

Secondo alcuni però, il grande operato di Bergoglio e del Vaticano non starebbe solo nell’azione intrapresa attraverso Mons. Cavina – rivelatasi poi nulla, come già detto – ma anche e soprattutto nell’intervento dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma. In merito a questo sono doverose alcune, serie precisazioni.

 

Le varie passerelle tenutesi a Liverpool dal Presidente dell’ospedale romano non possono passare inosservate, soprattutto per le modalità di azione in cui è stata gestita la vicenda del piccolo Alfie.

 

La Consulta di Bioetica, pronunciandosi attraverso un comunicato agghiacciante, ha però colpito nel segno quando ha evidenziato che «già nel settembre 2017 la famiglia Evans aveva richiesto il parere di due specialisti indipendenti e di tre esperti del Bambin Gesù, i quali hanno cooperato coi medici dell’Adler Hey Hospital, giungendo alla unanime conclusione che “la condizione di Alfie è irreversibile e non più curabile” (Alfie’s condition is irreversible and untreatable). È sulla scorta di questa terribile realtà che i medici dell’ospedale di Liverpool si sono chiesti “se continuare il trattamento di Alfie fosse nel suo miglior interesse” o l’insistenza fosse una forma di accanimento terapeutico e hanno sentito il dovere professionale e morale di dare una risposta precisa, ossia quest’ultima».

 

Il tipo di approccio è perciò da considerarsi errato in partenza, perché si pronuncia sulla condizione clinica del bambino – e quindi sull’impossibilità di curarlo – e non su quel «prendersi cura» di lui nonostante la malattia, peraltro giammai veramente diagnosticata. Grazie a questo tipo di sentenza, sia l’Alder Hey che la Consulta di Bioetica hanno potuto spazzare via la volontà portata in campo mesi dopo dall’ospedale della Santa Sede.

 

Svista, o coscienza di ciò che si stava facendo?

La Consulta di Bioetica ha fondamentalmente ragione. Come mai il Bambin Gesù di Roma, da settembre fino a poco tempo prima che il caso arrivasse alle Alte Corti di boia inglesi, ha taciuto?

 

Se si permette ai necrocultori di attaccarsi a qualcosa, si è loro complici. Ecco perché la Consulta di Bioetica ha fondamentalmente ragione. Come mai il Bambin Gesù di Roma, da settembre fino a poco tempo prima che il caso arrivasse alle Alte Corti di boia inglesi, ha taciuto?

 

Abbiamo visto Mariella Enoc farsi intervistare dietro alle gigantografie di Bergoglio; l’abbiamo vista volare a Liverpool «non per portare via il bambino ma per esprimere ai genitori la vicinanza del Santo Padre».

 

Qual è stato allora, veramente, il loro ruolo in tutta questa macabra vicenda?

Quale contributo hanno portato attraverso il loro dialogo che però, casualmente, è diventato importante solo quando il clamore mediatico non poteva permettere a nessuno di sottrarsi?

E da settembre a poco tempo fa, dove erano finiti tutti coloro che ora piangono Alfie?

 

Qualcuno dice che se ne sono semplicemente fregati.

La Enoc, il giorno stesso della morte del piccolo, dicendosi addolorata ha ribadito l’importanza di «continuare a lavorare tutti insieme e a investire sulla ricerca scientifica perché si possa dare una possibilità a questi bambini e una risposta a queste famiglie». Allo stesso tempo, ha continuato, «dobbiamo anche iniziare una vera riflessione comune, a livello internazionale: dobbiamo mettere insieme scienziati, clinici, pazienti, famiglie istituzioni, perché non si ripetano questi scontri e queste battaglie ideologiche».
Il tipo di battaglia sarebbe solo dunque di natura ideologica.

Inutile commentare.

E’ invece interessante collegarsi al discorso della «ricerca scientifica».

Mercoledì 25 aprile, mentre Bergoglio incontrava il vescovo di Liverpool, sul Corriere della Sera appariva un’intervista rilasciata dalla Enoc sul caso del piccolo Alfie.

«La nostra funzione non è guarire, ma curare, e per cura intendo ogni forma di sostegno» dice la Enoc in veste di Presidente del Bambin Gesù contraddicendo quantomeno le modalità del settembre 2017.

«Bisogna capire le origini genetiche di questa malattia, innanzitutto, per tutelare la giovane mamma nelle future gravidanze»: Non sembra azzardato interpretare le parole della Enoc, pur mantenendo il beneficio del dubbio, come una corsa ai ripari per proporre come potrebbero proporre ai Gard (il caso di Charlie fu relativo appunto ad una patologia mitocondriale) la «Three Parents IVF»: il programma per la fecondazione in vitro a tre genitori.

«Noi avremmo accolto Alfie garantendo le terapie necessarie, senza accanimento terapeutico». Cedendo sui termini tanto cari al sistema eutanatico («accanimento terapeutico»), e che Bergoglio e Paglia amano sovente ripetere, la Enoc arriva poi a parlare curiosamente di genetica:

«Bisogna capire le origini genetiche di questa malattia, innanzitutto, per tutelare la giovane mamma nelle future gravidanze».

Cosa vuol dire questo? Proviamo a rispondere.

Tutti sospettano che dietro alla malattia neurodegenerativa di Alfie vi sia, come ne caso di Charlie Gard, una malattia mitocondriale di natura genetica.

Non sembra azzardato interpretare le parole della Enoc, pur mantenendo il beneficio del dubbio, come una corsa ai ripari per proporre come potrebbero proporre ai Gard (il caso di Charlie fu relativo appunto ad una patologia mitocondriale) la «Three Parents IVF»: il programma per la fecondazione in vitro a tre genitori.

 

Se si scoprisse che la madre è portatrice sana, in provetta saranno pronti a creare il bambino a tre genitori.

