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All’ombra del papa crematorio

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Non tutti sembrano rendersi conto della profondità del gesto di Bergoglio che si reca ad omaggiare il Napolitano pronto per la camera ardente.

 

Si tratta di una vicenda di portata immensa, di un fenomeno di devastazione multidimensionale. E forse pure di valore catartico, vorrebbe dire la speranza dentro di noi, visto che, grazie a tale tracotanza, trame oscure, anche vecchie di secoli, tornano ad affiorare.

 

Ebbene, partiamo dal fatto che la presenza del papa di fatto benedice l’attività della cremazione, per secoli e millenni osteggiata dalla Chiesa cattolica, almeno fino a Montini, che tolse il divieto assoluto per i cattolici appena dopo essere stato eletto papa – i soliti maliziosi dicono che fosse una sorta di pegno pagato a chi lo aveva aiutato a salire sul Soglio di Pietro.

 

La cremazione è sempre un’opzione inaccettabile per le persone ancorate alla tradizione cattolica. Si tratta infatti di una pratica assai fortemente sospinta dalla massoneria, e proibita dalla Chiesa per secoli.

 

Sin dal Risorgimento – l’operazione che la massoneria intraprese con i Savoia per cancellare l’Italia cattolica – la cremazione cominciò ad essere diffusa nel Paese da soggetti di chiara emanazione massonica.

 

I massoni adducevano la cifra igienico-sanitaria della cremazione, ma anche la sua supposta presenza nella preistoria.

 

Leggiamo da un documento pubblicato su internet dal sito Loggia Garibaldi 1436, «sotto l’influenza dei massoni e per loro volontà, la cremazione è ridiventata, dopo duemila anni, una pratica funeraria legale».

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«Massoni erano Francesco Crispi, Luigi Pagliani, Malachia De Cristoforis, Gaetano Pini, Ariodante Fabretti e molti altri. La massoneria di quei tempi operava concretamente per “il bene e il progresso dell’umanità”: i massoni, che avevano già il grande merito di aver dato un decisivo contributo a “fare l’Italia” e a costruire lo stato laico nato dal Risorgimento, si accingevano a “fare gli italiani”. Cioè alla costruzione di una religione civile in grado di sostituire le nuove appartenenze dello stato laico alle vecchie identità, sedimentatesi nelle credenze religiose».

 

«La diffusione della cremazione da parte dei massoni nell’Ottocento è il prolungamento di un più generale discorso sulla fondazione di una morale laica, in grado di fronteggiare adeguatamente, in tutti i campi, l’egemonia di norme e comportamenti a sfondo confessionale. Poiché l’essenza della proposta cremazionista era – in sintesi – una tensione etica di trasformazione sociale, in nome dell’uomo, della scienza e del progresso, i massoni si dedicarono con slancio alla sua affermazione».

 

Si tratta, come ammesso qui, di una questione di riprogrammazione della morale, chiaramente in senso anticristiano: se ci pensate, polverizzare un corpo con il fuoco è visivamente la negazione della promessa della resurrezione della carne fatta dalle Sacre Scritture, e rappresentata dal Cristo risorto, vincitore della morte, il cui corpo – idea intollerabile per i grembiulisti – è presente sostanzialmente nella Santa Eucaristia diffusa in ogni Santa Messa.

 

«La sepoltura è professione della fede nell’articolo della resurrezione dei corpi (…). Mai come oggi, in questo clima gnostico, il corpo umano è visto come un insieme di elementi da riutilizzare o distruggere a piacere, con uno scopo puramente utilitaristico» leggiamo in un articolo pubblicato dalla Fraternità San Pio X.

 

La sepoltura, diceva Sant’Agostino «se non serve alla salvezza del morto, come pensavano alcuni pagani, è però dovere di umanità, perché nessuno ha in odio la propria carne».

 

La questione dell’odio del proprio corpo, che si vuole disintegrare, è consonante con la guerra all’Imago Dei dinanzi ai nostri occhi: l’odio per l’essere umano, fatto ad immagine di Dio, che dall’aborto alla provetta all’ingegneria genetica è la cifra del nostro tempo.

