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Geopolitica

Afghanistan, laboratorio COVID, corruzione dei Biden: un patto tra Washington e Pechino?

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Abbiamo voglia di unire i puntini. Biden commette un harakiri politico e geopolitico mai visto prima. L’Afghanistan brucia, mentre la storia del COVID infuria, e Biden jr. è sui giornali con video di depravazione e corruzione sempre più inquietanti.

 

Questo sito, a partire dalla sua posizione sui vaccini, è stato pubblicamente definito un sito complottista, per cui, marchiati a vita, possiamo permetterci di supporre qualcosa di inedito e indicibile: dietro a tutto questo potrebbe esserci un patto tra la Casa Bianca e Pechino.

 

Andiamo con ordine.

 

 

Saigon al cubo

Nessuno ha ancora spiegato il motivo per il quale l’amministrazione Biden si è impegnata nella catastrofe che stiamo ora vedendo in Afghanistan.

 

Biden si è offerto a quella che forse è la più colossale figura mai fatta da un presidente americano. Biden è stato beccato a mentire o a proclamare, ostentando sicumera, informazioni totalmente scollate dalla realtà. L’esercito afghano, che ribadiva essere 6 volte quello talebano e molto meglio armato, si è squagliato poche ore dopo i suoi proclami dalla Casa Bianca. Come ha detto Bryan Dean Wright, un veterano della operazioni estere CIA, si è trattato della «conferenza stampa più infame e devastante mai tenuta da un presidente americano».

 

Dietro a tutto questo potrebbe esserci un patto tra la Casa Bianca e Pechino

Ora tutti stanno mettendo in questione la leadership americana, e quindi Biden l’eletto.

 

L’Europa, perfino: la Merkel ha fatto dichiarazioni che sembrano smarcarsi dagli USA, e preludere a chissà cosa.

 

La pazienza dei giornali è finita: Sky News Australia sostiene apertamente che Biden non è fit per il comando degli Stati Uniti.

 

Le proporzioni di questo fiasco presidenziali sono immani: aveva sdegnosamente risposto ai giornalisti che non sarebbe stata un’altra Saigon, e poi abbiamo visto tutti che le immagini sono le stesse. Perfino l’elicottero sembra essere proprio quello, il Chinhook…

 

E poi, il destino della popolazione di Saigon era di finire nelle mani di uno Stato comunista, che certo avrebbe fatto le sue rappresaglie sui «collaborazionisti», ma non siamo sicuri che i Vietcong siano andati in ogni Paese a chiedere la lista delle femmine non sposate dai dodici anni in su. Non vogliamo fare paragoni, tuttavia uno può trovarsi ad immaginare che ciò che succederà agli afghani sarà possibilmente molto peggiore di quello che accadde ai vietnamiti.

 

Della violenza  e della distruzione che seguiranno, degli stupri e delle impicaggioni, delle torture e delle razzie, sarà – per quanto stia cercando di dare la colpo, nell’ordine, all’esercito afghano, al governo afghano, agli afghani in generale e ovviamente a Trump – considerato responsabile Biden.

Nessuno ha ancora spiegato il motivo per il quale l’amministrazione Biden si è impegnata nella catastrofe che stiamo ora vedendo in Afghanistan

 

La domanda che non si pone nessuno è: perché questa débâcle? Possibile che nessuno attorno a lui abbia capito?

 

Ragioniamo: le sue dimensioni sono tali che non è possibile che nessuno avesse previsto che qualcosa potesse andare storto…

 

Nonostante le immagini delle persone che precipitano dai carrelli dei cargo (quanto assomigliano a quei corpi che volavano dalle Due Torri, evento intimamente legato alla storia che stiamo vedendo) nel suo discorso di ieri sera, tornato senza fretta dalle ferie estive come un Gigi Di Maio qualsiasi, Biden non ha fatto un passo indietro che sia uno.

 

Biden, nonostante la promessa di inviare 7000 soldati, ha sostanzialmente ribadito la sua posizione.

 

Forse si era sbagliato nei confronti dell’esercito afghano, e vabbè, del resto gli USA ci hanno solo sacrificato 20 anni di addestramenti e 100 miliardi di dollari – più qualche migliaio di morti, amputati, disastrati nella psiche e nella famiglia, più 60 mila veterani suicidi in patria.