 

Come? Facendo fecondare uno spermatozoo con un ovulo che ha il nucleo della «madre» e i mitocondri – se di malattia mitocondriale si tratterà – di un’altra «madre».

 

Geneticamente parlando il bambino sarà figlio non di uno, non di due, ma bensì di tre genitori. Alcuni microbiologi «cattolici», fra cui dei padri domenicani, si stanno del resto adoperando per poter presto affermare che la modifica dei geni per ottenere pazienti ancora più sani delle persone normalmente sane deve essere permessa moralmente.
Questi, dunque, i futuri interessi “scientifici” degli ospedali italiani?

 

Conclusione
La neo-chiesa e tutto l’aria mefitica che ha girato dal Vaticano fino a Liverpool ha responsabilità gravi. Le brecce che sono state aperte negli anni passati sui temi bioetici hanno raggiunto il loro apice, oggi.

 

Da Ratzinger che fu iscritto all’elenco dei donatori di organi definendo la donazione «un atto spontaneo» e di amore – creando i presupposti tecnici per permettere ai predatori diabolici di parlare di «apertura nella Chiesa» per quanto riguarda la cosiddetta morte cerebrale – fino a giungere alla Pontificia Accademia della Vita che vuole palesemente l’eutanasia di Stato.

Alfie è la nuova vittima sacrificata, che fa comodo, che rompe gli argini ancora rimasti in piedi sotto il boato di silenzio di una neo-chiesa complice e sfacciatamente colpevole. Al Cardinal Nichols è stata affidata la conclusione di questo racconto dell’orrore, senza che nessuno, e dico nessuno, levasse la voce contro le sue bestialità pronunciate a cadavere caldo.

 

L’incontro e i sorrisi a 33 denti fra Bergoglio e Katy Perry, avvenuto il giorno dopo la morte di Alfie, tracciano un evidente interessamento per i personaggi a cui tutt’alpiù bisognerebbe sputare in faccia. Nota satanista per stessa ammissione dei genitori, la Perry è per logica conseguenza una grande cultrice dei diritti LGBT e dell’eutanasia.

 

Conoscendo i suoi videoclip parasatanisti, sarà probabilmente  contenta che il bambino Alfie sia stato sacrificato al Male.

 

Tutti gli accordi presi nel silenzio e nel calo del clamore mediatico ne sono la triste riprova: Alfie è morto da solo.

 

La sua morte è stata overtianamente accettata nel momento in cui tutti, “cattolici” in primis, hanno detto straziati e con fare edulcorato che «Alfie si è spento», che «Alfie è volato via».

Chi ama la vera Chiesa – è il caso di dirlo – oggi deve odiare il Vaticano insieme a tutto l’aria metifica che lo circonda. Bisogna distruggere le fondamenta di questa neo-chiesa, staccarsi da essa, denunciarla. Essa è la rappresentazione più anticristica che vi possa essere e sta preparando, con gran cura, il gran trono su cui far sedere l’Antico Avversario.

Eppure Thomas lo aveva detto nello stesso pomeriggio in cui poi, misteriosamente, calò il silenzio: «Il Papa venga qui a vedere cosa sta succedendo»…

Chi ama la vera Chiesa – è il caso di dirlo – oggi deve odiare il Vaticano insieme a tutto l’aria metifica che lo circonda.

 

Bisogna distruggere le fondamenta di questa neo-chiesa, staccarsi da essa, denunciarla. Essa è la rappresentazione più anticristica che vi possa essere e sta preparando, con gran cura, il gran trono su cui far sedere l’Antico Avversario.

Il piccolo gregge di fedeli deve opporsi con tutte le forze possibili.

 

L’intercessione di quei piccoli martiri uccisi in sfregio a Dio sarà con noi.

Il loro sangue innocente sarà quello che si abbatterà insieme al braccio di Cristo su tutto il calderone di morte che è stato creato contro di loro, contro il miracolo della Vita fin dal suo concepimento che è, in fondo, la perfetta immagine riflessa dell’Incarnazione di Nostro Signore, unico Padrone di tutte le cose, della Vita e della Morte, dando Vita Eterna ai giusti e dannazione senza fine ai malvagi.

 

 

Cristiano Lugli

 

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Eutanasia

I canadesi disabili ora sono sottoposti alla proposta di essere eutanatizzati come parte delle visite mediche di routine

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Continua la folle corsa del Canada verso l’abisso dello Stato assassino, che suggerisce ai suoi cittadini – malati, depressi, obesi, poveri che siano – di farsi uccidere.

 

Krista Carr, CEO di Inclusion Canada, ha denunciato che molti canadesi con disabilità vengono spinti a scegliere l’eutanasia durante visite mediche di routine.

 

In una sessione dell’8 ottobre della Commissione parlamentare per le finanze, Carr, sostenitrice dell’assistenza medica al suicidio (MAiD), ha spiegato che l’espansione della MAiD nel 2021 ai malati cronici non terminali ha portato a proporre l’eutanasia a persone con disabilità durante visite mediche non correlate. «Da quando è stata introdotta la legge sul Track 2 MAiD, le interazioni delle persone con il sistema sanitario sono cambiate radicalmente», ha affermato.

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La Carr ha aggiunto che le persone con disabilità temono di accedere al sistema sanitario per problemi ricorrenti, poiché la MAiD viene spesso suggerito come soluzione a una «sofferenza intollerabile».

 

Il deputato conservatore Garnett Genuis ha chiesto con quale frequenza ciò accada, e Carr ha risposto che è un evento «settimanale» per i canadesi con disabilità.

 

Carr ha sottolineato che l’espansione del MAiD colpisce sproporzionatamente le persone con disabilità, rese vulnerabili dalla mentalità eutanasica negli ospedali, notando anche che la «povertà» viene considerata una «sofferenza intollerabile», rendendo una persona idonea alla MAiD.