 

Da notare come tale odio sta portando la cremazione a mutazioni sempre più grottesche. È il caso dell’acquamazione, di cui Renovatio 21 ha parlato: la scelta fatta dal vescovo anglicano-mandeliano Tutu, che per non inquinare (bruciare un corpo produce CO2) ha voluto far dissolvere il suo corpo nell’acido, un po’ come accadeva, viene da pensare alle povere vittime della mafia Matteo Messina Denaro. Secondo quanto è dato di capire, i resti liquidi del cadavere vengono quindi gettati in fogna.

 

L’ecologismo spinge anche verso lidi edificanti, come il «compostaggio umano»: la trasformazione del corpo del defunto in concime, che poi viene dato ai campi coltivati. Più Stati americani hanno già leggi in merito. Qualche lettore può capire che si tratta, di fatto, di reintrodurre il corpo umano nella catena alimentare: il prossimo passo potete dire voi quale potrebbe essere.

 

Il papa crematorio visto al Senato italiano riporta alla mente tutti questi pensieri anticristiani, antiumani. Ma non è tutto.

 

C’è di mezzo il fatto che si è trattato di un ex inquilino del Quirinale, il cui nome originario, per esteso, è Palazzo Apostolico del Quirinale o Palazzo Papale del Quirinale: sì, si tratta di un regale edifizio inglobato dal Regno d’Italia massonico con la presa di Roma. Il Quirinale dal XVI secolo ha ospitato, come residenza estiva o come luogo alternativo ai Palazzi Vaticani, almeno trenta papi, da Gregorio XIII a Pio IX.

 

Fatti sloggiare i papi, sono arrivati i Savoia, la famiglia da cui, secondo una leggenda metropolitana che rifiutiamo con forza, ma che sta ancora circolando in queste ore, deriverebbe Napolitano, pure chiamato per qualche motivo «Re Giorgio», dichiarato dai diffusori di fake news come possibile figlio biologico di Umberto II di Savoia.

 

Nell’ambiente del tradizionalismo cattolico si mormorava che, usurpato il Quirinale e obbligato alla messa quotidiana per tranquillizzare il popolino rimasto cattolico e non ancora massonizzato – le monarchie erano tutte ancora cristiane, la monarchia massonica suonava e suona tutt’oggi abbastanza maletto – il re nella cappella sedesse in prima fila leggendo il giornale durante la liturgia.

 

Ora, in molti hanno notato i piccoli segni lasciati visibili nella vicenda: Bergoglio arriva in carrozzina ma poi si alza davanti alla bara, in silenzio e con la mano sul cuore, una gestualità il cui significato ora non indagheremo.

 

Soprattutto c’è quello che Camillo Langone ha definito «un fatto straordinario»: il papa non si è fatto il segno della croce, né ha benedetto la salma.

 

Il Vaticano ha quindi fatto sapere che Bergoglio ha voluto «esprimere, con la presenza e la preghiera, il suo personale affetto a lui e alla famiglia, e onorare il grande servizio reso all’Italia». In assenza di segni esterni, non capiamo quindi se la benedizione del cremando sia partita di default, forse dal foro interiore dell’argentino, forse latae sententiae.

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Bisogna capire che chi è rimasto un po’ vigile negli anni si ricorda di strane dichiarazioni di Bergoglio nei confronti di Napolitano ed altri personaggi.

 

Il 14 novembre 2013 Bergoglio varca le porte del Quirinale – il palazzo dei papi – per andare a trovare il presidente che ora vi abita, e che poco prima era stato rieletto.

 

«Con viva gratitudine ricambio oggi la cordiale visita che Ella ha voluto farmi lo scorso 8 giugno in Vaticano. La ringrazio per le cortesi espressioni di benvenuto con cui mi ha accolto, facendosi interprete dei sentimenti del Popolo italiano» disse Bergoglio in tono solenne.

 

«Mi è particolarmente gradito infine associarmi alla stima e all’affetto che il Popolo italiano nutre per la Sua persona e rinnovarLe i miei auguri più cordiali per l’assolvimento dei doveri propri della Sua altissima carica. Iddio protegga l’Italia e tutti i suoi abitanti».

 

Pochi anni dopo, scattò come una dichiarazione di stima improvvisa, che fece molto discutere per altri personaggi che vi erano associati. Era il 2016 quando Francesco parlò al Corriere della Sera di «grandi personaggi dimenticati» della storia recente, i «grandi dell’Italia di oggi».