 

È possibile che Biden non abbia solo tollerato questo esito, ma lo abbia in qualche modo fortemente voluto, a scapito di questa enorme, eterna chiazza di sangue sulla sua immagine?

Allora, perché? Perché Biden si è risolto a portare avanti un simile cataclisma, che giocoforza segnerà per sempre lui e l’establishment democratico? Dopo Saigon ci fu l’ambasciata di Teheran… e Carter, per quell’ulteriore umiliazione subita dagli USA in Asia, perse le successive elezioni. Il Partito Democratico rispuntò dodici anni dopo con Clinton, in mezzo ci furono Reagan e Bush padre.

 

E allora, perché?

 

È possibile che Biden non abbia solo tollerato questo esito, ma lo abbia in qualche modo fortemente voluto, a scapito di questa enorme, eterna chiazza di sangue sulla sua immagine?

 

Quella che segue è una pura speculazione. Tuttavia, i fatti su cui essa si appoggia non lo sono. Per niente.

 

 

L’Afghanistan regalato alla Cina. Perché?

La Cina si era già detta pronta a riconoscere il governo talebano. L’inviato RAI a Pechino Giovanna Botteri ieri mostrava con grande sincerità le immagini della TV cinese: mostravano una città dove tutto era in ordine, neanche l’ombra degli ingorghi sulle strade o del massacro all’aeroporto.

 

La Cina, ricordiamolo, sia pur per una piccola linea sulla terra, è un Paese confinante con l’Afghanistan. Tuttavia, lo scambio che l’Afghanistan può avere su quella parte della Cina musulmana – lo Xinjiang, cioè quello che gli uiguri chiamano Turkestan orientale – è grandissimo, e il confine, fatto di montagne che splendono su laghi di limpidezza incantata, è poroso, specie per soggetti che a piedi e con i muli hanno sconfitto i sovietici e (da oggi possiamo dirlo) pure gli americani.

 

Chi scrive vide alla stazione degli autobus della città di Kashgar (dove la memoria di Marco Polo, passato di lì, è onorata) vetture con destinazione Jalalabad – oltre ovviamente a Peshawar e città pachistane limitrofe che fungono da decenni da valvole da e per l’Afghanistan.

 

La Cina si era già detta pronta a riconoscere il governo talebano

I cinesi hanno lavorato con profitto in Afghanistan durante l’era americana, soprattutto nell’estrazione mineraria.

 

Tuttavia, le mire di Pechino non sono solo economiche: se un nemico islamista si installasse in Afghanistan potrebbe riversare verso lo Xinjiang il terrorismo – è il problema del separatismo uiguro, basato sempre più sull’islamismo radicale. Lo Xinjiang, ricordiamolo, è praticamente l’unica provincia cinese dove c’è il petrolio.

 

Non si tratta di fantapolitica. Lo abbiamo visto anche quando il terrore islamico globale si fece un santuario non-confinante con i musulmani cinesi: in Siria hanno combattuto migliaia di uiguri cinesi, prontamente convertiti al takfirismo di Daesh.

 

Ora, lasciare che i talebani creino il loro Emirato senza patti chiari, sarebbe stata una follia politica, comune tra gli occidentali ma impossibile tra i cinesi.

 

Come ha riportato Renovatio 21, che i cinesi stessero armando i talebani lo sapevano tutti. Così come sono ovviamente addentro all’accelerazione talebana gli altri due avversari: l’Iran (l’Afghanistan contiene sacche sciite, e la lingua di alcune tribù è parente del persiano) e la Russia, che procede a prendersi quello che gli americani lasciano (come visibile nell’ultima stagione della serie Homeland).

 

La Cina starebbe preparando un’ammissione pubblica riguardo al virus uscito dal laboratori. In cambio di cosa? Dell’Afghanistan

Ma Iran e Russia non hanno né il danaro, né l’interesse strategico della Cina, e neppure hanno in cantiere la più grande opera infrastrutturale della Storia, la Belt and Road Initiative, ovvero la Nuova Via della Seta.

 

Quello che pare chiaro, insomma, è che l’America abbia consegnato le chiavi di Kabul alla Cina. Lo avrebbe fatto a costo di questo fiasco titanico che ne segnerà la reputazione nei decenni e nei secoli. Lo avrebbe fatto quindi, volontariamente?