 

Le sue dichiarazioni trovano conferma nei documenti interni dei medici dell’Ontario del 2024, che indicano che molti canadesi scelgono l’eutanasia per povertà o solitudine, non per malattie terminali.

 

Ad esempio, un lavoratore di mezza età, disabile a causa di lesioni alla caviglia e alla schiena, ha ritenuto che il sostegno governativo insufficiente lo lasciasse senza alternative al MAiD.

 

In un altro caso, una donna obesa si è descritta come un «corpo inutile che occupa spazio», e un medico ha considerato la sua obesità una «condizione medica grave e irrimediabile» idonea per il MAiD.

 

Nel 2023, in Ontario, 116 dei 4.528 decessi per eutanasia riguardavano pazienti non terminali, spesso provenienti da comunità povere. I dati del medico legale capo dell’Ontario mostrano che oltre tre quarti di coloro che hanno scelto l’eutanasia senza essere in fin di vita necessitavano di assistenza per disabilità. Inoltre, circa il 29% di questi decessi riguardava persone delle aree più povere dell’Ontario, contro il 20% della popolazione generale della provincia.

 

Il governo liberale ha ampliato la MAiD di 13 volte dalla sua legalizzazione, rendendolo il programma di eutanasia in più rapida crescita al mondo. I tempi di attesa per l’assistenza sanitaria in Canada sono saliti a 27,7 settimane in media, spingendo alcuni alla disperazione e a scegliere l’eutanasia. Alcuni malati e anziani che hanno rifiutato la MAiD sono stati definiti «egoisti» dagli operatori sanitari.

 

Secondo i rapporti più recenti, la MAiD è la sesta causa di morte in Canada, ma non compare tra le prime 10 cause di morte di Statistics Canada dal 2019 al 2022. L’agenzia ha spiegato che registra le malattie che spingono all’eutanasia, non l’eutanasia stessa, come causa primaria di morte.

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Health Canada riporta che nel 2022 13.241 canadesi sono morti per iniezioni letali MAiD, pari al 4,1% dei decessi totali nel Paese, con un aumento del 31,2% rispetto al 2021.

 

Come riportato da Renovatio 21, Canada rimane capofila dell’eutanasia di Stato che si dirige verso l’eliminazione dei bambini autistici (anche senza consenso dei genitori), dei malati mentali in genere, dei disabili, dei depressi da lockdown, degli angosciati, dei poveri – etc. Con contorno di record per le predazioni di organi.

 

Due anni fa il Canada registrò che una persona su 25 moriva per MAiD, il nome della pubblica eutanasia canadese.

 

Nemmeno gli struzzi, in Canada, sono sicuri dalla siringa assassina eugenetica di Stato.

 

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Bioetica

Morte cerebrale, trapianti, predazione degli organi, eutanasia: dai criteri di Harvard alla nostra carta d’identità

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Renovatio 21 pubblica la relazione del nostro collaboratore Alfredo De Matteo alla Conferenza «Il Dramma dell’eutanasia» organizzata da Federvita Piemonte a Torino lo scorso 11 ottobre.   Il tema che mi è stato assegnato è molto vasto e pieno di implicazioni mediche, giuridiche, etiche e filosofiche ed è pertanto molto difficile condensarlo nel tempo previsto per un singolo intervento. Mi perdonerete se tratterò questioni complesse in maniera non esaustiva, ma spero comunque che la mia esposizione risulti chiara, soprattutto nelle sue conclusioni.   Prima di affrontare lo spinoso tema della morte cerebrale e dell’espianto di organi vitali credo sia opportuno definire il concetto di «morte». Tradizionalmente, essa viene identificata con la cessazione di tutte le funzioni vitali di un organismo, che sono essenzialmente riconducibili a tre: sistema nervoso, respiratorio e circolatorio, ossia la cosiddetta tripode vitale. Tuttavia, la morte non è un evento che può essere osservato nel momento in cui si verifica ma solamente a posteriori, ossia dopo che essa è già avvenuta.   In altre parole, per avere la certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano è necessario che vengano riscontrati sul cadavere i segni inequivocabili della morte, ossia l’inizio del processo di decomposizione del corpo: l’algor mortis (il raffreddamento del corpo), il rigor mortis (la rigidità cadaverica) e il livor mortis (il ristagno e la coagulazione del sangue). Tali segni rappresentano il punto di non ritorno alla vita.   La morte infatti è un evento complesso poiché l’uomo, in virtù dell’unione sostanziale con un’anima spirituale, non è un semplice agglomerato di organi, tessuti e funzioni né il suo principio vitale può essere ridotto alla funzionalità dei suoi organi o di un singolo organo. È possibile ritenere certamente viva una persona cosciente e certamente morto un corpo putrefatto o allo stato iniziale della putrefazione. La morte, intesa come il distacco dell’anima dal corpo, è collocabile nello spazio temporale compreso tra questi due stati. Un terzo stato dell’essere tra la vita e la morte, semplicemente, non esiste.