 

«Ad esempio la donna-sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini» disse il romano pontefice, già facendo capire l’importanza che l’isola siciliana aveva nei suoi progetti. Non va dimenticato come uno dei suoi primi viaggi, a poche settimane dal conclave fu proprio a Lampedusa (come si diceva prima: pegni da pagare dopo aver ricevuto l’anello piscatorio?) dove, in mare aperto, diede il via alla migrazione di massa poi divenuta la crisi europea sotto i nostri occhi anche in questi giorni. Bergoglio celebrò quello che fu il più grande spot pubblicitario per convincere i giovani africani a venire in Italia e in Europa – perché se lo dice il loro papa che devono aiutarci, perché mai non tentare la traversata? L’analista geopolitico Edward Luttwak arrivò a dire che le morti di quanti annegano tentando di attraversare il mare possono essere attribuiti a tale trovata mediatica.

 

Poi tra i «grandi italiani», Francesco nominò proprio il Napolitano, che nel frattempo si era dimesso per lasciare il posto a Mattarella. Bisognava fargli i complimenti comunque per il bis: «quando Napolitano ha accettato per la seconda volta, a quell’età, e sebbene per un periodo limitato, di assumersi un incarico di quel peso, l’ho chiamato e gli ho detto che era un gesto di “eroicità patriottica”».

 

Per tentare di capire meglio il senso di questa uscita, o forse di rinunciare a comprendere del tutto, bisogna considerare che il terzo «grande personaggio dimenticato» dell’Italia recente era, per Bergoglio, Emma Bonino.

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Per il papa, la radicale «è la persona che conosce meglio l’Africa. E ha offerto il miglior servizio all’Italia per conoscere l’Africa. Mi dicono: è gente che la pensa in modo molto diverso da noi. Vero, ma pazienza. Bisogna guardare alle persone, a quello che fanno».

 

Sulla questione della Bonino in Africa ci sarebbe molto da dire, anche se i dettagli sono ancora oscuri. La radicale nel dicembre 2001 si era trasferita al Cairo, con lo scopo, disse, di imparare la lingua e la cultura araba – risulterebbe quindi che più dell’Africa, si occupasse di Islam e dintorni. Nel 2011, come noto, il Cairo subì una rivoluzione colorata, la cosiddetta «Primavera Araba» che portò al potere i Fratelli Musulmani, di colpo divenuti «tollerabili» per gli USA, ma spodestati non troppo tempo dopo da un generale dell’esercito, Abdel Fattah Al-Sisi, il quale, come riportato da Renovatio 21, ora parla di politica del figlio unico.

 

La storia repubblicana riporta la sua carriera, che si incrocia con quella di Napolitano, davanti a cui nel 2013 la Bonino giura per l’alta carica di ministro degli Esteri.

 

Ma torniamo alle parole del papa, al «guardare alle persone, a quello che fanno».

 

Se un cattolico guarda a quello che avrebbe fatto la Bonino, vengono in mente tutte le campagne contro la morale cattolica (divorzio, feticidio, cellule staminali, droga, matrimonio omosessuale, etc.), e contro il Vaticano stesso: ricordiamo la manifestazione «No Vatican No Taliban» (2007), o la campagna pubblicitaria dei tempi in cui la volevano lanciare come candidata proprio al Quirinale: «decidi tu o il Vaticano».

 

Sono tutte cose che sono sparite, magicamente, con l’arrivo di Bergoglio.

 

Ancora: se un cattolico guarda a quello che avrebbe fatto la Bonino, vengono in mente, soprattutto, le accuse di aver praticato migliaia di aborti clandestini prima della legge 194. Cioè, migliaia di esseri, che la chiesa chiamava un tempo «bambini» cancellati, squartati, spazzati via, buttati via.

 

E qui possiamo aprire l’album dei ricordi dell’attivista pro-life: il 10 maggio 2015 si tenne la quinta Marcia per la Vita, allora più grande manifestazione antiabortista del Paese. Varie edizioni della marcia, per ragioni non del tutto chiare, terminava in Piazza San Pietro per l’Angelus del papa, il quale snobbava la portata della manifestazioni citando, tra le sue premure, villaggi franati in Afghanistan e salutando dalla finestrella, al pari delle migliaia giunti per protestare contro l’aborto, cori di località padane sperdute, associazioni sconosciute, etc.