 

Lo avrebbe fatto, in cambio di cosa?

 

 

Patto occulto per il mondo post-pandemico

Qualche settimana fa una grande testata, che già in passato aveva dimostrato di avere ottime fonti su Wuhan e dintorni, aveva fatto uscire una strana notizia: la Cina starebbe preparando un’ammissione pubblica riguardo al virus uscito dal laboratorio.  Il che, avendo imparato a conoscere i funzionari del Partito Comunista Cinese, sarebbe clamoroso.

 

La domanda da porsi anche qui è la stessa: in cambio di cosa?

 

Proviamo a dare la nostra risposta speculativa: in cambio dell’Afghanistan.

 

La Cina, ammettendo, si becca anche lei la Top 5 nella figura del secolo, ma è un danno calcolato, pilotato. Anzi, potrebbe aiutare: se diciamo una mezza verità, magari possiamo dissipare quel sospetto tremendo, e cioè che nel laboratorio ci lavorava l’esercito, e il SARS-nCoV-2 era un progetto buono per creare anche bioarmi.

Il COVID è stato definito «la Chernobyl della Globalizzazione». Bisogna purificare, pulire, bonificare, a costo di avvelenarsi un po’. Tutti

 

Immaginatelo come l’inizio di un condono tombale per la catastrofe del COVID. Se Pechino ammette, perché accanirsi? Basta accuse, basta sospetti, basta con la furia populista, e quel pensiero che hanno nel retrocranio tutti: la Cina è responsabile… ma la Cina, sa anche che nella responsabilità della fuga dal laboratorio, ora può tirare dentro anche Fauci e il sistema sanitario americano, che finanziava gli studi sulla manipolazione (gain of function) del coronavirus SARS. Mal comune, mezzo gaudio.

 

Il risultato, alla fine, sarebbe una normalizzazione dei rapporti. Con beneficio della classe dirigente occidentale, funestata dalla situazione attuale: i container non arrivano più dalla Cina (provate a fare un giro nelle grandi catene di articoli sportivi o bricolage per capire come mai molti prodotti non arrivano più…), e quindi il mondialismo stesso è in pericolo.

 

Il COVID è stato definito «la Chernobyl della Globalizzazione». Bisogna purificare, pulire, bonificare, a costo di avvelenarsi un po’. Tutti.

 

Casa Bianca e Dragone fanno tutti e due un passo indietro, e si scambiano favori. Un patto di beneficio reciproco, per un restart del quadro globale, che – almeno per quanto riguarda il rapporto con la Cina «fabbrica del mondo» (e Paese pilota del totalitarismo digitale) – deve tornare allo status quo ante.

 

 

Video hard e miliardi cinesi: l’interesse della Banda Biden

Mettiamo sul piatto anche il caso umano di Joe Biden, che in un negoziato oscuro con il Dragone non potrebbe non avere il suo peso specifico.

 

È uscito in settimana un nuovo video del figlio Hunter, che in una camera di albergo confessa ad una prostituta a caso che in uno dei suoi costosissimi bagordi negli hotel di Las Vega degli spacciatori russi gli avrebbero portato via un computer (sarebbe il terzo che perde…) pieno di video in cui si impegna in «sesso pazzo».

 

Il pezzo davvero incriminante in cui è coinvolto Hunter non riguarda lui e la sua depravazione, ma l’immensa quantità di capitale cinese confluito su un suo fondo.

Non è tuttavia la tragicommedia erotica del figlio di Biden a essere l’unica leva dei servizi stranieri (russi, cinesi, etc.) nei confronti di quella che Rudy Giuliani chiama, ricordando il suo passato di martellatore delle famiglie mafiose di Nuova York, la Biden Crime Family.

 

Il pezzo davvero incriminante in cui è coinvolto Hunter non riguarda lui e la sua depravazione, ma l’immensa quantità di capitale cinese confluito su un suo fondo.

 

Non si tratta di un mistero complottista: l’operazione fu rivendicata pubblicamente da un professore cinese, che lasciava capire che i miliardi cinesi assegnati al fondo di Biden jr. compravano l’influenza sul futuro presidente, perché i rapporti tra Pechino e Washington con Trump si erano intesiti al punto che anche tutti i canali riservati erano inservibili, con grande scorno – disse il cinese – dell’establishment precedente e di Wall Street.

