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Geopolitica

Abdul Ghani Baradar, il leader talebano che ha proclamato l’emirato

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di Asianews

 

 

 

In un videomessaggio egli parla di vittoria inaspettata per tempi e modi. L’ormai ex presidente Ghani giustifica la fuga all’estero con l’obiettivo di scongiurare un martirio e la distruzione della capitale. Le forze USA assumono il controllo dell’aeroporto, preso d’assalto da migliaia di civili che cercano di fuggire. Russia e Cina mantengono aperte le ambasciate. 

 

 

«Abbiamo raggiunto una vittoria che non ci aspettavamo» in tempi e modi così rapidi, cui dovrà seguire ora «umiltà davanti ad Allah» perché questo «è il momento della prova, si tratta di come serviamo e proteggiamo il nostro popolo. E di come assicuriamo il loro futuro e la vita» dell’Afghanistan e dei suoi cittadini, oggi ribattezzato «emirato islamico».

 

Sono le prime dichiarazioni, a poche ore dalla presa di Kabul, del mullah Abdul Ghani Baradar, da molti considerato il prossimo «leader ad interim».

 

In un videomessaggio ha ringraziato i miliziani per la campagna militare che ha portato in pochi giorni alla fuga del presidente Ashraf Ghani. Da palazzo, egli ha promesso «magnanimità» ma, al tempo stesso, ha ricordato gli otto anni di prigionia gettando più di un’ombra sul futuro della nazione e della regione.

 

I talebani cantano vittoria e proclamano la «liberazione» dell’Afghanistan per mano dei mujaheddin a poco meno di un mese dal ventennale delle Torri Gemelle, all’origine della campagna militare statunitense.

 

Sul palazzo presidenziale sventola una bandiera del movimento jihadista mentre un portavoce annuncia che «la situazione è tranquilla» e l’obiettivo è formare «un governo islamico aperto e inclusivo».

«Gli afghani non si stancano mai di lottare finché non hanno liberato il loro Paese. Continueremo il jihad, sino all’espulsione del nemico dalla nostra terra»

 

Nelle prime ore della giornata le vie della capitale appaiono deserte e decine di negozi e e caffè restano chiusi; una decisione presa dai proprietari per «difendere» beni e merci, in attesa degli sviluppi dei prossimi giorni.

 

Intanto prosegue la fuga precipitosa dei diplomatici occidentali e dei lavoratori stranieri, soprattutto fra le rappresentanze di Stati Uniti ed Unione europea.

 

Diversa la posizione di Cina e Russia che, almeno per il momento, mantengono aperte le ambasciate e non intendono ritirare il personale.

 

Le forze armate statunitensi hanno assunto il controllo dell’aeroporto e respinto l’assalto di migliaia di persone disperate che cercano di fuggire dal Paese.

 

Diverse compagnie aeree hanno modificato le rotte per evitare il sorvolo dello spazio aereo afgano. Sospesi i collegamenti di diverse compagnie aeree internazionali verso Kabul.

 

L’ormai ex presidente Ghani, rifugiatosi in Tagikistan (o Uzbekistan secondo altre fonti), in un messaggio diffuso sui social ha riconosciuto la vittoria dei talebani che ora sono «responsabili dell’onore, della proprietà e della tutela dei loro connazionali». Egli ha giustificato la partenza sottolineando che, se fosse rimasto, «innumerevoli patrioti sarebbero stati martirizzati e la città di Kabul sarebbe stata distrutta».

 

Fra il caos all’aeroporto e la calma apparente per le vie della capitale, l’Afghanistan si interroga sul futuro immediato che appare sempre più legato alle decisioni prese dal leader talebano Abdul Ghani Baradar, al quale spetta il compito di guidare la transizione verso «l’emirato».

 

Secondo alcune fonti di Intelligence, egli sarebbe nato nel 1968 nel villaggio di Weetmak, nella provincia di Uruzgan e per molti era fra le figure più influenti dopo il mullah Muhammad Omar. Sin da giovanissimo egli si è distinto nelle varie guerre che hanno insanguinato la nazione asiatica, a partire dal conflitto con i sovietici negli anni ‘80 e continuando fino al 1994, con la fondazione del movimento talebano.

 

Dopo il 2001 vive per alcuni anni in incognito, mentre si susseguono voci (false) di una sua morte per tubercolosi; nel 2009, in una intervista a Newsweek, rilascia una dichiarazione dal sapore profetico: «gli afghani non si stancano mai di lottare finché non hanno liberato il loro Paese. Continueremo il jihad, sino all’espulsione del nemico dalla nostra terra».