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto, appunto, di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza. È bene ribadire che questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione.   Ciò che sostanzia l’uomo non è dunque l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, come ci vogliono far credere, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni. La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.   I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui sono scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente.   A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’avvento delle moderne tecniche di rianimazione ha permesso di salvare la vita di un gran numero di persone destinate a morte certa. In particolare, la ventilazione artificiale ha consentito di supportare la respirazione di tutti quei pazienti che sono parzialmente o totalmente incapaci di respirare spontaneamente.   Tuttavia, la diffusione in ambito ospedaliero di queste nuove procedure rianimatorie ha sollevato la questione di cosa fare con tutte quelle persone che sopravvivono grazie ad esse ma che non mostrano, almeno apparentemente, alcun segno di attività cerebrale e la cui prognosi risulta infausta. Parallelamente, proprio in quegli anni, alcuni chirurghi cominciarono a sperimentare la tecnica dei trapianti di organi.   Figura di spicco in questo ambito fu l’ambizioso chirurgo sudafricano Christiaan Barnard, il quale nel 1959 riuscì a portare a termine il primo trapianto di rene in Sudafrica dopo che esso era già stato effettuato con successo negli Stati Uniti nel 1953. Barnard sperimentò per anni, in gran segreto, il trapianto di cuore sugli animali, cercando di affinare la tecnica.   Il primo trapianto di cuore al mondo venne effettuato il 3 dicembre 1967: il cuore di Denise Darvall, una giovane donna caduta in coma considerato irreversibile, venne impiantato nel corpo di un atleta lituano affetto da una grave patologia cardiaca e prese a funzionare regolarmente. Il ricevente l’organo morì dopo soli 18 giorni a causa di una grave polmonite, ma la notizia fece comunque il giro del mondo e Barnard divenne una stella di fama internazionale. A questo punto però, c’era da risolvere il problema legale legato ai trapianti di organi vitali. Infatti, i chirurghi e le équipe mediche che effettuavano tali interventi correvano il rischio di venire incriminati per omicidio in quanto gli organi venivano prelevati a cuore battente e dunque da soggetti ancora in vita.   A tale scopo la comunità scientifica internazionale convocò, nel 1968, una commissione ad hoc, la famosa commissione di Harvard, composta da un certo numero di professionisti di diversa estrazione (tra costoro figurava anche uno storico), che venne incaricata di redigere un nuovo criterio di morte, basato sulla cessazione di tutte le funzioni encefaliche. La commissione stabilì, nell’agosto di quell’anno, che potevano essere dichiarate decedute non solamente le persone che non presentavano più alcun segno vitale ma anche quelle le cui sole funzioni cerebrali risultavano irrimediabilmente e irreversibilmente compromesse.   In pratica, l’escamotage utilizzato della comunità scientifica internazionale fu quello di dichiarare morte le persone ancora vive.   La commissione non presentò, di fatto, alcun argomento decisivo a supporto della nuova definizione di morte (del resto come avrebbe potuto?). Furono gli stessi membri del comitato di Harvard ad ammetterlo attraverso le seguenti dichiarazioni: «il peso è più grande per i pazienti che soffrono della perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali, e per quanti hanno bisogno di posti letto già occupati da altri pazienti comatosi (…) Criteri obsoleti per la definizione di morte possono portare a controversie nell’ottenere organi per il trapianto».   Dunque, l’introduzione del criterio della morte cerebrale o encefalica non fu il risultato di una riflessione teorica e filosofica sulla morte, ma piuttosto della volontà di risolvere due esigenze di natura pratica: contenere il numero dei pazienti bisognosi di cure adeguate a lungo termine e legittimare l’espianto degli organi vitali.    Passiamo ora ad analizzare le principali criticità di un costrutto artificiale che, è bene ricordare, non è mai stato validato da un punto di vista scientifico ma che anzi si pone sfacciatamente contro l’evidenza dei fatti.

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Innanzitutto, esso si basa sulla tesi secondo cui il principio vitale dell’uomo risiede nel cervello. Sulla base di tale assunto, questo meraviglioso e complesso organo rappresenterebbe, per così dire, la centralina che regola il funzionamento dell’organismo umano. Un cervello le cui funzioni sono totalmente e irrimediabilmente compromesse decreterebbe la fine dell’essere umano come un insieme integrato. In quest’ottica, i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.    Tuttavia, non si capisce come possa un organismo completamente disgregato, un ammasso di organi senza più alcun coordinamento centrale, mantenere inalterate praticamente tutte le funzioni di base. Ad esempio, sia il sistema metabolico che quello immunitario dei pazienti dichiarati cerebralmente morti risultano perfettamente funzionanti. Il presunto cadavere conserva responsività agli stimoli e può anche mostrare dei movimenti spontanei come il cosiddetto fenomeno di Lazzaro, durante il quale egli compie dei movimenti anche ben coordinati che lasciano supporre il coinvolgimento del cervelletto e delle aree superiori dell’encefalo. Inoltre, vengono spesso rilevate nel soggetto in morte cerebrale delle risposte che di norma sono mediate dal tronco encefalico, come l’aumento della frequenza del battito cardiaco e della pressione sanguigna sia all’inizio che nel corso dell’intervento per la rimozione degli organi.   La presenza di movimenti spontanei nella persona che viene sottoposta all’espianto è tale che durante l’operazione è sempre necessario paralizzarla e in alcuni casi si provvede a sedarla. A ben vedere, il soggetto è anche in grado di respirare visto che ciò che ha smesso di funzionare, almeno temporaneamente, sono solamente i centri respiratori ma non la sua capacità di metabolizzare l’ossigeno.   Addirittura, le donne incinte possono portare a termine la gravidanza. Recentemente, si è verificato il caso di una donna di Atlanta incinta di due mesi, dichiarata cerebralmente morta a seguito di un malore, e «costretta» a vivere (può continuare a vivere una persona dichiarata morta?) per quattro mesi perché la legge vigente in Georgia vieta l’aborto in presenza di battito cardiaco del feto. La gravidanza non è uno stato che richiede necessariamente un alto livello di integrazione corporea? E ancora: è logico anche solo ipotizzare che un morto sia in grado di custodire e generare la vita?   Ma c’è un’ulteriore difficoltà nel considerare il cervello come sede dell’essere: visto che esso è l’organo che nello sviluppo fetale si forma più tardi (intorno al terzo mese della gravidanza), come è possibile ritenere imprescindibile alla vita il funzionamento dell’encefalo? In sostanza, nella nuova definizione di morte commissionata agli «esperti» di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete invece all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e le funzioni che compongono l’organismo umano.    Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza. Di conseguenza, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle sue capacità intellettive. I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia, di Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, di Eluana Englaro in Italia, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.    Ma c’è un secondo grosso nodo da sciogliere nella nuova definizione di morte. Come si fa a stabilire con assoluta certezza che il cervello ha definitivamente smesso di funzionare? Allo stato attuale delle conoscenze, siamo in grado di accertare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tutte le funzioni cerebrali di un paziente clinicamente morto siano irreversibilmente compromesse?   Nel 2017 la rivista Current Biology ha reso noto un esperimento scientifico condotto dalla neuroscienziata Angela Sirigu, la quale è riuscita a recuperare la coscienza di un paziente in stato vegetativo attraverso una serie protratta nel tempo di elettrostimolazioni del nervo vago. La particolarità dell’esperimento effettuato dalla ricercatrice italiana è dovuta al fatto che il paziente non aveva più alcun contatto con il mondo esterno da ben 15 anni e la sua condizione era considerata irreversibile.   Anche secondo la neurologa Silvia Marino, la quale è riuscita attraverso la somministrazione di stimoli di vario genere a far passare un certo numero di pazienti dallo stato cosiddetto vegetativo a quello di minima coscienza, il termine irreversibile applicato ai disturbi della coscienza non è più utilizzabile. Dunque?

