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L’educazione sessuale come «educastrazione»

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La notizia la leggiamo sepolta dentro un’intervista del quotidiano La Verità al presidente della Società Psicoanalitica Italiana, cioè al capo dei seguaci di Freud – autore divenuto, nell’era del gender, lettura mostruosamente proibita. Parlando della follia dei bloccanti alla pubertà inflitti ai bambini – la famosa triptorelina offerta gratuitamente dal Servizio Sanitario Nazionale – Sarantis Thanopulous sgancia en passant un dato clamoroso: 

 

«La sessualità è seriamente repressa. È usata come dispositivo eccitante e antidepressivo o come calmante, ma sotto lo spettacolo in superficie si diffonde l’astensione dalla profondità del coinvolgimento erotico profondo» commenta. «Tra il 1991 e il 2021 la percentuale degli adolescenti americani che durante le High School hanno fatto l’amore almeno una volta è scesa dal 60%al 30% (dati ufficiali del governo americano)».

 

Fermi tutti. Cosa ci dice Thanopulous? Che i giovani figli della società laica americana, dove pure si è creata una vaga antropologia della perdita della verginità legata al ballo di fine anno del liceo, non si accoppiano più?

 

La questione è gigantesca, e riguarda, in verità, tutto l’Occidente moderno: in un mondo dove il sesso è stato detabuizzato, dove le oscenità e le perversioni vanno a finire persino in TV, in radio, a Sanremo, dove la pornografia è destigmatizzata e ubiqua, dove le pornostar diventano modelli di vita, la gente copula di meno?

 

E ancora: adesso che la cosiddetta «educazione sessuale» viene imposta nelle scuole fin dalla più tenera infanzia, per rendere tutto esplicito, visibile in ogni dettaglio, accessibile sempre, e così demolire a forza l’innato senso del pudore, davvero i ragazzi fanno l’amore meno di quelli che erano cresciuti nel rigoroso silenzio del sesso, con i gettoni telefonici in tasca al posto degli smartphone? 

 

Pare, secondo la statistica, che sia davvero così: il sesso liberato genera meno sesso. È una clamorosa eterogenesi dei fini, in apparenza. In realtà, non lo è affatto.

 

Tutto questo non nasce dal nulla. È un preciso un impegno istituzionale, continuo e radicatissimo, quello di spingere i giovani alla conoscenza di tutto ciò che riguarda il sesso, magari terminologicamente edulcorando il tema con ritocchi cosmetici orwelliani, come accade con l’etichetta tanto carina dell’«affettività».

 

Accade ovunque. Prendiamo l’esempio di un prestigioso liceo italiano, dove in tutte le classi nel corrente anno scolastico viene avviato il progetto di Educazione all’affettività e alla sessualità «approvato dal Collegio dei Docenti e realizzato in collaborazione e con il finanziamento del Comitato Genitori».

 

Si parte dalla lezione su «Emozioni e sentimenti: riconoscere, vivere e raccontare il mio sentire: riconoscere le emozioni e riconoscerle nel corpo», per arrivare presto a quella su «Anatomia sessuale: piacere, strutture biologiche esterne ed interne: la mia rappresentazione dei genitali», nella quale bisogna «creare un clima di condivisione e di confronto, anche in assenza dell’esperto, affrontare l’imbarazzo e conoscere e ri-conoscere le strutture anatomiche dei genitali esterni ed interni adibite al piacere e alla salute sessuale». Per familiarizzare col tema «ognuno disegna i genitali esterni maschili e femminili. Si disegnano insieme alla lavagna, analizzando l’anatomia genitale insieme, confrontandosi e lasciando spazio di espressione e dialogo ai ragazzi».

 

Non è impossibile pensare che tali discorsi anatomici possano causare, nei maschietti, tracolli di testosterone se non disfunzioni erettili conclamate.

 

Consapevoli del disagio che possiamo causare al lettore con la seguente citazione (della citazione), dopo averci pensato a lungo, ci sentiamo tuttavia di riportare un brano del Di[zion]ario erotico, bizzarro libro uscito lustri fa, del giornalista e scrittore Massimo Fini, perché rappresenta perfettamente ciò che potrebbe toccare ai giovani studenti. Si tratta di una lunga descrizione tecnica, tratta dall’Espresso, delle dinamiche biomeccaniche e biochimiche che investono l’organo maschile sottoposto a stimolo erotico: «”Lungo è il cammino che porta lo stimolo sessuale dall’ipotalamo (la zona del cervello dove ha sede l’eros) al muscolo liscio del pene causandone il rilassamento e il conseguente riempimento di sangue delle arterie che lo irrorano (l’erezione). A portare il messaggio al pene sono i trasmettitori che viaggiano lungo il midollo spinale fino ai nervi periferici situati nel pene. Qui, prima dell’arrivo del messaggio erotico, la situazione è tranquilla: il muscolo del pene è teso e arterie e vene fanno scorrere il sangue liberamente. Ma quando il neurotrasmettitore arriva col suo messaggio di eccitazione, le migliaia di caverne che formano il muscolo si rilassano, le spugne del tessuto si gonfiano di sangue, le arterie si dilatano e irrigano i corpi cavernosi e le vene bloccano il riflusso sanguigno mantenendo l’erezione. Uno dei messaggeri chimici che il cervello invia al pene è l’ossido di azoto che viene trasportato nell’organo genitale da un enzima, il GmpC. È questo enzima che induce l’erezione e, dopo l’orgasmo, viene distrutto da un’altra molecola, il Pde5, che ha il compito di ripristinare la quiete” (L’Espresso, 17 giugno 1999)».

 

L’autore quindi commenta: «È chiaro che dopo questa lettura terrorizzante uno il cazzo non se lo ritrova più, tanto è diventato piccolo, ci vuole la pila».