 

 

«Ora vediamo che Biden è stato eletto. L’élite tradizionale, l’élite politica, l’establishment sono molto vicini a Wall Street, giusto?» aveva dichiarato in TV Di Dongsheng, un professore all’Università Renmin di Pechino.

 

Poi, ridacchiando, una domanda retorica: «Trump ha detto che il figlio di Biden ha una sorta di fondo internazionale. Lo avete sentito? Chi lo ha aiutato a mettere in piedi le fondazioni?»

 

Le voci filo-Trump, durante la campagna elettorale, suggerirono che il socio segreto del fondo di Hunter fosse il padre Joe, l’attuale presidente, identificato in alcuni messaggi rinvenuti nel laptop di Hunter come «The Big Guy».

Di motivi per regalare l’Afghanistan alla Cina per Biden ce ne sarebbero molti. Personali, politici, sempre occulti

 

Se ciò fosse provato e fatto emergere pubblicamente, niente potrebbe salvare l’attuale presidenza.

 

Di motivi per regalare l’Afghanistan alla Cina per Biden ce ne sarebbero molti. Personali, politici, sempre occulti.

 

Viviamo un’era di menzogna, lo sapevamo.

 

Quello che non abbiamo ancora realizzato è il prezzo di questa menzogna in termini di vite umane.

 

Guardiamo i poveri afghani sfracellarsi sull’asfalto dell’aeroporto per iniziare a comprenderlo.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

Geopolitica

Gli europei sotto shock per la strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per il 2025

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I leader europei e i media dell’establishment sono in preda al panico dopo la diffusione, sul portale ufficiale della Casa Bianca, della «Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America 2025» (NSS).

 

A terrorizzare Bruxelles e dintorni è l’impegno esplicito del governo USA a privilegiare «Coltivare la resistenza all’attuale traiettoria dell’Europa all’interno delle nazioni europee», descritta in termini aspri ma realistici. Il report si scaglia in particolare contro l’approccio dell’UE alla Russia.

 

L’NSS ammonisce che il Vecchio Continente rischia la «cancellazione della civiltà» se non invertirà la rotta imposta dall’Unione Europea e da altre entità sovranazionali. La «mancanza di fiducia in se stessa» del Continente emerge con evidenza nelle interazioni con Mosca. Gli alleati europei detengono un netto primato in termini di hard power rispetto alla Russia in quasi tutti i campi, salvo l’arsenale nucleare.

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Dopo l’invasione russa in Ucraina, i rapporti europei con Mosca sono drasticamente deteriorati e numerosi europei vedono nella Federazione Russa una minaccia esistenziale. Gestire le relazioni transatlantiche con la Russia esigerà un impegno diplomatico massiccio da Washington, sia per reinstaurare un equilibrio strategico in Eurasia sia per scongiurare frizioni tra Mosca e gli Stati europei.

 

«È un interesse fondamentale degli Stati Uniti negoziare una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, al fine di stabilizzare le economie europee, prevenire un’escalation o un’espansione indesiderata della guerra e ristabilire la stabilità strategica con la Russia, nonché per consentire la ricostruzione post-ostilità dell’Ucraina, consentendole di sopravvivere come Stato vitale».

 

Il conflitto ucraino ha paradossalmente accresciuto la vulnerabilità esterna dell’Europa, specie della Germania. Oggi, le multinazionali chimiche tedesche stanno erigendo in Cina alcuni dei più imponenti complessi di raffinazione globale, sfruttando gas russo che non possono più procurarsi sul suolo patrio.

 

L’esecutivo Trump si scontra con i burocrati europei che coltivano illusioni irrealistiche sul prosieguo della guerra, appollaiati su coalizioni parlamentari fragili, molte delle quali calpestano i pilastri della democrazia per imbavagliare i dissidenti. Una vasta maggioranza di europei anela alla pace, ma tale aspirazione non si riflette nelle scelte politiche, in gran parte ostacolate dal sabotaggio dei meccanismi democratici perpetrato da quegli stessi governi. Per quanto allarmati siano i continentali, l’establishment britannico lo è ancor di più.