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In ogni caso, anche qualora si riuscisse a provare l’assenza di qualsiasi funzione cerebrale, è comunque privo di fondamento, come abbiamo visto, ritenere che la morte dell’encefalo sia un indicatore della morte di tutto l’organismo. Pensate, che anni fa si verificò il caso di un bambino entrato in stato di morte cerebrale all’età di quattro anni e morto, senza aver mai ripreso a respirare autonomamente, quando ne aveva ventitré!   Sulla base di questo e di altri casi simili è veramente difficile continuare a sostenere la tesi che un cervello funzionante sia la condizione necessaria per la vita di un essere umano. Tra l’altro, la stessa comunità scientifica è divisa su quali aree del cervello è necessario prendere in considerazione per decretare la morte cerebrale di un individuo.   Nel celebre documento di Harvard, la morte viene definita come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (morte cerebrale totale), ma dato che i criteri clinico-strumentali adoperati per accertarla non sono in grado di rilevare effettivamente la cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche, un neurologo inglese arrivò alla conclusione che fosse sufficiente accertare la distruzione del solo tronco encefalico (tesi anch’essa priva di fondamento scientifico).   Il risultato è che in alcuni paesi, tra cui l’Italia, è obbligatorio effettuare l’EEG, un esame diagnostico che misura e registra l’attività elettrica cerebrale, mentre in altri, come l’Inghilterra, esso non è ritenuto necessario. In effetti, oltre al fatto che un tracciato elettroencefalografico può essere normale anche se piatto (ad esempio, adulti ansiosi o neonati possono presentare un tracciato piatto non patologico), le modalità di registrazione elettroencefalografica non garantiscono risultati certi, dal momento che essi possono essere influenzati da diversi fattori, tra cui l’effetto tampone provocato da importanti addensamenti di sangue all’interno del cranio.   Non solo, il limite dei 2 microvolts di attività elettrica cerebrale sotto cui non ci sarebbe la vita costituisce una soglia convenzionale valida solo ai fini legali, visto che essa non corrisponde ad un ipotetico zero strumentale e visto che i risultati dell’esame elettroencefalografico dipendono anche dalle cangianti tarature degli apparecchi e dall’impossibilità tecnica di amplificare segnali elettrici più bassi. 

Un capitolo a parte è rappresentato dalle procedure atte a stabilire la morte cerebrale. Innanzitutto, è possibile constatare come la morte da evento naturale, oggettivo ed osservabile sia stata di fatto trasformata in un evento artificiale, niente affatto oggettivo né tantomeno osservabile, ma riscontrabile unicamente attraverso la tecnica medica.   In altri termini, la morte viene tolta allo sguardo dell’uomo e confinata nei reparti di rianimazione degli ospedali. Ciascuno di noi, in un modo o nell’altro, ha fatto l’esperienza della morte e ciascuno di noi è capace di riconoscerla, indipendentemente dal livello di istruzione o dalle conoscenze nel campo della medicina.   Un corpo freddo, bianco e rigido è certamente quello di un cadavere, mentre un corpo caldo, colorito e con un cuore che pulsa è certamente quello di una persona viva. Ebbene, con l’introduzione del nuovo criterio l’accertamento della morte diventa una questione riservata esclusivamente agli addetti ai lavori.   Anzi, a ben vedere nemmeno i medici sono in grado di stabilire se un uomo è deceduto oppure no (ai sanitari spetta solo il compito di applicare pedissequamente i protocolli); a certificarlo sono unicamente dei test clinici effettuati con specifici macchinari.   Ma quali sono questi test? In cosa consistono?   Innanzitutto, la prima cosa da rilevare è che essi non sono gli stessi in tutti i paesi del mondo oppure vengono applicati in maniera differente. Ad esempio, il tempo di osservazione della morte, il cosiddetto silenzio cerebrale, varia da paese a paese e va da un minimo di due ore di osservazione ad un massimo di sei ore.   Abbiamo già visto come in alcuni paesi l’elettroencefalogramma è obbligatorio ai fini della dichiarazione di morte mentre in altri non lo è. Per quanto riguarda la cosiddetta morte cardiaca (di cui parleremo meglio più avanti) il tempo di arresto necessario affinché si possa decretare la morte del cervello per mancanza di ossigeno è di 20 minuti in Italia, mentre è di soli 5 minuti in Spagna e in altri paesi.   È dunque possibile affermare senza timore di smentita che, in linea teorica, lo stesso paziente può essere dichiarato morto in Inghilterra o in Spagna e vivo in Italia (alla faccia dell’oggettività della morte cerebrale).