 

Nel 2010 viene arrestato dalle forze di sicurezza a Karachi, in Pakistan, in un’operazione considerata all’epoca fondamentale per sradicare l’insurrezione talebana.

 

Tuttavia, nell’ottobre 2018 su richiesta degli Stati Uniti, viene liberato per partecipare ai colloqui di pace sull’Afghanistan.

 

 

 

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

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Geopolitica

Gli Stati Uniti sequestrano una petroliera al largo delle coste del Venezuela

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Il procuratore generale statunitense Pam Bondi ha annunciato il sequestro di una petroliera sospettata di trasportare greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran.

 

L’operazione, condotta al largo delle coste venezuelane, si inserisce in un’escalation delle attività militari americane nella regione, unitamente a raid contro quelle che Washington qualifica come imbarcazioni legate ai cartelli della droga.

 

«Oggi, l’FBI, la Homeland Security Investigations e la Guardia costiera degli Stati Uniti, con il supporto del Dipartimento della Difesa, hanno eseguito un mandato di sequestro per una petroliera utilizzata per trasportare petrolio greggio proveniente dal Venezuela e dall’Iran», ha scritto Bondi su X mercoledì.

 

Ha precisato che la nave era stata sanzionata «a causa del suo coinvolgimento in una rete di trasporto illecito di petrolio a sostegno di organizzazioni terroristiche straniere».

 

Nel video diffuso da Bondi si vedono agenti delle forze dell’ordine, pesantemente armati, calarsi dall’elicottero sulla tolda della nave. Secondo il portale di tracciamento MarineTraffic e vari media, l’imbarcazione è stata identificata come «The Skipper», che batteva bandiera della Guyana. Fonti come ABC News riportano che la petroliera, con una capacità fino a 2 milioni di barili di greggio, era diretta a Cuba.

 

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Gli Stati Uniti avevano sanzionato la The Skipper già nel 2022, accusandola di aver contrabbandato petrolio a beneficio del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica iraniana e del gruppo militante libanese Hezbollah.

 

Un gruppo di parlamentari statunitensi ha di recente sollecitato un’inchiesta sugli attacchi condotti su oltre 20 imbarcazioni da settembre, ipotizzando che possano configurare crimini di guerra.

 

Il senatore democratico Chris Coons, intervistato martedì su MSNBC, ha accusato Trump di «trascinarci come sonnambuli verso una guerra con il Venezuela». Ha argomentato che l’obiettivo reale del presidente sia l’accesso alle risorse petrolifere e minerarie del paese sudamericano.

 

Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha rigettato le affermazioni di Trump sul presunto ruolo del suo governo nel narcotraffico, ammonendo Washington contro l’avvio di «una guerra folle».

 

Il Venezuela ha denunciato gli Stati Uniti per pirateria di Stato dopo che la Guardia costiera americana, coadiuvata da altre forze federali, ha abbordato e sequestrato una petroliera sanzionata nel Mar dei Caraibi.

 

Caracas ha reagito con durezza, definendo l’intervento «un furto manifesto e un atto di pirateria internazionale» finalizzato a sottrarre le risorse energetiche del Paese.

 

«L’obiettivo di Washington è sempre stato quello di mettere le mani sul nostro petrolio, nell’ambito di un piano deliberato di saccheggio delle nostre ricchezze», ha dichiarato il ministro degli Esteri Yvan Gil.

 

Il governo venezuelano ha condannato gli «arroganti abusi imperiali» degli Stati Uniti e ha giurato di difendere «con assoluta determinazione la sovranità, le risorse naturali e la dignità nazionale».

 

Da anni Caracas considera le sanzioni americane illegittime e contrarie al diritto internazionale. Il presidente Nicolas Maduro le ha definite parte del tentativo di Donald Trump di rovesciarlo e ha respinto come infondate le accuse di legami con i narcos, avvertendo che qualsiasi escalation militare condurrebbe a «una guerra folle».