 

Ruth Deyermond, docente al dipartimento di Studi della Guerra del King’s College London e specialista in dinamiche USA-Russia, ha commentato su X che il testo segna «l’enorme cambiamento nella politica statunitense nei confronti della Russia, visibile nella nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale – il più grande cambiamento dal crollo dell’URSS». Mosca appare citata appena dieci volte nel corposo documento, nota Deyermond, e prevalentemente per evidenziare le fragilità europee.

 

In un passaggio esemplare, il report afferma che «questa mancanza di fiducia in se stessa è più evidente nelle relazioni dell’Europa con la Russia». «L’assenza della Russia dalla Strategia di Sicurezza Nazionale 2025 appare davvero strana, sia perché la Russia è ovviamente uno degli stati che hanno l’impatto più significativo sulla stabilità globale al momento, sia perché l’amministrazione è così chiaramente interessata alla Russia (…) Non è solo la mancanza di riferimenti alla Russia a essere sorprendente, è il fatto che la Russia non venga mai menzionata come avversario o minaccia» scrive l’accademica.«La mancanza di discussione sulla Russia, nonostante la sua importanza per la sicurezza e l’ordine internazionale e la sua… importanza per l’amministrazione Trump, fa sembrare che stiano semplicemente aspettando di poter parlare in modo più positivo delle relazioni in futuro».

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La parte dedicata al dossier ucraino – che allude al fatto che «l’amministrazione Trump si trova in contrasto con i politici europei che nutrono aspettative irrealistiche per la guerra» – pare quasi redatta dal Cremlino. L’incipit della Deyermond è lapidario: «Se qualcuno in Europa si aggrappa ancora all’idea che l’amministrazione Trump non sia inamovibile filo-russa e ostile alle istituzioni e ai valori occidentali, dovrebbe leggere la Strategia per la Sicurezza Nazionale del 2025 e ripensarci».

 

Il NSS dedica scarsa attenzione alla NATO, se non per insistere sulla cessazione della sua espansione indefinita, ma stando ad un articolo Reuters del 5 dicembre, Washington intende che l’Europa rilevi entro il 2027 la gran parte delle competenze di difesa convenzionale dell’Alleanza, dall’intelligence ai missili. Questa scadenza «irrealistica» è stata illustrata questa settimana a diplomatici europei a Washington dal team del Pentagono incaricato della politica atlantica, secondo cinque fonti «a conoscenza della discussione».

 

Nel corso dell’incontro, i vertici del Dipartimento della Difesa avrebbero espresso insoddisfazione per i passi avanti europei nel potenziare le proprie dotazioni difensive dopo l’«invasione estesa» russa in Ucraina del 2022. Gli esponenti USA hanno avvisato i loro omologhi che, in caso di mancato rispetto del termine del 2027, gli Stati Uniti potrebbero sospendere la propria adesione a certi meccanismi di coordinamento difensivo NATO, hanno riferito le fonti. Le capacità convenzionali comprendono asset non nucleari, da truppe ad armamenti, e i funzionari non hanno chiarito come misurare i progressi europei nell’assunzione della quota preponderante del carico, precisa Reuters.

 

Non è dato sapere se il limite temporale del 2027 rifletta la linea ufficiale dell’amministrazione Trump o meri orientamenti di singoli addetti del Pentagono. Diversi rappresentanti europei hanno replicato che un tale orizzonte non è fattibile, a prescindere dai criteri di valutazione di Washington, dal momento che il Vecchio Continente necessita di risorse finanziarie aggiuntive e di una volontà politica più marcata per rimpiazzare alcune dotazioni americane nel breve periodo.

 

Tra le difficoltà, i partner NATO affrontano slittamenti nella fabbricazione degli equipaggiamenti che intendono acquisire. Sebbene i funzionari USA abbiano sollecitato l’Europa a procacciarsi più hardware di produzione statunitense, taluni dei sistemi difensivi e armi made in USA più cruciali imporrebbero anni per la consegna, anche se commissionati oggi.