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Vale la pena soffermarsi su una procedura in particolare: il famigerato test di apnea, l’ultimo esame diagnostico che viene effettuato al termine dell’esplorazione dei riflessi del tronco encefalico, quando questi risultano assenti.   L’obiettivo del test è dimostrare la perdita della funzione del centro del respiro situato a livello bulbare attraverso l’accumulo di CO₂. In pratica, il paziente viene disconnesso dal respiratore e, una volta raggiunto un certo valore soglia di CO₂ nel sangue, se non si attiva la respirazione spontanea viene dichiarata la morte encefalica.   Per la legge italiana questo «esame» deve essere effettuato per ben due volte, all’inizio e al termine del periodo di osservazione.   Le linee guida per l’esecuzione del test di apnea raccomandano di sostituirlo con il test di flusso cerebrale qualora, nonostante le opportune precauzioni, la procedura causi la comparsa di gravi complicanze tali da compromettere seriamente le funzioni biologiche del paziente (quindi il fatto che sia potenzialmente letale è scritto nero su bianco)    Pertanto, l’attivazione di una simile procedura in un paziente con estremo bisogno di cure non è esattamente un toccasana per la sua salute. Spesso, infatti, il test di apnea non fa che peggiorare il quadro clinico del paziente, riducendo se non addirittura azzerando le sue possibilità di recupero.   È un po’ come se una persona caduta in una piscina venisse salvata dalla morte per annegamento attraverso le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, per poi essere gettata di nuovo nella piscina al fine di verificare la sua capacità di riemergere dall’acqua per riuscire a respirare…   Non rappresenta, domandiamo, una chiara violazione dei diritti del malato sottoporre il comatoso a dei test potenzialmente letali quando egli, fino a prova contraria, è ancora in vita?   Non solo: quando il paziente viene sottoposto ai test di accertamento deve essere libero dai farmaci che possono influenzare lo stato di coscienza o deprimere la respirazione. In altri termini, al paziente vengono sospese le cure.   C’è da sottolineare poi un fatto: di norma, le procedure di accertamento della morte encefalica vengono attivate molto in fretta, ossia poco tempo dopo il ricovero in ospedale; parliamo di pochi giorni o addirittura poche ore.   Allora ci si domanda: perché tutta questa fretta nell’avviare i protocolli e attivare una serie di procedure che non sono a rischio zero per i pazienti, ma che possono causare loro ulteriori danni?   C’è il fondato sospetto che questa immotivata celerità nel dichiarare la morte cerebrale risponda all’esigenza di evitare che la vittima possa dare segni di ripresa – ovvero che esca dal coma – rendendo vani gli sforzi delle strutture sanitarie nel reperire organi freschi da trapianto.   È noto come i centri autorizzati ad effettuare i trapianti sparsi nel territorio abbiano dei budget di produzione da rispettare e come il raggiungimento di questi obiettivi sia necessario all’acquisizione di rilevanti finanziamenti pubblici e privati. Del resto, i direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere sono dei veri e propri manager d’azienda.

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A questo punto è quanto mai opportuno porsi la seguente domanda: per la legge, siamo tutti potenziali donatori di organi?   Dunque, la normativa italiana ha stabilito il principio del consenso o dissenso esplicito, sulla base di cui ad ogni persona maggiorenne viene data la possibilità di dichiarare validamente la propria volontà in merito alla cosiddetta donazione degli organi.   Nello specifico, la legge 91/99 agli articoli 4 e 5 ha istituito il principio del silenzio-assenso, in base a cui la mancata dichiarazione di volontà viene considerata come consenso alla donazione. Tuttavia, tale enunciato non può essere applicato, in quanto – come previsto dalla legge stessa – non è stata ancora costituita un’anagrafe informatizzata che consenta la notifica ad ogni cittadino, da parte di un Pubblico Ufficiale, di un modulo per la dichiarazione di volontà.   Per cui, allo stato attuale, le principali modalità con cui è possibile esprimersi in un senso o nell’altro sono le seguenti:  
  • presso gli uffici comunali, firmando un apposito modulo predisposto al momento del rilascio o del rinnovo della carta d’identità;
  • presso gli sportelli delle Aziende sanitarie locali;
  • attraverso una dichiarazione in carta libera completa di tutti i dati personali, datata e firmata.
  Le dichiarazioni di volontà sono considerate valide ai sensi di legge e sono registrate all’interno del Sistema Informativo Trapianti.   Nel caso in cui si scelga di non esprimersi secondo le modalità previste, il consenso viene chiesto ai parenti più stretti o agli aventi diritto. Pertanto, l’espianto può essere effettuato solo in presenza di un esplicito consenso.   È dunque sufficiente opporsi al trapianto per sfuggire alla trappola della morte cerebrale? Purtroppo no. Anche in caso di mancato assenso alla donazione, la legge impone il distacco dai supporti vitali del soggetto dichiarato cerebralmente morto, il quale viene così lasciato morire per mancanza di cure (del resto se il paziente è dichiarato deceduto deve essere necessariamente trattato alla stregua di un cadavere, quantomeno per coerenza).   Comunque, malgrado la massiccia propaganda massmediatica messa in atto dalle istituzioni – che tende a far leva sui sentimenti e sull’emotività per tentare di convincere più cittadini possibili a diventare donatori di organi (la cosiddetta «cultura del dono») – la percentuale di opposizioni ai trapianti si attesta, almeno nel nostro paese, intorno al 40% (una percentuale decisamente alta).   È anche per tale motivo che la macchina delle predazioni è sempre alla ricerca di nuove tecniche per reperire organi. Una di queste è la cosiddetta donazione a cuore fermo (donation after cardiac death o DCD), che mette in evidenza lo stretto legame tra la predazione degli organi e l’eutanasia.   Schematicamente, esistono due tipi di donatori a cuore fermo: controllati e non controllati.   La DCD non controllata concerne tutti i pazienti nei quali la morte per arresto cardiaco avviene in modo improvviso, solitamente fuori dall’ospedale o in pronto soccorso. In tali situazioni non è possibile controllare l’evento acuto che determina la morte e non è possibile studiare clinicamente il paziente come potenziale donatore, per cui a differenza degli altri organi il cuore non può essere prelevato.