 

Chi scrive ha visto all’Angelus di quell’anno una signora – ammirata per il coraggio granitico e la lunghissima storia di militanza pro-life – mettersi a piangere. Non era certo nota per il sentimentalismo: eppure spremute d’occhi le rigavano il volto passando sotto gli occhiali fumé, nella tragica realizzazione di come i bambini non nati non fossero minimamente nei pensieri del vertice della Chiesa cattolica.

 

Quelle lacrime, se ci ripenso oggi, mi sembrano come lo spartiacque oltre il quale il Vaticano bergogliano diveniva ai miei occhi non più recuperabile, se non con un reboot massivo, i cui modi e i cui confini sono per me ad oggi ancora incalcolati.

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Ebbene, l’11 maggio, cioè all’indomani della marcia e dell’Angelus delle lagrime, il papa incontrò Emma Bonino in un’udienza organizzata in Vaticano, in un evento dove c’erano – significativo – 7.000 bambini. I giornali scrissero che Bergoglio l’aveva chiamata nei giorni precedenti per informarsi su come stava (era il periodo in cui si era detto stava male, e aveva iniziato a girare con quel copricapo simile ad un turbante) e per incoraggiarla a «tener duro». Durante l’incontro i due parlarono per qualche istante, e la foto di Emma sorridente a pochi centimetri dal papa ancora ce la ricordiamo.

 

Tanti schiumarono di rabbia. Tanti si sentirono pugnalati, perfino dall’istituzione stessa. Non avevano capito che era solo l’inizio, era solo uno degli episodi del papato crematorio, della storia del papa che, forse ritenendola un cadavere, incendia la chiesa stessa.

 

C’è poca differenza tra il papa della Bonino abortista e quello di Napolitano in camera ardente. La mancanza di rispetto per l’insegnamento cattolico e la sensibilità dei fedeli è evidente, continua, è programmatica.

 

Tuttavia, c’è di più: come non vedere, l’abbraccio al Nulla, come non vedere il nichilismo antropologico che prepara la logica dello sterminio: il corpo umano è nulla, la vita umana è nulla. L’uomo può essere sprecato, cancellato, disintegrato, de-creato – come in un incubo gnostico, che odia l’universo e l’essere umano e vuole distruggerlo. Il controllo della popolazione, e l’incipiente bioingegneria umana, oltre al sacrificio infinito di innocenti, vengono da qui, dal punto in cui si è voluto posizionare il pontefice.

 

All’ombra di questo papa, stiamo assistendo, prima ancora che del corpo, alla cremazione dello spirito umano.

 

È il trionfo della morte, è il trionfo della Necrocultura – perpetrato da chi dovrebbe invece custodire la vita e la dignità umana.

 

Quale punizione sia riservata a chi commette un simile tradimento non sappiamo: ma è possibile che neppure importi, perché il corpo cremato è, come vogliono i massoni, un essere riconsegnato al nulla, perché dopo la morte non c’è il giudizio, c’è il niente, c’è il Grande Nulla.

 

Persone con simili idee, persone senza timor di Dio, lo capite, vanno tenute il più lontane possibili dai gangli del potere.

 

Tutti i nostri problemi nascono da qui: da coloro che credono di poter bruciare l’essere senza conseguenze.

 

Ce li ritroviamo, ora, in cima alla piramide. Ma per quanto ancora, non sappiamo.

 

Roberto Dal Bosco

 

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Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.   Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.   Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.   L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.   Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)   Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)   Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.   È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.   Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).   Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.   A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.   Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.   Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.   Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.   Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.   La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).   Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)   Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.   Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.   La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.   La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).

 

La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.

 

Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.

 

 

 

 

Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.

 

 

 

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).

 

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

 

Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.

 

 

Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.

 

Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.

 

Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.

 

Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.

 

Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».

 

La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…

 

Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.

 

 

 

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).

 

Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.

 

L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.

 

 

Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.

 

Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.

 

Taro Negishi

Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Immagine di Mr.ちゅらさん via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International; immagine tagliata

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».   Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.   «Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».   Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».   L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».   L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».   La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».   «L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.   Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».   Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.   Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.  

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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