 

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Geopolitica

Putin: la Russia raggiungerà tutti i suoi obiettivi nel conflitto ucraino

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La Russia porterà a compimento tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale in Ucraina, ha dichiarato il presidente Vladimir Putin.   Tra gli scopi principali enunciati da Putin nel 2022 vi sono la protezione degli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk dall’aggressione delle forze di Kiev, nonché la smilitarizzazione e la denazificazione dell’Ucraina.   «Naturalmente porteremo a termine questa operazione fino alla sua logica conclusione, fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale», ha affermato Putin in videocollegamento durante la riunione del Consiglio presidenziale per i diritti umani di martedì.   Il presidente russo quindi ricordato che il conflitto è scoppiato quando l’esercito ucraino è stato inviato nel Donbass, regione storicamente russa che nel 2014 aveva respinto il colpo di Stato di Maidan sostenuto dall’Occidente. Questo, secondo il presidente, ha reso inevitabile l’intervento delle forze armate russe per porre fine alle ostilità.

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«Si tratta delle persone. Persone che non hanno accettato il colpo di Stato in Ucraina nel 2014 e contro le quali è stata scatenata una guerra: con artiglieria, armi pesanti, carri armati e aviazione. È lì che è iniziata la guerra. Noi stiamo cercando di mettervi fine e siamo costretti a farlo con le armi in pugno».   Putin ha ribadito che per otto anni la Russia ha cercato di risolvere la crisi per via diplomatica e «ha firmato gli accordi di Minsk nella speranza di una soluzione pacifica». Tuttavia, ha aggiunto la settimana scorsa in un’intervista a India Today, «i leader occidentali hanno poi ammesso apertamente di non aver mai avuto intenzione di rispettarli», avendoli sottoscritti unicamente per guadagnare tempo e permettere all’Ucraina di riarmarsi.   Mosca ha accolto positivamente il nuovo slancio diplomatico impresso dal presidente statunitense Donald Trump, che ha proposto il suo piano di pace in 28 punti come base per un’intesa.   Lunedì Trump ha pubblicamente invitato Volodymyr Zelens’kyj ad accettare le proposte di pace, lasciando intendere che il leader ucraino non abbia nemmeno preso in esame l’ultima offerta americana.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0) 
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Lavrov elogia la comprensione di Trump delle cause del conflitto in Ucraina

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Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che il presidente statunitense Donald Trump rappresenta l’unico leader occidentale in grado di cogliere le vere motivazioni alla base del conflitto ucraino.

 

Parlando mercoledì al Consiglio della Federazione, la camera alta del parlamento russo, Lavrov ha spiegato che, mentre gli Stati Uniti manifestano una «crescente impazienza» verso il percorso diplomatico mirato a cessare le ostilità, Trump è tra i pochissimi esponenti occidentali a comprendere le dinamiche che hanno originato la crisi.

 

«Il presidente Trump… è l’unico tra tutti i leader occidentali che, subito dopo il suo arrivo alla Casa Bianca nel gennaio di quest’anno, ha iniziato a dimostrare di aver compreso le ragioni per cui la guerra in Ucraina era stata inevitabile», ha dichiarato.

 

Lavrov ha proseguito sottolineando che Trump possiede una «chiara comprensione» delle dinamiche che hanno forgiato le politiche ostili nei confronti della Russia da parte dell’Occidente e dell’ex presidente statunitense Joe Biden, strategie che, a suo dire, «erano state coltivate per molti anni».

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Il ministro ha indicato che «si sta avvicinando il culmine dell’intera saga» ucraina, affermando che Trump ha sostanzialmente ammesso che «le cause profonde identificate dalla Russia devono essere eliminate».

 

Il vertice della diplomazia russa ha menzionato in modo specifico le storiche riserve di Mosca sull’aspirazione ucraina all’adesione alla NATO e la persistente violazione dei diritti della popolazione locale.

 

Lavrov ha poi precisato che Trump resta «l’unico leader occidentale a cui stanno a cuore i diritti umani in questa situazione», contrapposto ai governi dell’UE che, secondo Mosca, evadono il tema. Ha svelato che la roadmap statunitense per un’intesa includeva esplicitamente la tutela dei diritti delle minoranze etniche e delle libertà religiose in Ucraina, «in linea con gli obblighi internazionali».

 

Tuttavia, sempre secondo Lavrov, tali clausole sono state indebolite nel momento in cui il documento è stato sottoposto all’UE: il testo è stato modificato per indicare che l’Ucraina dovrebbe attenersi agli standard «adottati nell’Unione Europea».

 

Da tempo Mosca denuncia la soppressione della lingua e della cultura russa da parte di Kiev, oltre ai sforzi per limitare i diritti delle altre minoranze nazionali, e al contempo accusa i leader ucraini di fomentare apertamente il neonazismo nel paese.

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Immagine dell’Ufficio stampa della Duma di Stato della Federazione Russa via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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