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Geopolitica

Orban: l’UE pianifica la guerra con la Russia entro il 2030

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Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha sostenuto che l’Unione Europea si sta preparando a un confronto bellico con la Russia e mira a raggiungere la piena prontezza entro il 2030. Parlando sabato a un raduno contro la guerra, Orban ha denunciato come il Vecchio Continente stia già procedendo verso uno scontro militare diretto.   Il premier magiaro delineato un iter in quattro tappe che di norma conduce al conflitto: la rottura dei legami diplomatici, l’applicazione di sanzioni, l’interruzione della collaborazione economica e, da ultimo, l’inizio delle ostilità armate. Secondo lui, la maggioranza di questi passaggi è già stata percorsa.   «La posizione ufficiale dell’Unione Europea è che entro il 2030 dovrà essere pronta alla guerra», ha dichiarato, rilevando inoltre che i Paesi europei stanno virando verso un’«economia di guerra». Per Orban, taluni membri dell’UE stanno già riconfigurando i comparti dei trasporti e dell’industria per favorire la fabbricazione di armamenti.   Il premier du Budapest ha ribadito la contrarietà di Budapest al conflitto. «Il compito dell’Ungheria è allo stesso tempo impedire che l’Europa entri in guerra», ha precisato.

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Orban ha più volte manifestato aspre critiche alla linea dell’UE riguardo alla crisi ucraina. L’Ungheria ha sempre respinto le sanzioni nei confronti di Mosca e gli invii di armi a Kiev, invocando invece colloqui di pace in luogo di un inasprimento.   L’allarme riecheggia le recenti uscite del presidente serbo Aleksandar Vucic e del ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, entrambi i quali hanno insinuato che un scontro tra Europa e Russia diventi sempre più verosimile nei prossimi anni.   Malgrado la retorica sempre più bellicosa di certi membri dell’UE e della NATO verso la Russia, nessuno ha apertamente manifestato l’intenzione di impegnarsi in una guerra. La scorsa settimana, il presidente del Comitato Militare NATO, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ha confidato al Financial Times che l’Unione sta valutando opzioni per un approccio più ostile nei riguardi di Mosca, inclusa l’ipotesi che un attacco preventivo possa configurarsi come atto difensivo.  

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Scontri lungo il confine tra Thailandia e Cambogia

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Lunedì la Thailandia ha condotto raid aerei in Cambogia, mentre i due vicini del Sud-est asiatico si attribuivano reciprocamente la responsabilità di aver infranto la tregua negoziata dagli Stati Uniti.

 

A luglio, una controversia confinaria protrattasi per oltre cinquant’anni è sfociata in scontri armati tra i due Stati. Il presidente USA Donald Trump, tuttavia, era riuscito a imporre un cessate il fuoco dopo cinque giorni di ostilità.

 

L’esercito thailandese ha riferito che i nuovi episodi di violenza sono emersi domenica, accusando le unità cambogiane di aver sparato contro i soldati di Bangkok nella provincia orientale di Ubon Ratchathani. Un militare thailandese è caduto, mentre altri quattro hanno riportato ferite; in seguito, ulteriori truppe thailandesi sono state bersagliate da artiglieria e droni presso la base di Anupong, ha precisato lo Stato Maggiore.

 

 

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Il portavoce della Royal Thai Air Force, il maresciallo dell’aria Jackkrit Thammavichai, ha comunicato in tarda mattinata di lunedì che i jet F-16 sono stati impiegati per «ridurre le capacità militari della Cambogia al livello minimo necessario per salvaguardare la sicurezza nazionale e proteggere i civili». Il portavoce del ministero della Difesa cambogiano, il tenente generale Maly Socheata, ha replicato domenica sera sostenendo che le truppe thailandesi hanno sferrato vari assalti contro le postazioni di Phnom Penh, utilizzando armi leggere, mortai e carri armati.

 

«Anche la parte thailandese ha accusato falsamente la Cambogia senza alcun fondamento, nonostante le forze cambogiane non abbiano reagito», ha dichiarato. Il dicastero ha altresì smentito le denunce thailandesi su un potenziamento delle truppe lungo il confine.

 

La contesa territoriale affonda le radici nell’epoca coloniale, quando la Francia – che dominò la Cambogia fino al 1953 – delimitò i confini tra i due paesi. Gli scontri di luglio provocarono decine di vittime e oltre 200.000 sfollati da ambo le parti.

 

Come riportato da Renovatio 21, la Thailandia aveva sospeso la «pace di Trump» quattro settimane fa.

 

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