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Diverso è il caso della DCD controllata, in cui l’arresto cardiaco è atteso, ossia previsto. Essa fa seguito alla sospensione dei trattamenti intensivi a motivo della loro supposta mancanza di proporzionalità. In altre parole, il malato viene staccato dai supporti vitali, in particolare dal supporto ventilatorio, in una circostanza prevista e medicalmente controllata.   In questo caso il cuore è sano e può essere prelevato dopo i venti minuti di assenza di battito e di circolo, come prescritto dalla legge italiana. Il muscolo cardiaco, già prima del prelievo e del trapianto, viene accuratamente valutato e spesso collegato ad un sistema di circolazione artificiale che permette di verificarne la funzionalità in vista del trapianto.   In pratica, si tratta di pazienti terminali che non soddisfano i criteri della morte encefalica e che hanno in qualche modo manifestato la loro volontà di sospendere i sostegni vitali, oppure che siano stati i familiari (si discute tanto in Italia di questi tempi di rischio eutanasico ma come possiamo constatare l’eliminazione programmata del malato terminale già viene fatta e sotto l’egida della legge).   In un articolo pubblicato sul New York Times il 20 luglio scorso sono stati riportati diversi casi di pazienti la cui morte è stata programmata in anticipo affinché potessero diventare donatori di organi.   C’è da considerare che il periodo di mancanza di battito cardiaco considerato necessario affinché l’ipossia danneggi irreversibilmente il tessuto cerebrale varia, in America, dai due ai cinque minuti, quando l’esperienza clinica dimostra che il cuore può riprendere a battere anche diverso tempo dopo.   In un caso descritto dal New York Times, una donna sottoposta alla DCD controllata ha cominciato ad ansimare in cerca d’aria mentre i chirurghi le segavano lo sterno e il suo cuore ha ripreso a battere. A quel punto l’operazione è stata annullata e dodici minuti dopo la sfortunata signora è stata dichiarata morta per la seconda volta.   Ora, è necessario comprendere che il problema non è solamente legato alla rigorosità delle procedure di accertamento o al fatto che ci sono casi come quelli descritti negli USA in cui le diagnosi di morte risultano, per così dire, «affrettate».   Il problema vero è la definizione stessa di morte cerebrale e la concezione filosofica dell’essere umano che c’è dietro.   E visto che non c’è, né ci potrà mai essere, un protocollo universalmente valido con cui si possa accertare ciò che semplicemente non esiste in natura, le scorciatoie procedurali per rendere più facile l’approvvigionamento degli organi sono inevitabili e tenderanno sempre più ad essere utilizzate in ambito ospedaliero.   A dimostrazione di quanto sia presente tale deriva, sempre il New York Times ha pubblicato un editoriale dal titolo: «Donor Organs Are Too Rare. We Need a New Definition of Death» («Gli organi donati sono troppo rari. Abbiamo bisogno di una nuova definizione di morte»), in cui alcuni cardiologi di fama mondiale sembrano lanciare un appello affinché la comunità scientifica elabori una nuova definizione di morte. Di seguito un breve estratto:   «Una persona può diventare donatrice di organi solo dopo essere stata dichiarata morta (…) La morte cerebrale è tuttavia rara (…) La soluzione, a nostro avviso, è ampliare la definizione di morte cerebrale per includere i pazienti in coma irreversibile sottoposti a supporto vitale».   «Le funzioni cerebrali più importanti per la vita sono la coscienza, la memoria, l’intenzione e il desiderio» – continuano i cardiologi intervistati – «Una volta che queste funzioni cerebrali superiori sono irreversibilmente perdute, non è forse corretto affermare che una persona (in contrapposizione a un corpo) ha cessato di esistere?»   È dunque evidente come la nuova definizione di morte sdoganata dai cosiddetti esperti di Harvard contenga al suo interno tutte le premesse per un suo superamento.   Infatti, privata del fine soprannaturale, l’esistenza umana perde il suo valore intrinseco e finisce per acquisire significato solamente in relazione a quanto essa può essere utile a qualcun altro.

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Non è dunque così improbabile che si arrivi a rendere obbligatoria la donazione degli organi. La cardiologa Maria Frigerio, ex direttrice del reparto di cardiologia dell’ospedale Niguarda di Milano, in un’intervista pubblicata lo scorso febbraio dal Corriere della Sera preconizza l’obbligatorietà dei trapianti.   Secondo la Frigerio, l’elevata percentuale di opposizioni ai trapianti limita pesantemente la possibilità di salvare delle vite ed è «per questo che la donazione potrebbe diventare un obbligo».   Per concludere, vorrei accennare ad un aspetto poco conosciuto che riguarda l’aspettativa e la qualità di vita dei trapiantati.   L’uso continuo e a vita dei farmaci immunosoppressori, necessari a sopprimere la risposta del sistema immunitario verso l’organo trapiantato, riduce la capacità del sistema immunitario stesso di combattere le infezioni e di distruggere le cellule tumorali.   Sussiste dunque un rischio molto elevato di contrarre alcuni tipi di cancro, in particolare i tumori della pelle, alcuni dei quali potenzialmente letali.   Attraverso una ricerca scientifica è stato scoperto inoltre che i trapiantati hanno un rischio particolarmente elevato di sviluppare melanomi che hanno già raggiunto uno stadio avanzato al momento della diagnosi.   Sempre a causa dei farmaci immunosoppressori, le persone che hanno ricevuto un trapianto di fegato, cuore o polmone hanno il 64% in più di probabilità, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare patologie cardiovascolari.   Un altro aspetto che rende più probabile l’incidenza di tali malattie è l’obesità: ben il 50% dei trapiantati subisce un aumento di peso che oscilla tra il 10% e il 35% del loro peso corporeo.   Questo breve e niente affatto esaustivo elenco di problemi a cui vanno incontro i trapiantati ci fa comprendere meglio come la «medicina» dei trapianti, pur presentandosi come una vittoria della scienza, in realtà trasformi il malato in un paziente cronicizzato, dipendente a vita dai farmaci e costretto a sottoporsi a frequenti screening clinici, quindi inserito in una filiera che alimenta enormi interessi economici.   Questo non significa negare la sofferenza di chi è malato e ripone le sue speranze nel ricevere un organo, ma ci invita a guardare più in profondità: quando la vita viene piegata alle logiche di mercato e ridotta a un mezzo, essa perde il suo valore autentico. Ed è proprio qui che si gioca la posta più alta: riconoscere e difendere la dignità dell’uomo, che non è mai un insieme di funzioni biologiche, ma una persona unica, creata a immagine e somiglianza di Dio.   Ho concluso, grazie a tutti voi per l’attenzione.   Alfredo De Matteo