 

«La modernità – leggiamo ancora nel libretto finiano –, con la sua pretesa di illuminare tutto, spiegare tutto, smontare tutto, vivisezionare tutto, destrutturare tutto, ha tolto anche al sesso il mistero e quindi l’incanto. Il sesso vuole zone d’ombra, passaggi sconosciuti e mente sgombra da troppe elucubrazioni. “Il cazzo non vuole pensieri” dicono saggiamente i napoletani». Ancora: «il corpo funziona in base a certi automatismi di cui quello sessuale è uno dei più delicati. Per molte cose l’ignoranza è meglio della conoscenza. Se io mi metto a pensare intensamente al meccanismo che mi fa camminare mi paralizzo».

 

Torniamo ai programmi di «affettività» del prestigioso liceo. Un ulteriore incontro si intitola «Valori e norme interpersonali contrastanti in famiglia e nella società: il corpo delle donne» si tratterà di «potenziamento del pensiero critico, della libertà di scelta; legittimare la libertà di scelta e di pensiero. Identificare stereotipi e pregiudizi di genere». Possiamo immaginare di cosa si tratti questo fervore a favore della «scelta» (ci basta tradurre in inglese: pro-choice), ed è interessante che si tirino fuori, così, esplicitamente, gli eventuali contrasti tra quanto si respira in famiglia e l’aria che tira nella società.

 

Non accade solo dei licei. Anche le scuole inferiori sono oramai zeppe di pratiche di riprogrammazione psicosessuale dei bambini.

 

Raccogliamo storie da una chat di genitori sempre più sconvolti.

 

«Il mio l’ha fatto in terza media. Solo il primo incontro poi l’ho tenuto a casa. Ha portato a casa dei disegni che a momenti vomitavo io. Passando oltre ai soliti genitali descritti con minuzia, addirittura una partoriente con bimbo mezzo fuori in veduta frontale. Vi lascio il tempo di visualizzare e vomitare» dice una madre disgustata. «Ditemi a cosa serve in terza media sapere esplicitamente come nasce un bambino. L’avessi visto io alla sua età manco avrei fatto figli». La signora, forse inconsapevolmente, centra alla perfezione il discorso.

 

L’educazione sessuale, alla pari della cosiddetta «rivoluzione sessuale» (e la sua musica: l’espressione Rock and Roll è di fatto un riferimento osceno al sesso prematrimoniale che i giovani praticavano in auto, magari nei drive in), è stata concepita come strumento di controllo sociale, o meglio, come strumento e sterilizzazione delle masse.

 

Solo apparentemente si tratta di qualcosa di controintuitivo: più il sesso è libero e disinibito, più diventa centrale nella vita dell’individuo (al punto da generare minoranze), più ne sono ossessivamente esplorati, indagati, esaminati i meccanismi, meno è gioioso e fecondo. Semplicemente viene abbattuto il suo slancio vitale.

 

La «rivoluzione sessuale» del resto viene introdotta, casualmente, proprio quando compaiono sul mercato ormoni steroidei in grado di sterilizzare la donna (la pillola, dei cui allucinanti effetti collaterali si parla solo ora) e mentre spuntano leggi che, nei vari ordinamenti, permettono di sbarazzarsi degli effetti indesiderati della sessualizzazione precoce e totale, ovvero con la legalizzazione dell’aborto. 

 

Più sesso, meno popolazione. Una contraddizione solo apparente. Ora i dati raccontano che si è andati ben oltre: più educazione sessuale, più pornografia, meno sesso. 

 

Con ciò certamente il padrone del vapore vuole degradarci e umiliarci, e il sesso disordinato è una tecnica sublime per farlo. Ma non è questa la cosa che gli importa di più. Vuole, soprattutto, la diminuzione della popolazione sulla terra. E ci sta riuscendo. Sessualità, omosessualità, transessualità, polisessualità, sono tutti strumenti per contrarre le nascite. 

 

A rivoluzione sessuale (anzi omotransessuale) pienamente compiuta, ci tocca usare una parola coniata da Mario Mieli, tratta da un suo famigeratissimo passo – che non ripeteremo – contenuto nel suo libro-manifesto Elementi di critica omosessuale: «educastrazione». E tocca persino ringraziare per lo spunto. Grazie, Mario!

 

È un fatto. L’educazione sessuale è precisamente questo: educastrazione. L’educazione sessuale è di fatto un anticoncezionale. Un modo per allontanare l’essere umano non solo dalla riproduzione, ma perfino dal sesso in generale. Un sistema di controllo biologico fatto per interrompere la vita con i suoi processi.

 

Del resto, nella follia dei cambi di sesso promossa presso i giovani, le castrazioni sono materialmente una pratica centrale. Gli educastrati, imbottiti di ormoni sintetici e mutilati delle parti intime (quelle mostrate loro con perizia alla lavagna) non faranno figli. Ma ne faranno meno anche quelli che semplicemente si sono sciroppati a scuola anni di letteratura biomedica sul membro, con gli effetti anatomo-patologici di cui parlava più su il Fini.

 

Il progetto è tutto qua ed è chiarissimo. Chi combatte la vita vuole riportarvi all’inorganico – quindi non solo darvi la morte, ma evitarvi la riproduzione.

 

Se per realizzarlo devono distruggere i magici tremori dell’adolescenza – viva la mononucleosi! – di milioni di esseri umani, pazienza: l’hanno già fatto chiudendoli in camera per due anni in compagnia di un schermo elettronico.

 

Ora si tratta di capitalizzare il disagio prodotto e di ingranare un cambio di marcia, e accelerare sull’autostrada diretta verso un inferno dove la tangenziale della fornicazione corre il rischio di restare deserta, o chiusa per sempre.

 

RDB

EF

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Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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