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Eutanasia

L’Uruguay sulla strada dell’eutanasia express

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La Camera bassa del Parlamento uruguaiano ha appena approvato, in prima lettura, un disegno di legge che legalizza l’eutanasia nel Paese. Se il Senato approverà il disegno di legge – il che è più che probabile, dato che è nelle mani dei progressisti – sarà possibile ricevere l’iniezione letale cinque giorni dopo la richiesta. In alcuni casi, anche meno.

 

Finora si credeva che il Far West fosse la patria dei tiratori più veloci del mondo, con nomi leggendari come Billy the Kid e Calamity Jane. Ma potrebbero essere sul punto di essere superati dai legislatori uruguaiani, che stanno attualmente discutendo una proposta di legge che consentirebbe di eliminare un paziente in pochi giorni.

 

Utilizzando elementi cari ai progressisti, il testo «Muerte Digna» – Morte con Dignità – mira a legalizzare e regolamentare l’eutanasia attiva e il suicidio assistito a condizioni presentate come rigorose, ma che notoriamente si rivelano sempre un escamotage in questo tipo di casi. Il progetto è stato già approvato dalla Camera dei Rappresentanti nella notte tra il 12 e il 13 agosto 2025, dopo una maratona di 14 ore, con 64 voti a favore su 93 elettori.

 

Ha ricevuto il sostegno quasi unanime del Frente Amplio – la sinistra al governo – e di settori dell’opposizione, come il Partido Colorado e parte del Partido Nacional . Il testo deve ora passare al Senato, dove si prevede che sarà esaminato in commissione, con un’approvazione probabile entro la fine del 2025, data la maggioranza progressista in quell’aula.

 

Partiti di destra come Cabildo Abierto e Identidad Soberana hanno denunciato il «diritto di uccidere» piuttosto che di morire, citando rischi di abusi e paragonando Muerte Digna al programma del partito nazista degli anni Trenta. La Conferenza episcopale uruguaiana (CEU), in una dichiarazione del 29 agosto 2025, ha fermamente respinto il progetto, affermando che «causare attivamente la morte è contrario all’etica medica», e sostenendo il rafforzamento delle cure palliative.

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Cosa dice il testo? Un paziente che desidera porre fine alla propria vita consulta il proprio medico, che può dare immediatamente un parere favorevole o attendere fino a tre giorni. Successivamente, inoltra la richiesta a un altro medico, che visita il paziente ed esamina la sua cartella clinica: ha un massimo di cinque giorni per rispondere. Se i due pareri concordano, l’esecuzione viene programmata: può avvenire cinque giorni dopo l’inizio della procedura. O anche meno, se il medico ha motivo di ritenere che la coscienza del paziente possa essere gravemente compromessa nelle ore successive.

 

Al di là della legge naturale che viola e dell’insegnamento della Chiesa che contraddice, Muerte Digna solleva molti interrogativi: in primo luogo, il diritto all’eutanasia potrebbe entrare in conflitto con il diritto all’obiezione di coscienza di chi presta assistenza che si rifiuta di partecipare a tale pratica. Questa tensione rischia di limitare gradualmente la libertà degli operatori sanitari, costringendoli ad agire contro le proprie convinzioni. Questo vale in Uruguay come altrove.

 

Inoltre, il disegno di legge non subordina l’accesso all’eutanasia a una soglia minima di gravità o sofferenza per i malati terminali, il che apre la strada a interpretazioni ampie. Ancora una volta, la nozione di «sofferenza insopportabile» rimane vaga e soggettiva, rendendo la sua valutazione soggetta ad arbitrarietà.

 

Un punto particolarmente delicato riguarda l’accesso all’eutanasia per i pazienti affetti da disturbi psichiatrici, senza ulteriori criteri specifici. Questa scelta solleva preoccupazioni circa la tutela delle persone vulnerabili: un periodo di attesa di giorni è ridicolo in tali casi. Inoltre, il disegno di legge non richiede competenze specifiche ai medici consultati per una richiesta di eutanasia, il che indebolisce ulteriormente il rigore del processo.

 

Se l’argomento non fosse così serio, alcune disposizioni del testo votato dai deputati uruguaiani farebbero quasi sorridere, tanto sono deplorevolmente stupide: in particolare la menzione che l’eutanasia sarà considerata dalla legge come una «morte naturale». Per non parlare della definizione di morte «dignitosa» come diritto a morire «senza dolore»: i cambogiani, assassinati con un colpo in testa dai Khmer Rossi con il pretesto che sapevano leggere, probabilmente apprezzeranno…

 

«Bisogna sempre dire ciò che vediamo: soprattutto, bisogna sempre, il che è più difficile, vedere ciò che vediamo»: Péguy non è mai stato così attuale.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.News

 

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Immagine di GameOfLight via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported

 

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